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Lo scopo finale della musica non deve essere altro che la gloria di Dio e il sollievo dell'anima (Johann Sebastian Bach)

giovedì 13 dicembre 2012

Perché abbandonai la Chiesa Cattolica Romana (La mia conversione all’Ortodossia)

Una eccezionale testimonianza storica del cammino verso la riscoperta della Fede Ortodossa e delle difficoltà che tale scelta poteva implicare negli anni '50 del secolo scorso. Lo propongo ai lettori esattamente come scritto nella copia in mio possesso. E' un testo lungo, ma si legge con piacere.

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Di Paul Fr. Ballester Convalier - Atene 1954. Traduzione dal greco dell'Archimandrita Benedictos Katsanevakis, Napoli - presso la chiesa dei SS. Pietro e Paolo dei nazionali Elleni, 1955.

Al nascente movimento ortodosso italiano dedico

Invece di premessa

Nell’ottobre dell’anno scorso 1954 è sorto a Catania ed a Firenze, promosso da Italiani di puro sangue, un movimento che mira non ad un Cattolicesimo riformato, ma addirittura ad un ritorno completo e sincero alle origini, cioè alla genuina Chiesa Cristiana esistente prima del funesto grande scisma tra Oriente ed Occidente consumato dal Papa Urbano II nell’anno 1098 nel Sinodo di Bari da lui ivi convocato. I pionieri di tale movimento hanno trovato tale Chiesa primitiva nella Chiesa Ortodossa Cristiana che è infatti l’unica genuina continuatrice della Chiesa fondata da Gesù Cristo e divulgata dai SS. Apostoli.

È molto commovente il fatto che proprio in quest’anno che è il novecentesimo dagli inizi dei primi aperti contrasti ecclesiastici tra Occidente e Oriente, che condussero poi all’anzidetta separazione definitiva dell’anno 1098, ha inizio con il movimento Ortodosso italiano in parola, il ritorno alla retta dottrina di Cristo dei popoli Occidentali trascinati allo scisma. Il detto movimento Ortodosso italiano, pur giovanissimo e recentissimo, conta già in Catania ed in Firenze due Vescovi, quattro presbiteri, un diacono e circa duecento aderenti e moltissimi simpatizzanti.

Ora, il molto Rev. Paul Fr. Ballester Convalier ex Frate Francescano in Spagna – ora Presbitero Ortodosso – abbandonò anch’egli il Cattolicesimo Romano e scrisse poi in greco un opuscolo intitolato “La mia conversione all’Ortodossia” in cui espone con molta chiarezza il dramma della sua anima a tale riguardo. Egli spirito studioso, occasionalmente veniva messo in seri dubbi circa la verità di alcune dottrine fondamentali della Chiesa Romana a cui apparteneva ed ha cercato sinceramente e ad ogni costo e sacrificio di arrivare al fondo della questione. Ed è riuscito a trovarne, da solo, l’uscita dal cieco vicolo in cui inconsciamente si trovava. Il dramma spirituale esposto dal Rev. Convalier è, senza dubbio, il dramma di numerosissime altre anime incapaci di trovare l’uscita dal cieco vicolo. Per venire incontro a tale stato e specialmente a tutti i simpatizzanti del suddetto «Movimento Ortodosso italiano» sentiamo il dovere di presentare in debita traduzione il su riferito documento del Rev. Convalier, sostituendo il titolo originale: “La mia conversione all’Ortodossia” con quello: “Perché abbandonai la Chiesa Cattolica Romana”, come più adatto al contenuto e come più comprensibile ai lettori in Italia. Siamo convinti che finché l’Europa Occidentale e Centrale non sarà rieducata alla retta fede cristiana, direi riortodossata, studi sì fatti non saranno mai inutili.

Infine ringrazio il mio carissimo figlio in Cristo Sig. Augusto Scrino dell’aiuto letterario prestatomi per la sollecita traduzione del presente.

Napoli, 25 Marzo 1955.

Festa dell’Annunziazione di M. V.

† Archimandrita Benedictos Katsanevakis

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Due parole al lettore

Non è scopo di queste pagine una personale giustificazione della conversione dell’autore all’Ortodossia, ma esse, costituiscono una testimonianza apologetica, commovente e riconoscente della purezza della fede e dell’arditezza del suo insegnamento. L’originalità del presente studio, non consiste precisamente nel tema, per il quale sono già state scritte innumerevoli opere teoriche sotto ogni punto di vista ecclesiastico, ma nella maniera originale con cui esso viene svolto. Padre Ballester non si è contentato di presentare semplicemente la teorica espressione del suo giudizio teologico; egli è possessore di un modo di vivere teologico dal quale si è mosso verso il più doloroso dei cammini spirituali, verso il più penoso dei sacrifici: l’abbandono della sua Chiesa e l’allontanamento dalla sua patria. L’espressione di questo modo di vivere teologico e della sua autosincerità, solo una speciale ispirazione ed una rarissima forza di volontà gli potevano permettere di trasmutarla in una splendida realtà.

Durante la lettura dei capitoli che seguono, il lettore, avrà l’occasione di seguire devotamente, passo per passo, il cammino contestato di questo monaco Francescano dai suoi primi timidi dubbi fino alla più decisiva confessione della Ortodossia, quale vera Chiesa di Cristo. Confessioni di tal genere, sempre più in maggior numero e più frequenti, costituiscono anche un severo monito per quella Chiesa, la quale ha perduto ormai la sua medioevale occasione di mutarsi in un centro dittatoriale di un mostruoso impero politico-ecclesiastico. Costituiscono anche la più espressiva delle istruzioni per quei gruppi cristiani, i quali camminano ancora nel buio, per il ritrovamento del vero gregge. Ma, innanzitutto, sono una delle più incoraggianti lezioni, che oggi possiamo ricevere noi che siamo già ortodossi; una oggettiva ed appassionata testimonianza per la purezza della nostra eredità religiosa, una devotissima resa d’onore alla fedeltà con la quale i nostri progenitori seppero conservarla illesa, e in mezzo alle dure prove storiche e alle più sfavorevoli epoche.

