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giovedì 28 giugno 2012

La preghiera di Gesù: mistero della spiritualità ortodossa

Di Élisabeth Behr-Sigel

Da «La douloureuse joie: Aperçus sur la prière personnelle de l’Orient chrétien. Éditions de l’Abbaye de Bellefontaine, 1981».

1. L’opera spirituale

Uno tra gli elementi più importanti della preghiera monastica nella Chiesa ortodossa è la “Preghiera di Gesù” chiamata anche “preghiera” o “azione spirituale”. La sua forma esterna – si potrebbe dire la sua realtà “materiale”– è la ripetizione più frequente possibile del Nome di Gesù Cristo, associata alla preghiera del pubblicano (Lc 18,14) e si esprime in questi termini: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”.

La sua essenza spirituale è “la discesa della mente nel cuore”, giungendo, attraverso la purificazione del pensiero e la memoria costante di Gesù Cristo, all’illuminazione dell’uomo interiore attraverso la Grazia divina e la presa di coscienza dell’abitazione mistica in sé dello Spirito Santo.

La pratica di questa preghiera è una tradizione antica e venerabile della Chiesa d’Oriente. Essa proviene da una corrente spirituale che risale ai Padri del deserto della quale l’insegnamento dei grandi pensatori cristiani del III e del IV secolo è l’espressione teologica.

Male o poco conosciuta in Occidente, tale grande tradizione mistica, in qualche sorta anima della teologia orientale, ha suscitato comunque ricerche e lavori interessanti. Ma questi studi, scritti da specialisti di letteratura patristica greca ignoravano generalmente le forme più recenti che riguardano la tradizione antica praticata dalle chiese slave e greche moderne, tradizione vivente al di fuori della quale gli antichi testi rimangono spesso incomprensibili al punto che Padre I. Hausherr scriveva: “La questione dell’esicasmo non presenta solo un interesse storico – sufficiente del resto a meritargli l’attenzione dei ricercatori in questi tempi di rinnovamento degli studi ascetici e mistici – essa non ha perso la sua attualità nell’Oriente ortodosso. Alcuni pensano pure che, tra tutte le questioni il cui studio s’impone – in chi s’interessa dell’avvenire religioso greco o slavo – questa è la più importante”. Noi aggiungiamo che la letteratura ascetica e mistica russa, che potrebbe fornire degli insegnamenti preziosi sulla permanenza e il rinnovamento della pratica della preghiera spirituale, resta quasi totalmente sconosciuta in Occidente.

Sappiate che l’opera divina della santa preghiera spirituale fu l’occupazione costante dei nostri anziani padri teofori e che, simile al sole, essa risplendette tra i monaci, tra i numerosi eremitaggi e nei monasteri dove si praticava la vita comunitaria, al Monte Sinai, presso i solitari d’Egitto e del deserto nitrico, a Gerusalemme e nei monasteri situati attorno a tale città; in breve in tutto l’Oriente, a Costantinopoli, al Monte Athos, nelle isole dell’Arcipelago e infine, in questi ultimi tempi per grazia di Cristo, nella Grande Russia.

È con queste parole che inizia il primo dei Capitoli sulla vita spirituale del grande starets russo del XVIII secolo, san Paisi Velitchkovski. Così, secondo la testimonianza di uno dei più zelanti promotori della “preghiera spirituale” nel monachesimo russo dei tempi moderni, la pratica di tale preghiera risale alla più alta antichità cristiana e fa parte del patrimonio sacro della tradizione ortodossa. Attraverso la loro opera letteraria, san Paisi e i suoi discepoli si proponevano, d’altronde, di far conoscere ai monaci slavi i testi patristici greci riguardanti la “Preghiera di Gesù” e di provare che i suoi diffusori non portavano cose nuove ma, al contrario, rinnovavano una tradizione antica e venerabile della Chiesa.

Tale era, in particolare, uno dei fini proposti nella traduzione della famosa Filocalia dei Padri neptici, che fu, lungo la prima metà del XIX secolo con la Bibbia e il Gran menologio (Vita dei santi) di san Dimitri di Rostov, il nutrimento spirituale preferito dei monaci russi. La scuola di Paisi non faceva altro che proseguire, d’altronde, l’opera iniziata nel XVI secolo da san Nil Sorski, primo religioso scrittore russo presso il quale troviamo un’esposizione sistematica de “L’opera spirituale”.

Non bisogna dimenticare che la tradizione della Preghiera di Gesù è trasmessa, prima di tutto, da un insegnamento orale diretto. Un po’ in disparte dai centri monastici russi, ma sempre in intima relazione con essi, si trovava sovente una poustinia, cioè un eremitaggio, o una skite, nome dato a un piccolo gruppo di celle isolate dove viveva qualche monaco sotto la direzione di un “anziano”. Là, lontano dal rumore dei pellegrini e della vita comune del monastero, uno o più solitari si dedicavano all’opera spirituale. Erano ammessi solamente qualche raro visitatore laico e qualche giovane monaco che aveva sentito la chiamata per la “vita in solitudine”.

Essi ricevevano dagli anziani l’iniziazione alla preghiera spirituale, iniziazione sempre molto personale, adattata al temperamento e al grado di maturità spirituale del discepolo. Tutti gli starets russi, da Paisi Velitchkovski a Teofane il Recluso, hanno sempre insistito sulla necessità, per coloro che si vogliono impegnare nella via della preghiera contemplativa, di fare ricorso a un maestro sperimentato e di seguirne i consigli in uno spirito di totale sottomissione. “I santi Padri – afferma lo starets Paisi – dicono che questa santa preghiera è un’arte. La ragione, mi sembra, che sia la seguente: com’è impossibile ad un uomo istruirsi in un’arte senza ricevere lezione da un artista affermato, così è impossibile praticare questa opera spirituale senza un maestro sperimentato”. Ne segue che ogni conoscenza puramente libresca e razionale dell’opera spirituale, senza essere accompagnata da un’esperienza vissuta in intimità con un maestro spirituale, rimane schematica e totalmente inadeguata.

2. L’invocazione del nome

Abbiamo già brevemente definito la “preghiera spirituale” come l’invocazione del Nome di Gesù Cristo accompagnata dall’intelligenza (o spirito) nel cuore. Ora è giunto il momento di precisare il senso di tale definizione.

Essa afferma, inizialmente, che il contenuto oggettivo essenziale della preghiera è il Nome di Gesù Cristo. Lo starets Paisi, al capitolo V del suo opuscolo, la descrive come il fatto di “portare costantemente nel cuore il dolcissimo Gesù e d’essere infiammato dall’incessante appello del suo beneamato Nome con un ineffabile amore per lui”. Colpisce che questa definizione stabilisca uno stretto legame tra il “Nome” e la “Persona” di Gesù Cristo. Invocare il Nome, è già un portarLo in se. La potenza del Nome è quella di Cristo stesso. Il fuoco della sua Grazia, si rivela nel Nome del Signore, infiamma il cuore di un amore ineffabile e divino. Ogni sorta di interpretazione “psicologica” e “nominalista” è, qui, sbagliata.

La Preghiera di Gesù non è un esercizio per creare, con una ripetizione meccanica, una sorta di monoideismo psicologico. Non si tratta di far funzionare un meccanismo psicologico ma di liberare una spontanea forza spirituale, quel “grido del cuore” che fa zampillare, come una sorgente d’acqua viva, la presenza del Signore, comunicato dalla pronuncia del Nome divino. Il Nome di Cristo è dunque certamente un’altra cosa che un semplice segno. È un simbolo, se con questo termine si designa quello che è lo strumento di una comunicazione reale con l’oggetto significato. Rivela il Verbo divino e Lo rappresenta, cioè lo rende presente in una maniera comparabile a quella dell’icona; rappresenta e attualizza per il credente, nella Chiesa ortodossa, la potenza del Cristo e dei suoi santi.

Questo spiega come per i diffusori della “preghiera di Gesù”, la recita di essa sia, da una parte un “mezzo”, dall’altra il “fine” stesso della vita spirituale. È un mezzo perché “le parole sono un aiuto per lo spirito debole che non ama fermarsi in un luogo e su un solo oggetto”. Il grande male di cui soffre l’umanità decaduta è il disordine interiore, la dispersione dei pensieri e dei sentimenti che rendono l’uomo incapace di fissare il suo spirito su Dio.

La preghiera, e più d’ogni altra la Preghiera di Gesù, tende a ricreare l’unità spirituale e questo non solo perché essa “riassume in qualche parola molto semplice l’essenza della fede cristiana”, ma perché il Nome di Cristo comunica all’uomo la forza della Grazia divina con la quale diviene capace di allontanare le forze demoniache la cui presenza genera disordine e menzogna. Chiamando in aiuto il Signore Gesù nella lotta contro il nemico e contro le passioni, l’orante è testimone della loro sconfitta nel Nome terribile di Cristo e riconosce la potenza di Dio e del suo aiuto.

Ma se, nella lotta contro le forze del Male la cui opera è la disintegrazione spirituale dell’uomo, la Preghiera di Gesù è un mezzo, uno strumento, essa trova pure in se stessa il suo proprio fine. La realtà trascendente di Dio si rivela e si comunica nel Nome di Gesù Cristo, il fine consiste nell’assorbirsi nella pronuncia di questo, far rimanere il Nome, cioè la Persona di Cristo, impossessandosene nell’intero essere e principalmente nel cuore, affinché lo stesso suo battito divenga preghiera, glorificazione del Nome del Signore. Fintanto che la preghiera è meccanica e celebrale, il fine non è raggiunto.

È necessario che lo spirito in qualche maniera s’immerga nella preghiera, ch’essa prenda intero possesso di lui affinché l’irraggiamento del Nome divino penetri fino alle profondità dell’essere e le rischiari. Questo è il senso delle misteriose parole degli starets quando esortavano i loro discepoli “a discendere dal cervello nel cuore”. Qui non si tratta d’uno sforzo puramente intellettuale d’assimilazione del senso delle parole della preghiera, accompagnato da un certo calore emotivo. Il Nome di Gesù Cristo contenuto nella preghiera “apporta” realmente con se la presenza di Dio. Aprirsi a questa “presenza reale” affinché essa penetri le profondità più intime del suo spirito e le illumini, è quanto costituisce lo sforzo dell’orante.

Dal punto di vista soggettivo, ossia, dal punto di vista dell’ascensione dell’uomo, gli starets hanno l’abitudine di distinguere due gradi nell’ “opera spirituale”. (Senza dubbio in realtà ne esistono un numero infinito, ma questa prima distinzione è essenziale). Così, secondo la testimonianza degli “Anziani”, ci sarebbe per coloro che si dedicano all’ “opera spirituale” un primo periodo nel quale predomina il sentimento per lo sforzo personale e il dolore: è la preghiera attiva o “laboriosa”. Il secondo periodo è quello della preghiera “spirituale” o “carismatica”, chiamata anche “spontanea” o “contemplativa”.

3. La preghiera attiva

Affermare che nella frase sull’opera spirituale predomina, almeno apparentemente, lo sforzo della volontà umana, non significa che la Grazia sia assente. Ma questa non agisce che all’insaputa dell’uomo. Egli fatica con il sudore della sua fronte, ma il suo lavoro non porta alcun frutto. Senza dubbio è sollecitato dalla Grazia divina, dal momento che costui decide di consacrare la sua vita a Dio aspirando al dono della preghiera spirituale.

Ma quello che, per iniziare, gli tocca in sorte, è un lavoro fastidioso, una lotta ardua contro le passioni, i pensieri malvagi, la noia e la tristezza, lotta dove molto sovente viene vinto e dalla quale ne esce estenuato, scoraggiato dalla visione deprimente del suo peccato e della sua impotenza. È segno della privazione della Grazia divina? No. Perché è proprio là che essa vuole condurre: “Il cammino verso la perfezione è il cammino che conduce alla confessione della mia cecità, della mia povertà, della mia nudità e, indissolubilmente legata alla coscienza di questo stato, alla contrizione spirituale, al sentimento doloroso della nostra impurità, ossia, detto diversamente, al pentimento perpetuo”.

Così, all’ingresso della via che conduce ai gradi supremi della preghiera mistica, troviamo, secondo l’insegnamento degli starets russi, l’approfondimento della coscienza del nostro stato di peccato e la contrizione a causa di tale peccato. Forse questo vorrebbe dire che, per i diffusori della “preghiera spirituale”, la lotta attiva contro il male e le opere ascetiche propriamente dette non contano niente? No. La lotta contro le passioni i pensieri vani o malvagi, caratterizza precisamente la prima fase dell’opera spirituale, quella della “preghiera laboriosa”. Anche l’ascetismo ha il suo luogo ben definito. Senza dubbio vale meglio, secondo i Padri, “cadere e rialzarsi che rimanere in piedi e non pentirsi”.

Ma d’altra parte, è spiritualmente pericoloso darsi alla preghiera in stato di grave peccato. Maledetto colui che si compiace della sua falsa tranquillità, rassicurandosi all’idea che nessuno può vivere senza peccare volontariamente o involontariamente. Al contrario, è salutare all’uomo lottare virilmente contro il peccato fino allo stremo delle sue forze. Dopo essere caduto, si rialzerà implorando umilmente l’aiuto della misericordia di Cristo. Lavorando con pena sarà veramente vivo e porrà in se il fondamento della vita nuova. Dunque non esiste alcun quietismo, alcuna passività lassista e, allo stesso tempo, alcuna confidenza in se e nelle proprie opere.