Uomini, come l’autore del presente studio, i quali sanno cosa credono e perché, ed in qual modo sono giunti alla pienezza di questa fede e che sono pronti a dare testimonianza ed a fare apologia di essa con la stabilità di una certezza assoluta e con l’entusiasmo dei figli della Verità, sono chiamati in primo luogo a trasmettere la luce dell’Ortodossia al buio delle non Ortodosse filosofie cristiane con la potenza ed il successo con cui sarà possibile un giorno la realizzazione di quella Ecumenica brama di un solo gregge ad un solo Pastore, Gesù Cristo, per la quale il Signore pregò con tanta perseveranza, verso il Padre Celeste.

Marsiglia, Marzo 1954.

Stanislao Jedeezewsky

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I PRIMI DUBBI

Il lungo e faticoso cammino della mia conversione all’Ortodossia ebbe inizio, la prima volta, un giorno mentre ero occupato nella compilazione dei cataloghi della biblioteca di quel monastero Cattolico-Romano al quale appartenevo. Questo Monastero, uno dei più belli della Spagna nord-orientale, appartiene all’Ordine Monastico di S. Francesco d’Assisi ed è costruito sulla spiaggia mediterranea a pochi chilometri da Barcellona, mia città nativa. I superiori del monastero mi avevano incaricato di ricompilare i cataloghi delle opere e degli autori della nostra ricca biblioteca conventuale, onde metterli al corrente circa tutte le perdite d’incalcolabile valore che aveva subito durante l’ultima guerra civile spagnola, quando il nostro monastero fu incendiato e in parte distrutto dai comunisti. Una sera, quindi, mentre ero tutto preso dal lavoro, nascosto dietro una montagna di vecchi libri e manoscritti semibruciati, feci una scoperta che produsse in me grande meraviglia. In una busta, contenente scritti riferentisi alla Santa Inquisizione dell’anno 1647, trovai una copia in lingua latina di un Editto di Papa Innocenzo X col quale si scomunicava quale eretico ogni cristiano che osasse credere, seguire o comunicare ad altri l’insegnamento dell’Apostolo Paolo circa l’autenticità della sua dignità apostolica[1]. Continuando poi questo straordinario scritto faceva obbligo ad ogni fedele di credere, sotto la minaccia del castigo nell’oltre tomba, che l’Apostolo Paolo, in tutta la sua vita ed azione apostolica, cioè da quando si convertì al cristianesimo fino alla sua morte non aveva esercitato la sua opera apostolica liberamente ed indipendentemente da ogni potere temporale, ma contrariamente egli dipendeva in ogni momento dalla monarchica autorità dell’Apostolo Pietro, del Primo presunto Papa e Re della Chiesa. Questo assoluto potere, aggiungeva lo scritto in parola, lo ereditarono per successione diretta tutti gli altri Papi cioè i vescovi di Roma.

Confesso che se avessi rinvenuto nella biblioteca del monastero un libro messo all’«Index»[2] non mi sarei maggiormente meravigliato. Naturalmente non ignoravo gli eccessi ai quali erano incorsi i Tribunali della Santa Inquisizione nel Medio Evo e nei tempi posteriori in fatta di temi dogmatici. Era quella un’epoca in cui cercavano con ogni sacrificio di macchinare una giustificazione teologica delle ambizioni imperialistiche del papismo. Per la riuscita di tale progetto Roma aveva dato ordini espliciti ai teologi e predicatori onde dimostrare con ogni mezzo che i Papi avevano ricevuto da Dio il potere di regnare come Cesari sull’intera Chiesa Ecumenica, quali eredi del presunto primato dell’Apostolo Pietro. In tal modo s’intraprese in Occidente una vera campagna di diffamazione teologica dell’insegnamento Ortodosso relativo al detto presunto primato dell’Apostolo Pietro con il doppio scopo di essere messo il fondamento a qualche giustificazione teologica del Cesarepapismo da una parte e dall’altra minimizzare l’autorità dei Patriarchi d’Oriente di fronte alle pretese del loro confratello romano. Uno dei mezzi principali per l’adempimento di questo progetto fu una sorprendente moltitudine di pubblicazioni delle opere dei Santi Padri, opere falsificate o semplicemente apposta erroneamente interpretate. In queste opere falsificate si cercava intelligentemente e con l’aiuto di una errata interpretazione di alcuni passi evangelici[3] di far apparire il famoso «Primatus Petri» come un eccezionale privilegio che Dio concesse all’Apostolo Pietro e in seguito ai suoi supposti successori, i romani Pontefici, in virtù del quale, questi, avevano il diritto di esercitare una dittatura praticamente assoluta sulla Chiesa Universale, di fronte alla quale l’Ortodossa veniva descritta come ribelle. Così, una grande moltitudine di «Antologie» e di «Catene»[4] di passi patristici relativi al primato papale, gran parte dei quali sono assolutamente falsi ed il resto di essi contraffatti e con una base minima di contenuto autentico, uscirono dalle tipografie dei conventi dei principali ordini Monastici dell’Occidente circolando in sbalorditiva abbondanza nell’Europa Mediterranea[5]. Però, se i fedeli avessero meditato sul fatto che l’Apostolo Paolo e gli altri Apostoli non erano sottoposti al potere assoluto del così detto Primo Papa Simone Pietro, allora l’intero edificio dell’alterata dottrina del Papismo sarebbe crollato da per sé. Per questo motivo i Vescovi di Roma non smisero mai di condannare, scomunicare e terrorizzare con minacce di castighi spirituali e d’oltretomba, i fedeli che avessero tentato di manifestare il benché minimo dubbio in proposito.