Teofane il Recluso ha espresso ancor più chiaramente questa paradossale esigenza dell’opera spirituale: “Sforzatevi fino allo sfinimento. Portate le vostre forze fino all’ultimo grado, ma la stessa opera della vostra salvezza attendetela solo dal Signore... Il Signore desidera sempre tutto quanto ci è salutare ed è pronto a donarcela. Attende solo che noi siamo pronti o capaci di ricevere i suoi doni. Ecco perché la domanda ‘come imparare a conservarmi?’ si muta in quest’altra: ‘Come essere sempre pronto a ricevere la forza salutare che è sempre pronta a discendere dal Signore su di noi?...’ Ed ecco la risposta a questa domanda. Aprirsi alla grazia ossia ‘sapere vuotarsi, privarsi di ragione, senza forza; sapendo che solo il Signore può, vuole e sa colmare questo vuoto’”.

Così lo sforzo morale e spirituale e i successi ascetici che ne sono la manifestazione non sono fecondi se non conducono all’umiltà, un’umiltà attiva, che non si compiace dello spettacolo della miseria umana, ma conduce alla sua essenziale opera, quella che è sia la confessione della sua impotenza, sia il segno della sua speranza nella preghiera di tutti gli istanti: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, peccatore”. Per colui che conosce la sua miseria, essa non è più, in effetti, un’ “opera meritoria” gradita a Dio, ma un grido del cuore, di disperazione e di speranza, un bisogno irresistibile e perpetuo di chiamare Cristo in aiuto della sua impotenza nella lotta contro le forze demoniache e le inclinazioni malvagie del proprio cuore, che sono tra loro complici.

Lo spirito d’obbedienza

Prima di parlare dell’opera della preghiera propriamente detta, è necessario menzionare ancora un’altra condizione che deve trovar luogo, secondo l’insegnamento degli “Anziani”, in colui che aspira alla preghiera spirituale. Si tratta dell’acquisizione dello spirito d’obbedienza. L’obbedienza di cui si parla non è l’obbedienza gerarchica ai superiori. È la sottomissione al “padre spirituale”, scelto liberamente al quale il novizio si affida totalmente.

“Colui che vuol apprendere l’opera divina deve, conformemente alle Scritture, sottomettersi all’obbedienza nel corpo e nell’anima, cioè sottomettersi ad un uomo timoroso di Dio, che osserva scrupolosamente i comandamenti divini e sia provato nell’opera spirituale, rinunciando totalmente alla sua volontà e al proprio giudizio”. L’insegnamento degli starets russi raggiunge qui la dottrina ascetica degli esicasti greci. Ma, forse, più di loro, pone l’accento sul carattere libero e personale di quest’atto d’elezione reciproca che implica la paternità spirituale.

Qual è il fine di tale obbedienza ascetica? Prima di tutto essa libera il novizio da ogni pensiero a proposito della sua anima e del suo corpo e da ogni affezione verso qualsiasi oggetto, facendo giungere così alla serenità, a questa leggerezza spirituale che è la condizione della vera libertà. Solo colui che ha rinunciato alla propria “volontà”, ossia alla sua superficiale individualità, schiavo degli elementi di questo mondo, è capace di concentrare le sue facoltà sulla preghiera interiore.

Un altro beneficio dell’obbedienza è quello di allontanare dalla precipitazione chi, cercando prematuramente degli stati mistici superiori, cade con sicurezza vittima delle trappole del Seduttore. Una delle essenziali cause di caduta nell’opera della preghiera è, in effetti, “l’orgoglio satanico di coloro che vogliono sondare, prima d’esserne chiamati, i misteri della grazia”. Unico rimedio efficace a tale funesta impazienza è la sottomissione ai saggi consigli di un “anziano” capace di discernere il grado di crescita spirituale di colui che guida facendolo avanzare passo dopo passo nella via contemplativa.

La pratica della preghiera

Finora abbiamo parlato dell’atmosfera spirituale nella quale dev’essere intrapresa l’opera della preghiera. Quanto alla preghiera in se stessa, in apparenza, non sembra presentare alcuna difficoltà. In effetti, si tratta di ripetere centinaia e migliaia di volte: “Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio, abbi pietà di me, peccatore”. Ma precisamente, questa semplicità è la sorgente di parecchie tentazioni. Le anime pure e rozze, come il pellegrino dei Racconti, possono compiacersi e fare dei rapidi progressi. Ma per la maggior parte, essa è causa di noia e scoraggiamento. La preghiera appare loro come un lavoro fastidioso e sterile dal quale lo spirito tende incessantemente a spogliarsi.

Comunque, non si tratta assolutamente di creare, attraverso la ripetizione, un’abitudine puramente meccanica. Tra i diffusori della Preghiera di Gesù esiste una reazione vivissima contro il formalismo e il meccanicismo, i due scogli della preghiera monastica. Come la confidenza eccessiva nelle opere esterne, nell’ascetismo e nelle mortificazioni, l’importanza esagerata alla quantità, nell’opera della preghiera, è sorgente di fariseismo e di vana soddisfazione di se. Contro coloro che credono di potersi salvare con l’osservanza d’una regola di preghiera più o meno lunga, “attraverso il canto dei salmi e dei tropari”, contro coloro che si dedicano all’opera spirituale accordando troppa attenzione al numero di preghiere da recitare, essi affermano che non è la “quantità”, ma la “qualità” della preghiera che conta.

“Non inquietatevi per il numero delle preghiere da recitare – scrive a tal proposito Teofane il Recluso – ma il vostro unico pensiero sia che la preghiera sgorghi dal vostro cuore, vivente come una sorgente d’acqua zampillante. Allontanate dal vostro spirito l’idea della quantità”. Questa esortazione può parere paradossale perché, nella pratica della Preghiera di Gesù, la ripetizione della stessa implorazione gioca certamente un ruolo essenziale. In realtà, questa da se stessa non produrrebbe altro che un effetto puramente psicologico e superficiale. La preghiera non sarà che un flusso di parole vane, se essa non si accompagna con ciò che il linguaggio ascetico denomina con i termini di “attenzione” o “vigilanza” (nepsis in greco).

L’attenzione spirituale

In che consiste quest’attenzione spirituale? Bisogna che al momento della preghiera lo spirito “discenda dal cervello nel cuore” e che egli “custodisca il cuore”. I commentatori occidentali hanno sovente dato a quest’espressione un’interpretazione ristretta e superficiale. Riferendosi alla descrizione d’una certa tecnica psico-fisiologica, che si trova in parecchi testi esicasti e in particolare nel famoso Metodo d’orazione esicasta, al consiglio dato di concentrare l’attenzione sul luogo fisico del cuore, trattenendo per un po’ la respirazione e regolando il ritmo di questa su quello della preghiera, alcuni autori hanno parlato, riguardo alla “custodia del cuore”, d’“omfaloscopia” (contemplazione ombelicale, n.d.r.) e hanno visto in questo un’essenziale caratteristica dell’orazione esicasta.

In realtà, essi hanno confuso una certa tecnica esteriore, la cui efficacia è, d’altronde, discutibile perfino negli ambienti favorevoli alla preghiera di Gesù, con lo sforzo spirituale che essa sostiene. La sua vera ragione d’essere, in effetti, è quella di condurre l’orante a sentire, in una maniera in qualche sorta fisica – l’autopercezione che noi abbiamo di noi stessi in quanto esseri fisici è differente a seconda della parte del corpo sulla quale si fissa l’attenzione – che il centro della personalità non si trova nel cervello, punto d’intersezione delle forze spirituali della persona con il mondo esterno, mondo delle cose “sovrapersonali”, ma nel cuore, o piuttosto nelle profondità misteriose dell’essere di cui il cuore fisico è simbolo.

Il ruolo della tecnica è, dunque, puramente strumentale. È uno strumento temibile che il novizio non deve maneggiare se non ponendosi sotto la direzione di un maestro sicuro e sperimentato. Non si tratta né d’esagerare il suo ruolo, né di minimizzarlo sotto l’influenza d’un certo pseudo-spiritualismo razionalista che non ha nulla di cristiano. L’attenzione alla preghiera, condizione della “discesa dell’intelligenza nel cuore” è, in realtà, una tensione di tutto l’essere che allontana da se tutto quello che potrebbe distrarlo dalla sua essenziale opera: quella della preghiera. È una vigilanza dello spirito e del corpo nell’attesa del Dio vivente.

Essa esige uno sforzo continuo e cosciente della volontà e trascina con sé, attraverso appropriati mezzi, la pesante corporeità.

Essa comporta un doppio movimento, il primo di rifiuto e l’altro d’acquiescenza; rifiuto del mondo da una parte (questo termine nel nostro contesto non designa il mondo fisico in se, ma “un girovagare dell’anima all’esterno, un tradimento alla propria natura” sotto l’influenza della Potenza del Male) e, dall’altra, l’acquiescenza alla volontà di Dio, che si trasforma in dono e abbandono a lui. Lo spirito “attento” e “sobrio”, si porta dall’esteriore che lo sollecita, agli abissi interiori del cuore, unico luogo dove, nella luce dello Spirito Santo, può effettuarsi l’incontro tra la persona umana e la divinità. “Il Signore cerca un cuore pieno d’amore per lui e per il prossimo – questo è un trono sul quale ama sedersi e dove appare nella pienezza della sua gloria”, diceva san Serafim di Sarov.

Per meglio comprendere la natura dell’attenzione, conviene precisare il senso dei termini “cuore” e “spirito” (o “intelligenza”) nel linguaggio mistico della Chiesa d’Oriente. Il termine russo um, che traduciamo con “spirito” o “intelligenza”, corrisponde all’originale termine greco noûs. Non designa l’intelletto nello stretto senso razionalista del termine, ma l’insieme delle facoltà cognitive e contemplative, la luce della ragione e la coscienza che fa dell’uomo un essere personale e libero. I padri greci, e con loro gli starets russi, identificano molto sovente lo spirito con l’immagine di Dio nell’uomo. Impiegando una terminologia più moderna, potremo chiamarla coscienza personale che illumina tutte le sfere della vita umana, essa stessa concepita come un insieme complesso di rapporti con diversi ordini di realtà.

Quanto al “cuore”, il termine designa nella Tradizione orientale il centro dell’essere umano, “la radice delle facoltà attive, dell’intelletto e della volontà, il punto da dove proviene e verso il quale converge tutta la vita spirituale”. È la Sorgente, oscura e profonda, da dove sgorga tutta la vita psichica e spirituale dell’uomo e per la quale egli è vicino e comunica con la Sorgente stessa della vita. Ne risulta che tutta la vita spirituale che non tocca il cuore non è che illusione e menzogna, non avendo alcuna realtà ontologica, alcuna radice nell’Essere, e che ogni vera conversione deve cominciare da quella del cuore. In effetti è alla sorgente che, attraverso il peccato originale, la vita dell’uomo è viziata e che il fango si mischia con le acque limpide. Ma “quando la grazia s’impadronisce delle pasture del cuore, essa regna su tutte le parti della natura, su tutti i pensieri. Poiché lo spirito e tutti i pensieri si ritrovano nel cuore”.

Secondo sant’Ignazio Brjanchaninov, “la natura spirituale dell’uomo è doppia. Da una parte si trova il “cuore”, sorgente dei “sentimenti”, delle “intuizioni” con i quali l’uomo conosce Dio direttamente senza la partecipazione della ragione. Dall’altra parte la “testa” (o il cervello), sede del chiaro pensiero dell’intelligenza”. L’integrità della persona umana risiede nel rapporto armonioso tra queste due forze spirituali. Senza la partecipazione dell’intelligenza, le intuizioni del cuore restano oscuri impulsi. ugualmente, senza il cuore, che è il centro di tutte le attività e la radice profonda della propria vita, l’intelletto-spirito è impotente.

Ontologicamente, la conseguenza essenziale della Caduta per l’uomo è precisamente questa disgregazione spirituale con la quale la personalità è privata del suo centro e l’intelligenza si disperde nel mondo esterno. Luogo di questa dispersione della personalità nel mondo delle cose è la testa, il cervello, dove i pensieri “turbinano come dei fiocchi di neve o sciami di mosche estive”. Con il cervello, lo spirito conosce un mondo esteriore e, allo stesso tempo, perde il contatto con i mondi spirituali e con il cuore che, così accecato e impotente, opprime oscuramente la realtà. Per ricostruire la persona nella grazia, bisogna dunque ritrovare un rapporto armonioso tra l’intelligenza e il cuore.

Il silenzio dell’anima

Il ritorno cosciente e volontario dell’intelletto-spirito verso gli abissi interiori del cuore esige, a sua volta, la rottura totale con il mondo. Colui che vuole darsi all’opera spirituale deve allontanarsi da ogni percezione esteriore, “distaccarsi da tutti gli oggetti visibili... (e fermare) gli occhi di carne”. Essendo divenuto cieco al mondo, deve pure divenire “sordo e muto” rinunciando, almeno provvisoriamente, a ogni conversazione umana.

Ma il silenzio esteriore non è che la preparazione e il segno d’un silenzio dell’anima infinitamente più profondo. Poiché non devono essere solo allontanate le percezioni sensibili e le parole, ma ogni desiderio, ogni pensiero, ogni immagine, pure santa che sia, tutto ciò che attira lo spirito all’ “esterno”, al di fuori di questo luogo del cuore dove non conosce che la sua miseria e il Nome che la salva. Su questo silenzio di totale nudità, san Serafino di Sarov ha detto che è “una croce sulla quale l’uomo si crocefigge con tutte le sue passioni e concupiscenze”, è “passione sofferta con il Cristo”, ma anche “mistero del secolo futuro”. In effetti, è in lui che lo spirito ha accesso al santuario mistico del cuore dove troverà il suo Dio.