I Tribunali della Santa Inquisizione sotto l’emblema «Il fine giustifica i mezzi»[6] presero mandato di porre in atto altri mezzi più convincenti, cioè di mandare al rogo e alle torture e di gettare nell’olio bollente o scorticare vivi i più ostinati e «impenitenti» cristiani «in nome della SS. Trinità e per il bene generale della Chiesa». Ciò nonostante, non mi aspettavo mai che il fanatismo della mia chiesa l’avesse spinta al punto di osare finanche la proibizione e la condanna d’insegnamenti che con molta chiarezza sono contenuti nelle Sacre Scritture e che furono insegnati dagli stessi Apostoli, come accadeva con lo scritto che tenevo fra le mani. Questo superava ogni limite, perché scomunicare i fedeli seguaci dell’insegnamento dell’Apostolo Paolo equivale ad una incomprensibile condanna della dottrina Ortodossa di questo Apostolo, il quale nella seconda sua Epistola ai Corinzi chiaramente dice che in nulla fu inferiore a nessuno degli altri Apostoli[7]. Quindi, quell’Editto di Papa Innocenzo X, mi sembrava così incredibile che preferii esaminare la possibilità di qualche errore tipografico o forse qualche fatale contraffazione del testo autentico, cosa che d’altra parte accadeva spesso all’epoca che la cronologia del documento indicava[8]. In ogni caso, però, autentico o falsificato che fosse, oppure semplicemente alterato, giunsi alla conclusione che questo testo costituiva nella nostra biblioteca conventuale, un elemento bibliografico veramente curioso e degno di ogni attenzione e di ogni studio.

Molto presto, però, il mio interessamento si mutò in turbamento, quando, dopo il confronto, nella Biblioteca centrale di Barcellona, accertai che non solo questo documento era assolutamente autentico ma che esso non costituiva l’unico monumento della sua specie. Difatti in due casi anteriori di quelle sentenze della Santa Inquisizione dell’anno 1647, cioè del 1329[9] e 1351[10] i Papi Giovanni XXII e Clemente VI avevano scomunicato e condannato ogni uomo e teoria che avessero tentato di negare che l’Apostolo Paolo aveva operato sotto gli incontestabili ordini e l’assoluto potere del presunto Primo dei Papi e cioè dell’Apostolo Pietro. Precisamente per la medesima ragione il Papa Martino V aveva scomunicato Giovanni Huss nel Sinodo di Costanza[11]. Posteriormente Pio IX nel Sinodo Vaticano[12], Pio X nel 1907 e Benedetto XIV il 1920, avevano ripetuto le medesime condanne nel modo più categorico e ufficiale[13].

Esclusa, quindi, in tal modo, ogni possibilità d’errore o, di falsificazione, non tardai a comprendere che con tutto ciò, cominciò a nascere in me un doloroso problema di coscienza. Perché personalmente mi era impossibile credere seriamente che l’Apostolo Paolo fosse stato guidato da qualche potere umano. L’indipendenza e la libertà della sua opera Apostolica presso i gentili, in paragone all’opera dell’Apostolo Pietro presso i giudei, costituisce per me un avvenimento molto serio che non ammette neanche la minima obiezione[14]. L’Apostolo Paolo «chiamato all’apostolato non dagli uomini né per mezzo d’alcun uomo»[15] considerava Simone Pietro come il secondo, dopo Giacomo[16] fra quelli «che sono reputati colonne» e che a Paolo piaceva di chiamare così perché «erano considerati di essere qualcosa» nella Chiesa di Cristo[17]. Però, aggiunge in seguito, che, il posto che essi prendono lo lascia completamente indifferente, trattandosi di semplici preferenze personali, che Dio non tiene seriamente in conto[18]. In ogni modo, l’Apostolo Paolo categoricamente afferma che chiunque siano gli altri Apostoli, lui non era inferiore a nessuno. Ciò per me era chiarissimo, specie se si prende in considerazione la spiegazione dei Santi Padri che su tale punto, non lascia alcun dubbio. S. Giovanni Crisostomo, per l’Apostolo Paolo dice: «Dichiara costui la sua parità con gli altri Apostoli e desidera confrontarsi non solo con tutti gli altri, ma anche col primo fra di loro, per dimostrare che tutti avevano la medesima missione e dignità»[19]. E difatti con assoluta unanimità, tutti i Padri insegnano che «Tutti gli Apostoli furono quello che era Pietro e tutti erano dotati dello stesso onore e potere»[20].

È impossibile essere sotto gli ordini di qualche autorità superiore di un altro di essi, perché l’assioma d’Apostolo è «il più grande potere, la vera vetta di tutte le potestà»[21]. Perciò S. Cipriano sostiene che «Tutti costoro, ugualmente, sono pastori, malgrado che uno è il gregge. E questo in piena concordia viene pascolato dagli Apostoli»[22]. E S. Ambrosio aggiunge a tale proposito: «Se l’Apostolo Pietro aveva qualche precedenza fra gli altri, questa fu precedenza di confessione non di onore. Precedenza di fede e non di classe»[23]. Giustamente, quindi, il medesimo Santo scriveva riferendosi al Papa: «Non possono essere eredi dell’Apostolo Pietro coloro i quali non osservano, come lui, la medesima Fede»[24].

Tutta la questione quindi era chiarissima. Ciò nonostante il dogma Cattolico romano che insegnava a riguardo perfettamente il contrario, mi poneva nel tremendo dilemma di scegliere in coscienza e a dispormi o col Vangelo e la Tradizione da una parte, o coll’insegnamento della mia Chiesa dall’altra. Perché secondo il dogma Romano ecclesiologico, al cristiano, per salvare la sua anima[25], è indispensabile credere che la Chiesa, costituisce chiaramente una monarchia[26] di cui Monarca è il Papa[27]. Perciò il Sinodo del Vaticano riassumendo in proposito tutti i precedenti verdetti, rese ufficialmente noto che: «Se qualcuno avesse detto che Pietro – presunto primo Papa e Vescovo di Roma – non fu costituito da Gesù Cristo quale Principe degli Apostoli e Capo visibile della Chiesa militante... sia scomunicato»[28].