Questa è la via della “preghiera laboriosa”, via stretta e dolorosa. Asprezza, nudità d’un deserto spirituale dove il viandante deve volontariamente chiudere gli occhi da ogni miraggio consolatore. Poiché bisogna rigettare non solamente ogni immagine terrestre ma quelle stesse che sembrano d’origine divina, le “visioni”, le “voci”, le “dolcezze” apparentemente celesti, ma che sovente non sono che il frutto d’uno psichismo guastato dalla concupiscenza, le mortificazioni eccessive dove il desiderio impaziente di anticipare l’ora della grazia cerca delle pseudo-soddisfazioni nel sogno e nell’immaginazione. Anche la saggezza esige nel momento dell’orazione, soprattutto all’inizio dell’opera spirituale, di non rappresentare assolutamente neppure le immagini di Dio proposte dalle Sacre Scritture, sulle quali può essere utile meditare in altri momenti. È questo il vero digiuno, la santa “sobrietà” di coloro la cui anima si nutre unicamente di preghiera e di fede. La preghiera, in effetti, non è l’opera dell’immaginazione, ma della fede.

La più semplice regola riguardante la preghiera è quella di non rappresentare nulla, avendo concentrato lo spirito nel cuore, di rimanere nella convinzione che Dio è vicino, che vede ed ascolta; di prosternarsi davanti a colui che è terribile nella sua grandezza e vicinanza e nella sua condiscendenza verso noi... bisogna sforzarsi di pregare senza immagini di Dio. Conservare nel cuore la fede che Dio è presente, ma, dal momento che lo è, non rappresentarlo neppure. (Teofane il Recluso).

Così la via spirituale dell’orante passa attraverso il deserto, ma non cammina certo nelle tenebre. La luce, pura e completamente immateriale che lo guida, è la fede, che schiarisce la sola immagine dove lo spirito trova un punto d’appoggio, il Nome beneamato di Gesù Cristo. L’attenzione alla preghiera è, in realtà, un’attenzione nella fede.

Effettivamente, anche se perviene al grado supremo di concentrazione delle sue forze psichiche e spirituali, l’uomo non è capace di ricreare in se l’unità persa dello spirito e del cuore. Può solamente fare nella sua anima questo silenzio e vuoto che sono il segno sia d’una tensione estrema, sia d’un abbandono totale, segno dell’attesa, della speranza e della fede, del dono dello Spirito Santo.

4. La preghiera spirituale

“L’attenzione e la contrizione sono come il sagrato del santuario”, scrive Ignazio Brjancaninov, o, ancora, come i cancelli della piscina di Bethesda, dove sono raccolti gli ammalati in attesa dell’angelo il quale, agitando l’acqua, li curava (Gv 5, 2-4). “Ma solo il Signore, nel momento a lui conosciuto, consente la guarigione e l’ingresso nel santuario secondo la sua ineffabile e incomprensibile benevolenza”. Qui si va oltre il livello della preghiera “faticosa” per toccare il mistero della preghiera “spirituale” o “carismatica”.

Gli starets russi sono estremamente discreti per quanto riguarda i livelli più elevati del lavoro spirituale. Non si tratta, infatti, di misteri che il nostro linguaggio umano non può tradurre in modo adeguato? Non è forse inutile, se non pericoloso, parlare di realtà spirituali a coloro la cui comprensione, ancora immersa nel mondo materiale e fisico, non può funzionare? “Non si deve aprire il proprio cuore senza bisogno”, consiglia San Serafino di Sarov, “tra migliaia non troverai neanche uno che sia in grado di mantenere il tuo segreto”. Se non da loro stessi, piuttosto dalle testimonianze di alcuni amici di coloro che erano “i compagni dei divini misteri”, intravediamo qualcosa delle grazie mistiche che illuminano la vita di un Serafino di Sarov o degli Starets d’Optina. Più intellettuali, più consapevoli del pensiero occidentale dei primi, Teofane il Recluso e Ignazio Brjancaninov sono quasi più loquaci.

Il primo frutto dell’orazione, il primo segno sensibile del dono della grazia, che annuncia una trasformazione della natura stessa della preghiera è, secondo le testimonianze di tutti i maestri dell’opera spirituale, lo scoppio delle lacrime di pentimento. Lo sforzo della preghiera, in cui l’orante, senza stancarsi, confessa a volte la sua miseria e la sua fede in Gesù Cristo, è paragonabile al lavoro di un trapano. Sotto gli strati superficiali, pietrificati e sterili della vita psicologica, egli cercherà la fonte di acqua viva, del sincero pentimento. Ma questo manifesta l’azione della grazia all’uomo. Le lacrime, non certo quelle della disperazione o dell’orgoglio ferito, ma quelle salutari del pentimento, sono il segno del vacillamento degli strati profondi dell’essere, in cui sono inghiottiti come una lama che fonde, l’orgoglio e la fiducia in sé dell’uomo naturale. Lì questa commozione, nel vero senso del termine, scioglie la durezza del cuore con il tocco della grazia divina.

“Nel cuore di colui che versa delle lacrime di commozione risplendono i raggi del Sole della giustizia, Cristo Dio” (Serafino di Sarov). Nell’anima preparata a riceverlo per la fatica della preghiera, per la discesa dell’intelligenza nel cuore in cui si scopre i segni della origine divina e quelli della decadenza, in quest’anima già purificata dalle lacrime di pentimento, il Santo Spirito può compiere il suo lavoro.

In primo luogo, la grazia mostra all’uomo il suo peccato, che appare dinnanzi a lui. Mettendo costantemente sotto i suoi occhi questo terribile peccato, lo porta a giudicarsi da solo. Essa gli rivela la nostra caduta, quest’abisso terribile, profondo e scuro della perdizione in cui la nostra razza è caduta attraverso la partecipazione al peccato di Adamo. Poi, a poco a poco, offre una grande attenzione e commozione del cuore nel momento della preghiera.

Avendo così preparato il vaso, in un modo improvviso, inaspettato, immateriale, colpisce le parti da esso separate, ed esse s’incontrano. Chi ha colpito? Non riesco a spiegarlo. Non ho visto niente, non ho sentito nulla, ma mi sono visto cambiato, improvvisamente mi sono sentito così a causa di una forza onnipotente. Il Creatore ha agito per il “restauro”, come ha agito per la creazione. Quando le sue mani hanno toccato il mio essere, l’intelligenza, il cuore e il corpo si sono riuniti per costituire un’unità. Poi si sono immersi in Dio e lì dimorano fintanto che li sostiene la Sua mano invisibile, impercettibile e onnipotente (Teofane il Recluso).

Così, il primo e fondamentale dono della grazia (dono positivo dove il pentimento sincero, che è una sorta d’aspetto negativo) è la restaurazione della natura spirituale dell’uomo, e la sua originaria integrità. L’intelligenza e il cuore, questi due poli della vita interiore, tornano ad essere un’unità armoniosa nella quale entrambe le tendenze opposte si fondono in modo sinfonico per costruire la persona nella grazia.