Come mi sarebbe possibile concordare due tanto diametralmente opposte e conflagranti disposizioni dogmatiche?

I CONSIGLI DEL CONFESSORE

Essendomi trovato quale naufrago nella più inesorabile tempesta spirituale mi indirizzai al mio Confessore, al quale esposi in modo semplice e naturale il problema che mi tormentava. Il mio Confessore era uno dei più istruiti e prudenti Sacerdoti del monastero e non tardò a comprendere che il caso era uno dei più seri e complicati. Dopo essersi concentrato per un po’in silenzio nelle sue riflessioni, cercando invano una soddisfacente soluzione, si decise a dare un tale svolgimento al problema che confesso francamente non mi aspettavo:

«Le Scritture ed i Santi Padri – mi disse con il più naturale tono – vi hanno turbato. Lasciate da parte queste due cose e limitatevi a seguire fedelmente l’infallibile insegnamento della nostra Chiesa, senza indagare tanto nelle cose e senza domandare molto. Non permettete che le creature di Dio, qualunque esse siano, scandalizzino la vostra fede verso la Chiesa di Dio».

Tale inattesa risposta non fece altro che ingrandire maggiormente il mio turbamento spirituale. Avevo creduto sempre che la parola di Dio era esattamente quell’unica cosa che nessuno poteva «mettere da parte». Secondo la mia concezione la Scrittura è ciò che determina la retta posizione delle nostre credenze[29] e non sono le nostre credenze a determinare l’ortodossia della Santa Scrittura. E per dire con precisione, proprio dalla Santa Scrittura deriva a noi l’obbligo di «esaminare noi stessi se perseveriamo nella retta fede o no»[30]. «Non voglio sentire ciò “che dici tu” e ciò “che dico io” – dice S. Agostino – ma tutti e due dobbiamo ascoltare ciò “che dice il Signore”. Indubbiamente esistono libri del Signore, all’autenticità dei quali tutti e due ubbidiamo e ci sottomettiamo. In tali libri dunque dobbiamo cercare di trovare la vera Chiesa e solo in essi dobbiamo poggiare la nostra discussione»[31].

Il mio Confessore, senza per nulla darmi tempo a proporre la benché minima obiezione aggiunse: «Vi darò in cambio un elenco di nostri scrittori, nelle cui opere potrete trovare di nuovo la vostra calma spirituale, perché è in questi libri, che senza la minima difficoltà, potrete ritrovare l’insegnamento della nostra Chiesa». E chiedendomi se avessi «qualcosa di più interessante» da riferirgli, dette termine alla nostra conversazione. Pochi giorni dopo il mio Confessore se ne andò dal Monastero per un viaggio di predicazione in diverse Chiese e Monasteri del nostro Ordine. E lasciandomi il catalogo dei libri di cui mi aveva parlato, mi chiese di promettergli, che gli scrivessi spessissimo onde tenerlo al corrente dell’andamento dei «miei turbamenti spirituali».

Malgrado che le sue argomentazioni non mi avessero, per nulla persuaso raggruppai tutti quei libri con la decisione di studiarli con la maggiore possibile obiettività e scrupolosità. La più grande parte di questi libri era costituita da testi teologici e da manuali di decisioni papali e di Sinodi «ecumenici» papali. Mi misi con premura e sincero interesse allo studio di questi libri e senza prendere nessuna altra misura preventiva che la Santa Scrittura che tenevo aperta davanti a me «la lampada ai miei piedi e lume al mio sentiero»[32]. Né il mio Confessore, né l’intera mia Chiesa sarebbero riusciti a compararmi con gli Giudei, i quali furono biasimati dal Signore perché «erano in errore non conoscendo le Scritture»[33]. Contrariamente, anzi, sarei rimasto fedele secondo l’esempio di quei fedeli, che dopo aver accettato la parola di Dio «con ogni prontezza»[34] furono encomiati dall’Apostolo perché consultavano continuamente le Scritture onde controllare ogni cosa che insegnava loro[35] per non essere ingannati dalla «filosofia e da vane sottigliezze secondo la tradizione degli uomini e non secondo Cristo»[36].

Ma a mano a mano che avanzavo nella lettura e nello studio dei testi che mi avevano suggerito, cominciai, in principio piano e timidamente, con maggiore sicurezza poi, a persuadermi che fino allora ignoravo quasi completamente la vera natura e composizione organica della mia Chiesa. Dopo essere stato annoverato nel Cristianesimo e battezzato, verso la fine dei miei studi ginnasiali, seguii le lezioni di filosofia e allora mi trovavo ancora sulla soglia della teologia Cattolico-romana, cioè di una scienza che allora costituiva per me qualcosa di assolutamente nuovo e che mi compariva per la prima volta. Fino allora Cristianesimo e Chiesa Romana costituivano per me due idee, le quali esprimevano la medesima e indivisibile realtà. Nella mia vita Monastica che trascorreva tranquillamente ed indisturbatamente mi assorbiva soltanto l’aspetto puramente soprannaturale della questione, e poiché la mia attenzione era attratta dai miei studi filosofici, non mi si era presentata l’occasione di esaminare profondamente le ragioni e le basi della composizione organica della mia Chiesa. Fu precisamente in quei testi ufficiali, controllati con tanta perspicacia dal mio Confessore, che mi si cominciò a rivelare, sotto il suo reale aspetto, questa paradossale religioso-politica organizzazione monarchica che si appella Chiesa Romana.

Suppongo che un riassuntivo riesame dell’insegnamento dei su accennati libri, da me studiati, non sarebbe superfluo.