Bisogna notare che ciò che è qui descritto non è un rapimento, un’estasi passeggera o per lo meno non lo è essenzialmente. Senza dubbio, l’anima resta “immersa in Dio” “fintanto che è sostenuta dalla mano onnipotente” pur trattandosi, dal punto di vista della contabilità umana, solo di pochi instanti. Ma dopo l’estasi, l’effetto della grazia divina rimane. Si tratta di una profonda trasfigurazione ontologica: un uomo nuovo nasce, nel quale sorgono delle facoltà, delle capacità, delle nuove visioni. In lui, il disordine antico dà posto a un nuovo ordine, dominato dalla coscienza della presenza di Dio. Questa riveste un’evidenza in alcuni comparabili punti, evidenza infinitamente superiore a quella di un assioma matematico.

La conseguenza più notevole di quest’unione del cuore e dell’intelligenza è la radicale trasformazione del carattere stesso della preghiera. Se questa era precedentemente un’opera laboriosa e talvolta dolorosa, essa ora sgorga spontaneamente, senza sforzo, riscaldando il cuore e riempiendolo di luce, di pace e di gioia. Mentre l’estasi è un dono raro, accordato solo ad alcuni, questo cambiamento della natura della preghiera è il segno più usuale, il più infallibile dell’azione della grazia a coloro che si dedicano all’opera spirituale. Ecco come descrive questa trasformazione il pellegrino dai Racconti:

Un mattino fui, per così dire, svegliato dalla Preghiera. Cominciai a dire le solite orazioni del mattino, ma la lingua non si muoveva con scioltezza. Avevo un solo intensissimo desiderio: recitare la Preghiera di Gesù. E appena la cominciai ne ebbi sollievo e gioia, mentre la lingua e le labbra si muovevano da sole e senza alcuno sforzo da parte mia. Passai tutta la giornata in grande letizia. Ero come distaccato da tutto, come se mi trovassi in un altro mondo…

… Passai tutta l’estate a recitare senza posa la Preghiera di Gesù e sperimentai l’assoluta pace dell’anima. Durante il sonno sognavo spesso di recitare la Preghiera. E di giorno, se mi capitava di incontrare qualcuno, tutte quelle persone senza distinzione mi parevano altrettanto amabili che sé fossero state della mia famiglia. Ma non m’intrattenevo mai con nessuno. I pensieri si erano spontaneamente acquietati. Pensavo unicamente alla Preghiera; il mio spirito si tendeva ad ascoltarla, e il mio cuore cominciò a provare, a tratti, un senso di calore e di piacere…

Ora cammino e incessantemente ripeto la Preghiera di Gesù, che mi è più preziosa e più dolce di ogni cosa al mondo. A volte percorro più di sessanta verste in un giorno e non me ne accorgo nemmeno. La sola cosa che avverto è la Preghiera. Quando il freddo intenso mi attanaglia, la recito con più attenzione e subito mi sento riscaldare. Se la fame comincia a farsi sentire mi metto a invocare più spesso il Nome di Gesù Cristo e dimentico il pungolo della fame. Quando mi ammalo e le gambe e la schiena cominciano a dolermi, concentro il pensiero sulla Preghiera e non sento più il dolore. Se qualcuno mi offende, non ho che da ricordare la dolcezza della Preghiera di Gesù: umiliazione e collera scompaiono, dimentico tutto. Sono come semicosciente. Non ho preoccupazioni né interessi. Alle cure del mondo non concederei uno sguardo. Vorrei solo restare nella mia solitudine, un unico desiderio mi abita, recitare incessantemente la Preghiera; e mentre prego mi sento colmare di gioia. Dio sa che cosa mi sta succedendo!.

La testimonianza dell’umile pellegrino si unisce a quella dei maestri dell’opera spirituale. Si tratta di San Serafino di Sarov, che senza dubbio ha dato a questa esperienza, la più concisa e più perfetta espressione: “Quando il Signore riscalda il tuo cuore dal calore della sua grazia e ti ristabilisce nell’unità del tuo spirito [letteralmente: “quando ti riunisce in un solo spirito”], allora questa preghiera ininterrotta zampilla in te. Essa dimorerà sempre con te, ti delizierai e ti nutrirà”.

I frutti della preghiera ininterrotta sono il calore spirituale, la serenità, il distacco dal mondo e soprattutto l’amore per Dio. “Coloro che desiderano essere uniti dall’amore del Dolcissimo Gesù, scrive lo starets Paisi, disprezzando tutte le bellezze di questo mondo, tutte le tenerezze e anche il riposo del corpo fisico, non vogliono avere niente di diverso che l’attività paradisiaca dello spirito che si dedica a questa preghiera ininterrotta”. Infiammando il cuore di amore verso Dio, la Preghiera stessa di Gesù appare quindi come il frutto di questo divino Amore, toccando il cuore e lo spirito dell’uomo risuscitandoli ad una vita nuova. “Il fuoco spirituale del cuore è l’amore verso Dio; s’infiamma quando Dio tocca il cuore, perché è interamente Amore e per il suo contatto il cuore s’infiamma di amore per lui”.

In questa nuova vita, ogni possibilità di tentazione e di caduta non è ancora esclusa. Ma colui visitato dalla grazia a cui è concessa una lucidità spirituale, ha la possibilità di lottare efficacemente contro i suoi nemici interni. Finora era immerso nel buio e come un uomo che è stato attaccato nella notte, colpisce a caso dei nemici invisibili. Ora l’intuizione costante della presenza di Dio è come una candela posta al centro della coscienza, illuminando ogni suo angolo.

Lo stato di grazia appare quindi non come uno stato passivo e di riposo, ma come un’attività feconda di purificazione che si compie nella gioia, anche se la fedeltà alla grazia può ancora essere richiesta; San Teofane il Recluso insiste su questo punto, con dei dolorosi sacrifici.

Una caratteristica unica ai maestri spirituali russi della preghiera si rivela meno nella loro dottrina che nel loro atteggiamento pratico. La preghiera ininterrotta la cui dolcezza riempie il cuore di pace e di gioia, lungi da separarli dagli uomini, infine, li riavvicina. Infatti, se durante la fase iniziale, il silenzio assoluto e la lontananza sono stati per loro la condizione stessa di ogni progresso spirituale, viene un momento in cui sentendo la preghiera profondamente radicata nei loro cuori, il ritorno agli uomini gli appare con la necessità di un’obbedienza alla volontà divina.

San Serafino di Sarov, gli starets di Optina accolgono migliaia di pellegrini; ricevono innumerevoli lettere e rispondono. Se per san Nilo Sorsky, nel XVI secolo, questa attività di cura dell’anima ha ancora il carattere di un volontario sacrificio ispirato da amore fraterno, tra gli starets del XIX secolo è come la realizzazione della loro vocazione spirituale. Al centro della folla, la preghiera mistica continua a risuonare nel loro cuore intimamente unita al suo movimento, costituendo come il tessuto della loro vita interiore, ma non impedisce loro di prendere parte alla vita degli uomini.