LA MONARCHIA DEL PAPA

Secondo la concezione cattolica-romana, la Chiesa, in primo luogo, «non è che una monarchia assoluta»[37] di cui il Papa è monarca, che, come tale agisce[38]. In questa monarchia del vescovo di Roma «consiste tutta la potenza e la stabilità della Chiesa»[39] che, «non potrebbe esistere senza di essa»[40]. Il Cristianesimo stesso, dicono i papisti, «si appoggia completamente sulla base del papismo»[41] e ancor di più, «il papismo è l’elemento più importante del Cristianesimo»[42] «la somma e la sostanza di esso»[43]. Il potere monarchico del Papa, quale «supremo Sovrano e Capo della Chiesa», «Pietra angolare», «Maestro infallibile della Fede», «Rappresentante unico di Dio sulla terra», «Pastore dei Pastori», «Vicario di Gesù Cristo», «Dolce Cristo in terra», «Dolce Cristo parlante» ecc. ecc. è assolutamente autoritario, in ogni momento esecutivo e si estende su tutto il mondo[44].

Tale autorità papale si estende, si dice, «per divino diritto» contemporaneamente[45] su tutti i battezzati del mondo intero e su ciascuno uomo separatamente[46]. Tale potere dittatoriale, quindi, può mettersi in azione in ogni momento su ogni cattolico cristiano direttamente sia laico che chierico, Vescovo, Arcivescovo, Cardinale ed anche Patriarca ed ancora su ogni Chiesa di qualunque specie liturgica e di qualunque lingua[47], perché il Papa è il primo vescovo in ogni vescovado o diocesi del mondo[48]. Coloro i quali negano di riconoscere tutto questo potere o non sottostanno ad esso «ciecamente»[49] sono «scismatici, eretici, empi e sacrileghi»; e le loro anime sono fin da ora predestinate a esser gettate nel fuoco eterno, in quanto da ogni punto di vista è indispensabile, per la salvezza dell’anima, la fede nella divina istituzione del Papato e la sottomissione ai suoi rappresentanti[50].

E così il Papa sembra incarnare quel fantastico Sovrano, nel sollecito avvento del quale credeva Cicerone, e per il quale scriveva che gli uomini avrebbero dovuto riconoscerlo per salvarsi[51]. E, sempre secondo il dogma Romano, «dato che il Papa, ha il diritto d’intervenire e giudicare su tutte le questioni spirituali di tutti e di ogni singolo cristiano, a maggior ragione ancora, può intervenire nelle loro questioni terrene e materiali»[52]. Per questa ragione egli può limitarsi soltanto alla imposizione di pene spirituali ed alla privazione della salvezza dell’anima di coloro, i quali negano di sottomettersi a lui, ma «similmente ha il diritto di obbligare i fedeli ad ubbidirgli costringendoveli»[53]. Ciò perché «la Chiesa tiene due spade: l’una simbolo del potere spirituale e l’altra simbolo di quello mondano o temporale. La prima spada sta nelle mani del clero e la seconda nelle mani dei Sovrani e soldati, ma similmente anche questa sta sotto il criterio e la volontà dei preti»[54].

Il Papa che pretende di essere il Rappresentante e Plenipotenziario sulla Terra di Colui «il cui regno non è di questo mondo»[55], di Colui il quale proibì agli Apostoli di esercitare la minima dominazione o sovranità sui fedeli è, con tutto ciò, anche Sovrano temporale facendo, in tal modo, continuare nella sua persona, la tradizione imperiale dei Cesari di Roma «della Città eterna» e regina del mondo[56]. Nel corso della storia, il Papa, divenne Padrone e Sovrano di grandi Stati e condusse le più sanguinose guerre contro gli altri Re cristiani al fine di conquistare una nuova parte di terra o anche, semplicemente, per soddisfare la sua insaziabile sete di dominio. Ottenne ancora migliaia di servi e svolse parte primaria e molte volte decisiva nella politica internazionale. Il «dovere dei Sovrani e Governanti cristiani» è di indietreggiare di fronte «al Re per divino diritto» cedendo il loro regno stesso a questo trono ecclesiastico-politico «che è stato istituito quale ornamento e sostegno di tutti i restanti troni del mondo»[57]. Oggi, il regno mondano del Papa, si limita alla sola Città del Vaticano, la quale costituisce uno Stato indipendente con rappresentanza diplomatica negli Stati dei cinque continenti del globo terrestre, con un esercito mercenario, con armi, polizia, prigioni, propria moneta circolante, commercio, ecc.

E come coronamento di questa sua onnipotenza, il Papa, ha ancora un’altra più tremenda prerogativa che nello stesso tempo è anche l’unica nell’intero mondo; è una mostruosa e inaudita prerogativa, simile alla quale nemmeno l’orgiastica fantasia delle più grossolane religioni idolatriche può mai sognare. Il Papa, secondo tale immaginaria prerogativa, è per diritto divino «Infallibile», secondo la definizione dogmatica del Concilio Vaticano dell’anno 1870[58]. Di conseguenza da allora l’umanità a lui deve rivolgere quelle parole che prima rivolgeva al Salvatore: «Tu hai, Signore, parole di vita eterna»[59]. In avvenire non c’è più bisogno della presenza dello Spirito Santo per guidare la Chiesa «in tutta la verità»[60] non c’è bisogno più nemmeno delle Sacre Scritture né della Tradizione, dato che già esiste un Dio sulla terra col potere di. rendere inutili o anche di proclamare ancora come errati gli insegnamenti di Dio dei Cieli[61].

In base a questa infallibilità, il Papa, e solamente il Papa, è il Canone della Fede[62], e può proclamare, anche senza il consenso della Chiesa, quanti che siano nuovi dogmi ai quali, i fedeli, hanno il rigoroso obbligo di credere ciecamente se vogliono sfuggire ai castighi dell’inferno nell’oltretomba[63].