Essi giungono a considerare la possibilità della preghiera spirituale per tutti i cristiani. Paisi Velickovskij aveva già ammesso che la pratica della preghiera di Gesù può essere raccomandata ai laici. Tuttavia, nel cerchio dello starets Moldavo, il metodo della “preghiera spirituale” trova il suo compimento nell’orazione monastica. È legata, secondo Paisi ed i suoi amici, alla rinascita del monachesimo nei paesi slavi. Nei loro scritti, dai loro precetti e dai loro consigli, si rivolgono soprattutto ai monaci, ai quali soltanto sarebbero accessibili i livelli più elevati della preghiera contemplativa.

Questo non è esattamente l’atteggiamento degli starets del XIX secolo. Senza dubbio la vita monastica appare loro anche come il modo per eccellenza che porta all’unione con Dio. Ma la loro profonda esperienza di una preghiera, la cui fiamma è lontana da spegnersi dal tocco del mondo, si nutre di un’attività caritativa che riavvicina gli uomini, ispirando loro un nuovo concetto dell’opera spirituale. Quest’ultima, anche nelle forme più mistiche, non sarebbe incompatibile con la vita nel mondo e l’attività culturale. San Serafino di Sarov elabora una regola di preghiera per i laici. Facendone partecipe un laico, Nicola Motovilov, in una delle sue illuminazioni più straordinarie, come dimostrazione della possibilità per tutti di ricevere dalla preghiera il dono del Santo Spirito. Teofane il Recluso dice ugualmente che la preghiera spirituale non esclude qualsiasi attività, ma solo quelle che fanno male o sono vane: “È sbagliato, scrive, credere che per compiere la preghiera spirituale bisogna essere seduti in un luogo segreto per contemplare Dio. Per pregare è necessario nascondersi nel proprio cuore piuttosto che altrove e, fissandosi lì, vedere il Signore seduto alla nostra destra, come fece Davide”.

Senza dubbio, l’opera spirituale richiede la concentrazione interiore e, di conseguenza, una certa solitudine. Ma se la completa solitudine è impossibile nel mondo, ognuno non può trovare delle “ore solitarie” durante le quali fortificherà e vivificherà in sé la preghiera di Gesù, fino a quando, radicandosi nel suo cuore, l’accompagna anche nel mezzo del flusso rumoroso della vita del mondo?

Così, con le testimonianze dei più recenti maestri della mistica ortodossa, la preghiera ininterrotta di Gesù, può e deve diventare l’atmosfera spirituale di ogni vita cristiana. Ma questo non porta per niente a minimizzare il carattere mistico ed estatico degli stati nei quali, al suo limite, si compie il lavoro spirituale dell’orante.

Abbiamo già parlato del discernimento della maggioranza dei mistici ortodossi, questo tipo di modestia spirituale che li trattiene di parlare delle più grandi grazie che hanno ricevuto. Tuttavia, abbiamo delle testimonianze molto chiare sulla loro esperienza mistica, in particolare su quella di San Serafino di Sarov. Quest’ultimo, parlando dei più alti livelli della preghiera contemplativa, s’esprime così: “Quando l’intelligenza e il cuore sono uniti nella preghiera e l’anima non è disturbata da nulla, allora il cuore si colma di calore spirituale, e la luce di Cristo inonda di pace e di gioia tutto l’uomo interiore”.

La luce di Cristo, della quale parla il santo, non è né sensibile, né intellettuale ma spirituale, ed illumina la profondità del cuore. Tuttavia, com’è stato detto, può diventare visibile agli occhi carnali di coloro ai quali è data la grazia insigne di contemplarla. È la luce della Vita che conoscono solo quanti vivono in essa e sono illuminati da essa. Esperienza di una semplicità infantile, affermata con forza San Serafino, ma ineffabile. Tuttavia l’infante (infans) non è proprio l’essere che non può parlare, il miracolo dello spirito, la nascita di questa nuova e inesprimibile infanzia (cfr Gv 3, 5-7)?

Dono del Santo Spirito, ebbrezza dello spirito umano nel fulgore della gloria increata di Dio, questa è la rivelazione finale dell’opera spirituale. Qui la preghiera supera se stessa. Se, secondo le parole di San Serafino, “con la preghiera, siamo in grado di dialogare con il Dio vivificante”, tuttavia ogni preghiera si ferma quando Dio scende in noi con la sua grazia. “Visitati da lui, bisogna fermarsi di pregare. Infatti, a cosa giova implorarlo: ‘Vieni, fai in noi la tua dimora, purificaci da ogni macchia e salva le anime nostre, tu che sei buono’ (Tropario recitato all’inizio degli uffici), quando è già venuto in risposta alle nostre umili e amorevoli sollecitazioni?”. [...]

Intravediamo, così, la fine della preghiera mistica: la trasfigurazione dell’intero uomo, nell’unità del suo spirito e del suo corpo con la Luce divina, Luce di Cristo e del Santo Spirito, fulgore glorioso della Santa Trinità. Va osservato che, nelle esperienze qui descritte, lo spirito dell’uomo, pur avendo coscienza di partecipare alla Vita divina non perde la coscienza personale, non si annienta, ma, al contrario, acquisisce una lucidità soprannaturale. Per il mistero insondabile del dono della grazia, la natura umana è cambiata. Le tenebre della materia si dissipano e, sconfitte, diventano trasparenti nello Spirito. L’uomo è in grado di vedere la gloria di Dio.

Questo non è che il termine terrestre della preghiera, gli inizi delle illuminazioni del secolo a venire. La fine della preghiera mistica annuncia, in verità, la fine dei tempi: la liberazione dell’intera Creazione della “schiavitù della corruzione, verso la libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 21)!

Infine, è verso la luce senza declino del Giorno eterno, ma di cui l’alba si leva da ora per coloro che sanno riconoscere i segni, che ci dirige la testimonianza degli oranti della Preghiera di Gesù.

5. Una preghiera per il nostro tempo

Detta anche “opera spirituale”, la Preghiera di Gesù si trova al centro della tradizione ascetica e mistica del monachesimo contemplativo ortodosso. Le sue radici affondano nell’antichità cristiana, in particolare nella spiritualità dei Padri del deserto. Sarebbe, però, inesatto considerarla come una sola venerabile reliquia di un’epoca passata, colorata, per l’uomo occidentale, di un certo esotismo. Come metodo di orazione semplice e flessibile, la Preghiera di Gesù è ancora attuale. Essa è stata adottata da uomini e donne moderne, adeguata alla loro mentalità e al loro modo di esistenza. Irradiata al di là dei quadri istituzionali del monachesimo, ha aiutato dei laici che vivono nel mondo ad unire la loro vita secondo lo Spirito di Gesù Cristo.