«Dipende soltanto dalla volontà e dal piacere di Sua Santità – scriveva il Cardinale Baronius – che l’intera Chiesa creda sacro e santo ciò che lui desidera[64] e bisogna che le sue Epistole Pastorali siano considerate, credute e ubbidite «come scritture canoniche»[65]». Come logica conseguenza di tale infallibilità, risulta, che gli insegnamenti papali devono essere osservati con una tale cieca obbedienza che lo stesso Cardinale Bellarmino, il quale è stato proclamato «santo» dalla Chiesa Romana, nella sua celebre «Theologia»[66] espone tale supposizione con la più grande naturalezza: «Se qualche giorno il Papa avesse errato, consigliando peccati e proibendo virtù, la Chiesa, sottopena di peccato contro coscienza, sarebbe stata obbligata a credere che in realtà i peccati sono buoni e le virtù cattive». Il Cardinale Zabarella va ancora oltre e assicura che: «Se Dio e il Papa si radunano in un Concilio... il Papa può fare (colà) quasi tutto ciò che fa Dio... e il Papa fa tutto ciò che desidera, sia pure illegalità e in ciò, egli, è qualcosa più che Dio»[67].

Quando ebbi terminata la lettura di tutti quei libri consideravo me stesso estraneo in seno alla mia Chiesa la di cui composizione organica, era chiaro, non aveva nessuna relazione con la Chiesa istituita dal Signore, organizzata dagli Apostoli e i loro successori, e i SS. Padri avevano descritta e resa chiara. Secondo la mia concezione una tale organizzazione papista, difficilmente si sarebbe potuta identificare con la Chiesa di Cristo perché non è edificata sopra la roccia che è lo stesso Gesù Cristo ma sopra l’instabile sabbia d’immaginarie prerogative del Papa che si dice, ereditò da Simone Pietro il quale, però, non le aveva mai avute e neppure immaginate.

«Noi – dice S. Agostino, uno dei più grandi Padri della Chiesa Romana – noi, che siamo cristiani e che con le nostre parole e opere, non crediamo a Pietro, ma a Colui che lo stesso Pietro aveva creduto... Colui, il Cristo, il Maestro di Pietro il quale lo catechizzò alla strada che conduce alla vita eterna, Colui è anche il nostro unico Maestro»[68].

E difatti come sarebbe stato possibile ammettere seriamente l’infallibilità dei Papi, i quali usurpano il titolo di «esclusivi successori» dell’Apostolo Pietro che fu precisamente il solo fra tutti gli Apostoli, il quale, come disse lo stesso Signore, in determinati casi non sapeva quello che diceva[69]. Infallibile Simone Pietro, il quale fu ripreso dall’Apostolo Paolo perché «fosse da riprendere»[70], poiché «non camminava secondo la verità del Vangelo»?[71] Infallibili coloro i quali si autoappellano «legali successori di quello al trono e al Vescovado di Roma» dal momento che sapevo benissimo che fra essi s’incontrano non pochi nomi di generatori di tanti scandali, quali il Papa Marcello, notoriamente apostata e idolatra che sacrificava a Venere, come è a tutti noto, entro al medesimo tempio di questa e dinanzi al medesimo altare di essa?[72] Infallibile, dunque, Papa Giulio, il quale, fu scomunicato quale eretico dal Sinodo di Sardica?[73] Infallibile anche Liberio, che seguiva gli errori di Ario e condannò quale eretico S. Attanasio, il grande protagonista dell’Ortodossia?[74] Infallibile anche Papa Felice II per il quale, S. Attanasio dice che fu eletto Papa da tre suoi eunuchi e ordinato da tre spie dell’Imperatore, e fu aspirante degno dei suoi elettori della sua medesima pasta, dato che le di lui eretiche credenze erano pubblicamente note, e generalmente tutta la sua condotta nel suo insieme si adattava bene ad un Anticristo?[75] Infallibile Papa Onorio, il monotelita[76] e Gelasio, il quale seguiva credenze eretiche nel dogma della S. Eucaristia? Infallibile Papa Sisto V, del quale circolò una edizione delle S. Scritture «corretta con le sue stesse mani e nella pienezza della sua Apostolica autorità» la quale era tanta piena di errori di ogni sorta che fu necessario ritirarla subito nel mezzo del più grande scandalo?[77] Infallibile Urbano VIII che condannò quale eretica la teoria di Galileo secondo la quale la terra gira intorno al sole?[78] Infallibili i Papi Zaccaria il quale proibì sotto pena di scomunica di credere che la terra è rotonda?[79] e Pio II il quale ebbe l’ammirevole sincerità di avvertire amichevolmente il re Carlo VII di Francia che non bisogna credere in tutto ciò che i Papi dicono, perché il più delle volte parlano per passione o per interesse?[80] Infallibile Papa Pio IV, il quale ebbe l’ardire di trasgredire il VII Canone del Concilio Ecumenico di Efeso[81] e con ciò si rese spergiuro del giuramento che dette durante la cerimonia della sua intronizzazione?[82]

La Chiesa, dice S. Cipriano e non il Vescovo di Roma, è quella «pura e vivificante acqua, che non può essere intorbidita e misturata, perché la sorgente dalla quale scaturisce è pura e limpida»[83]. All’intera Chiesa e non esclusivamente ai Papi, Nostro Signore Gesù Cristo promise assistenza perpetua e continua fino alla consumazione dei secoli[84]. A favore di tutta la Chiesa, e non solo a Pietro e ai suoi presunti successori, promise d’invocare dal Padre Suo lo «Spirito della Verità»[85], quello Spirito che insegna tutta la verità[86] e tutto lo scibile[87]. E precisamente per questo motivo l’Apostolo Paolo chiama la Chiesa e non Pietro «colonna e base della Verità»[88]. E ancora, per la medesima ragione, S. Ireneo insegna che, in nessun altro luogo, ma soltanto nella Chiesa, bisogna cercare la Verità di Cristo, perché «solo nel seno della Chiesa troviamo questa Verità con tutta la certezza pura, integra, e non rimescolata»[89].

Non solo a Simone Pietro, ma a tutti insieme gli Apostoli e ai suoi discepoli il Signore disse: «Chi ascolta voi ascolta me»[90]. D’altra parte, durante il corso della storia della Chiesa antica, dall’epoca della sua istituzione fino al grande scisma, non v’è neppure il minimo precedente di un qualche disaccordo o qualche questione di fede di grande importanza che fosse stato risolto dai Vescovi di Roma. Cosa, secondo me, inspiegabile se questi ultimi, in effetti, fossero stati realmente riconosciuti ed ammessi quali veri Capi assoluti e di più infallibili della Chiesa Ecumenica. È universalmente noto che nessuna delle grandi eresie fu mai debellata dai Papi di Roma, ma, esse, furono combattute, sconfitte ed estirpate per mezzo di un Concilio Ecumenico o da un Padre della Chiesa o da qualche santo Teologo. L’arianesimo, per esempio, era condannato dal Concilio di Nicea e non dal Papa, che era egli stesso seguace di Ario. Il Concilio di Efeso neutralizzò il nestorianesimo. S. Epifanio fu colui che sconfisse gli gnostici, S. Agostino fu il grande confutatore del pelagianesimo e così di seguito.

Ancora di più: i Vescovi di Roma, non furono giudici in nessuna di queste grandi questioni ecclesiastiche, ma, viceversa, più delle volte, ne erano imputati, accusati e perfino giudicati da altri Vescovi, Patriarchi, Sinodi e Concili. Così, il Sinodo di Arelate decide sul dissidio sorto tra il Vescovo di Roma e quelli d’Africa circa la questione dell’anabattesimo[91]. Anche la Chiesa Africana scrisse al Vescovo di Roma come a quello di Alessandria esortandoli severamente a pacificarsi[92]. Il Patriarca d’Alessandria con i Vescovi Orientali scomunicò Papa Giulio nel Sinodo di Sardica[93]. Papa Onorio fu condannato e scomunicato dal VI Concilio Ecumenico[94], ecc. ecc.

Avendo assoluta convinzione di tutto ciò, convinzione, che d’allora in poi in nessun modo m’abbandonò, scrissi al mio confessore la prima lettera dopo la nostra separazione.

«Ho studiato i libri che la Vostra Reverenza ebbe la bontà di consigliarmi. Ciò nonostante, la mia coscienza non mi permette di trasgredire ai comandamenti di Dio prestando fede ad insegnamenti umani[95] che non hanno neppure la minima base Biblica. Tali insegnamenti sono la catena degli insegnamenti sul Papismo i quali vengono coronati dallo sragionamento sulla infallibilità. «Noi possiamo riconoscere la vera Chiesa basandoci – dice S. Agostino – sul criterio biblico, e non appoggiati su detti e su sentenze, né sui Sinodi dei Vescovi, né sulla lettera morta dei dissidi, chiunque essi siano, né su fallaci presagi e prodigi, ma soltanto su ciò che si trova scritto sulle predicazioni dei Profeti, sui Salmi, sulle parole dello stesso Buon Pastore Gesù, sulle opere e sugli insegnamenti degli Evangelisti e in una parola, sulla canonica autenticità delle Sacre Scritture»[96]. Questo stesso Padre scrisse contro i Donatisti: «Non voglio più sentire questo “tu dici” e “io dico”, ma noi tutti sentiamoci “così dice il Signore”». Indubbiamente vi sono libri del Signore, sulla cui autenticità entrambi concordiamo, ubbidiamo e ci sottomettiamo. In essi quindi ricerchiamo la Chiesa e su di essi discutiamo la nostra discordia e differenza»[97]».

Terminai la lettera al mio Confessore con queste parole: «Non mi allontanerò, quindi, mai da ciò che costituisce il vero canone cristiano per la prova e la conoscenza della vera fede e per la veridicità e genuinità di ogni dogma: cioè non mi allontanerò mai e poi mai dall’autenticità della parola di Dio e dalla Tradizione della sua Chiesa[98]. E certo i vostri dogmi sono inconciliabili con il detto canone».

La risposta non tardò a venire: «La Vostra Reverenza non ha ascoltato i consigli e gli orientamenti che le ho dato – lamentava il mio confessore – e ha lasciato che la Bibbia continuasse la sua pericolosa influenza sulla sua anima. I Santi Libri sono come il fuoco, il quale quando non illumina, brucia e annerisce... e appunto per questa ragione i Papi saggiamente decretarono che «si tratta di uno scandaloso errore credere che tutti possono leggere le Sacre Scritture[99] ed i nostri Teologi confermano che i libri Sacri della Bibbia costituiscono una oscura nube, un recinto ove anche gli atei ancora possono trincerarsi»[100]. «La fede nella chiarezza delle Scritture costituisce un dogma eterodosso[101] dicono i nostri infallibili Capi. Riguardo poi alla Tradizione, non ritengo necessario ricordare alla Reverenza Vostra, che dobbiamo «seguire innanzi tutto il Papa quando si tratta di questioni di fede anziché a migliaia di Santi Agostini, Girolami, Gregori, Crisostomi», ecc.[102]. E quando abbiamo la interpretazione dataci da Roma riguardo a qualsiasi testo della Bibbia se pure tale interpretazione può sembrare assurda e contraria allo stesso concetto del testo bisogna che noi crediamo di essere in possesso della Verità della parola di Dio[103]».

Tutte queste cose consolidarono maggiormente le mie convinzioni. Con tutte le sue teorie, con tutti i dogmi della nostra Chiesa contrari anche con lo stesso Papa, io, non avrei potuto mai mettere da parte la parola di Dio, la quale è assolutamente e incontestabilmente retta e chiara per quelli che hanno trovato la vera conoscenza[104]. Questo è la parola della Luce[105], che può sembrare oscura solo a quelli che vanno verso la perdizione e dei quali il Dio di questo secolo ha accecato lo spirito[106]. La S. Scrittura è ancora la parola di Vita[107], della Grazia[108], della Virtù[109] e della Salvezza[110] e non desideravo divenire colpevole e accusato nell’ora del Giudizio trascurandola ora[111]. Io sapevo precisamente che la fede nelle S. Scritture è la fede più retta di tutte[112], e assolutamente cattolica[113], giacché solo la S. Scrittura è sufficiente, come dice S. Attanasio, alla professione della Verità[114]. Perciò S. Giovanni Crisostomo mette in rilievo che: «quando abbiamo la Sacra Scrittura è insensato cercare altri maestri al di fuori di questa»[115]. «In essa – scrive Sant’Isidoro Pelusiota – esiste tutto quanto è necessario conoscere»[116] e «tutto ciò che c’interessa imparare»[117]. Secondo S. Basilio il grande: «è una evidente imperfezione della nostra fede ed una prova di superbia, il rigettare qualcosa di quanto è scritto ivi, o, al contrario, ammettere qualcosa che ivi non è scritto»[118]. Da ciò giustamente i SS. Padri ne concludono che «bisogna credere solo in quello che è scritto nei sacri Libri e ciò che ivi non è scritto, non bisogna cercarlo[119] né utilizzarlo mai»[120].