Storicamente, la pratica della preghiera di Gesù è nata dall’incontro tra due diverse correnti spirituali: il culto biblico (e, più in generale, semita) per i Nomi di Dio da un lato, la pratica dell’orazione chiamata “giaculatoria” negli ambienti monastici del deserto, dall’altro.

Purificandola da credenze più o meno magiche, nella Bibbia appare, infatti, l’idea che il Nome divino è una rivelazione, una manifestazione dinamica della trascendente Persona di Dio. Molti testi dell’Antico Testamento sarebbero pertinenti a questo contesto. Nei Salmi, in particolare, il Nome divino appare come un rifugio, un potere ausiliatore. Ma nel Nuovo Testamento si devono soprattutto ricordare i molteplici riferimenti al Nome di Gesù sotto una varietà di forme, in cui la traduzione in francese “au Nom de Jésus” [“nel nome di Gesù”], o quella latina sono impotenti a rendere la ricca complessità e il dinamismo. Tre testi sono di importanza capitale: Giovanni 16, 23-24, Atti 4, 12 e Filippesi 2, 9-10.

Per quanto riguarda l’orazione giaculatoria, sant’Agostino, al quale dobbiamo la sua descrizione, la incontrò già dal IV secolo, dai monaci del deserto egiziano, sotto forma di preghiere frequenti, ma molto brevi, come “lanciate rapidamente” (quodammodo jaculatas). La formula utilizzata per le invocazioni era il Kyrie eleison o un versetto del Salterio. Ma un giorno il Nome di Gesù sarà associato all’orazione giaculatoria. Questo incontro, la fusione tra il Nome e l’aspirazione, sarà l’opera di una scuola mistica designata con il termine mistico dell’esicasmo. Questo movimento che si estese per molti secoli (dal V al XVIII secolo e in una certa misura, fino ai nostri giorni), ha conosciuto uno sviluppo e diverse tendenze ed espressioni. Ciò che tuttavia lo costituisce nella sua continuità, è la ricerca di una tecnica contemplativa destinata a unificare e a pacificare l’uomo interiore, in Cristo, con la grazia del Santo Spirito.

Dopo una certa eclissi nel XVII secolo, la Preghiera di Gesù conosce assai paradossalmente una rinascita nel “secolo dei lumi” della Ragione. Allo stesso tempo, segno e strumento di questo rinnovamento, avviene la pubblicazione nel 1782 della Filocalia (vale a dire Amore della bellezza) dei Padri neptici, che apre un periodo di diffusione della Preghiera di Gesù in diversi paesi ortodossi e negli ambienti più diversi al di fuori del quadro monastico originale. Tradotto in russo con il titolo di Dobrotolioubje, questo libro ha influenzato il popolo russo, più di quanto abbia influenzato la Filocalia negli ambienti greci. È stato con la Dobrotolioubje che non solo i monaci, ma pure la gente semplice dei villaggi, uomini e donne di tutti gli ambienti, si sono familiarizzati con i Padri, con lo spirito e i metodi della preghiera contemplativa.

Dopo i disordini della Rivoluzione del 1917, l’emigrazione russa che s’installa difficilmente in Europa e in America, conosce anch’essa, una discreta primavera filocalica. Per il suo intermediario, la Preghiera di Gesù penetrerà in alcuni ambienti cristiani occidentali, cattolici, protestanti, e soprattutto anglicani.

Praticata egualmente bene sia dall’operaio che lavora in fabbrica o nel fondo delle miniere che dal professore di teologia, si spoglia, in questo nuovo contesto storico, di concettualizzazioni ereditate del passato per ritrovare la sua spontaneità e la sua originaria semplicità.

Quindi, si rivela per quello che è sempre stata essenzialmente: non come credenza nella virtù magica di una formula ma attenzione alla Presenza di Dio il cui Nome divino è un sacramento; non alienazione in un meccanismo ossessivo, ma arte spirituale che, portando l’intelligenza del mondo dei fenomeni alle profondità del cuore, cioè della persona, prepara questo cuore per ricevere il perdono, la pace, l’illuminazione; non abolizione del pensiero e della coscienza personale, ma rincontro nella comunione, lucida, con la persona teantropica di Gesù. Esigendo un certo silenzio e ritiro, almeno interiore, dal mondo, la Preghiera di Gesù è anche strumento di offerta e di trasfigurazione di tutta la creazione. Alla spiritualità monastica tradizionale, si giunge così a integrare uno dei temi essenziali della filosofia religiosa russa moderna: la visione di un mondo trasfigurato nella speranza.

Ci si riferisce ad un autore laico, Nadezhda Gorodetzky, che ha parlato probabilmente con la maggior esattezza e sobrietà dell’uso pratico della Preghiera di Gesù, nel modo in cui un cristiano di oggi la può sperimentare, vivendo nel mondo, e dell’ispirazione che vi può trovare:

La preghiera di Gesù è così semplice che non è necessario impararla per ricordarla… Molti si occupano del loro lavoro abituale ripetendo questa preghiera. Né il lavoro domestico, né il lavoro nei campi, né il lavoro nelle industrie sono incompatibili con essa… È anche possibile, sebbene più difficile, collegare a questa preghiera delle occupazioni intellettuali. Essa blocca un sacco di pensieri e parole vuote o vane o poco caritatevoli.

Essa santifica la fatica e i rapporti quotidiani… Dopo un certo tempo, le parole dell’invocazione sembrano da esse stesse venire sulle labbra. Introducono sempre più nella pratica della presenza di Dio… Le parole sembrano scomparire gradualmente. Una veglia silenziosa che accompagna una pace profonda del cuore e dello spirito, si manifesta attraverso il tumulto della vita quotidiana… Il Nome di Gesù, può diventare una chiave mistica che apre il mondo, uno strumento di oblazione segreta di ogni cosa e di ogni persona, l’apposizione di un sigillo divino sul mondo. Forse sarebbe qui il luogo per parlare del sacerdozio di tutti i credenti. In unione con il nostro Sommo Sacerdote, imploriamo lo Spirito: Fai della mia preghiera un sacramento.

In conclusione, vorremmo sottolineare la portata ecumenica della Preghiera di Gesù. Così scrive il Monaco della Chiesa d’Oriente, “l’invocazione del Nome di Gesù fu, alle origini, comune a tutti: dimora ed è accessibile a tutti”, a tutti coloro che sono stati battezzati in Cristo. Può quindi unire in modo molto reale dei cristiani ancora dolorosamente divisi su altri piani istituzionali o sacramentali. Guidando verso l’approfondimento del rapporto tra il credente e la persona teantropica del Figlio dell’Uomo, la Preghiera di Gesù c’introduce anche in questa comunità di persone in Christo per Spiritum Sanctum che i Padri chiamavano la comunione dei santi.

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