La mia Chiesa, colpendo la S. Scrittura, non ottenne null’altro che perdere davanti ai miei occhi ogni autorità, perché divenne simile a quelli eretici per i quali S. Ireneo dice che «perché furono ripresi dalla parola di Dio ritornarono di nuovo contro di Essa per criticarla»[121]. «Colui che si adatta alle S. Scritture – dice il gran Crisostomo – è cristiano. Se qualcuno la polemizza egli cammina fuori del canone. Se però nello stesso tempo, egli viene a dirvi che la S. Scrittura insegna ciò che lui crede, allora ditemi, voi, non avete criterio e intelletto?»[122].

Questo fu il mio ultimo contatto che ebbi col mio Confessore. Dopo di ciò non credetti opportuno continuare la nostra corrispondenza e non gli scrissi più. Nemmeno lui da allora in poi cercò di sapere di me, preferendo non impicciarsi oltre del «mio spiacevole caso» dato che indubbiamente ciò avrebbe potuto danneggiarlo nelle sue splendide possibilità che aveva per essere ordinato Vescovo «Apostolicae Sedis Gratia» che tanto fedelmente aveva servito in ogni momento.

Io, però, non mi fermai. Avevo cominciato «a deviare dal deviamento» della mia Chiesa, seguendo una strada per la quale non era possibile fermarmi se non prima d’aver trovato un luogo sicuro, almeno teoricamente. Il dramma che vissi in quei giorni era che, mentre sentivo me stesso allontanarmi sempre più dal papismo, dall’altro canto, non mi sentivo di avvicinare a nessun’altra realtà ecclesiastica. L’Ortodossia, il Protestantesimo e l’Anglicanesimo non costituivano allora per me che delle idee abbastanza confuse, e non era ancora giunta né l’ora né l’occasione di pensare al come avrebbero potuto avere la benché minima relazione col mio caso personale. Ciononostante amavo la mia Chiesa che mi aveva fatto cristiano e della quale indossavo la tonaca. Era perciò necessario approfondirmi e occuparmi sempre più largamente dello studio della questione, per giungere piano piano e con tristezza alla accorata certezza, che questa Chiesa in realtà era inesistente, e non occupava nessun posto entro il regime papista. E difatti, innanzi al potere dittatoriale del Papa, l’autorità della Chiesa e del corpo episcopale è praticamente nulla. Perché secondo la loro teologia «l’autorità della Chiesa è autentica ed efficace solo quando si armonizza con la volontà del Papa. In caso contrario l’autorità della Chiesa non ha assolutamente nessun valore»[123]. Perciò, quindi, il medesimo valore ha il Papa essendo assieme con la Chiesa e il Papa senza la Chiesa; con altre parole, il Papa è il tutto e la Chiesa non è nulla. Giustamente, quindi, scriveva con dolore il Vescovo More: «Mutando la sintesi della Chiesa, mutiamo anche il di lei dogma. E da ora innanzi sarebbe più retto salmodiare nella divina Liturgia : «Credo al Papa» anziché dire: «Credo in Una, Santa, Universale e Apostolica Chiesa»[124].

Il significato e l’importanza dei Vescovi nella Chiesa Romana consiste nell’occupare un posto di un semplice rappresentante subordinato all’autorità papale sparsi in tutti gli angoli del mondo, alla quale autorità papale si sottomettono nello stesso modo come si sottomettono anche i semplici fedeli. I papisti si sforzano di giustificare tale stato di cose che prevale, basandosi su una assurda interpretazione del 21° capitolo del Vangelo di Giovanni[125] secondo il quale, dicono loro: «Il Signore affidò a S. Pietro, primo Papa, il mandato pastorale sui Suoi agnelli e sulle sue pecore, cioè il mandato di massimo, unico ed assoluto Pastore su tutti i fedeli che vi sono simboleggiati con gli agnelli e su tutti i restanti Apostoli e Vescovi, i quali vi sono simboleggiati con le pecorelle»[126]. Ma anche i Vescovi nel cattolicesimo romano non sono per idea successori degli Apostoli[127], perché «l’autorità spettante agli Apostoli spirò con essi e perciò non si trasmise ai loro successori nel vescovado». Soltanto l’autorità di S. Pietro, alla dipendenza del quale si trovavano tutti gli altri si trasmise ai successori, i quali vennero dopo di lui al Papismo[128]. Perciò «esiste una grande differenza nel succedersi a S. Pietro e nel succedersi ad uno qualunque degli altri Apostoli. Il Pontefice romano, quindi, solamente, succede a S. Pietro quale legale Pastore di tutta la Chiesa e per conseguenza ha tutta l’autorità che deriva da Colui dal quale Pietro la ricevette. Mentre i restanti Vescovi non succedono nel vero senso della parola agli Apostoli, perché questi ultimi non erano che dei semplici accreditati Pastori dei quali non può esistere un successore».

I Vescovi quindi giacché secondo il papismo, non ereditarono nessuna autorità Apostolica, non dispongono di nessun’altra potestà, fuori di quella che ricevettero, non direttamente da Dio, ma dal Sommo Pontefice. «La giurisdizione dei Vescovi deriva direttamente e immediatamente dal Papa»[129]. Ciò, secondo la mia opinione, è una ingiustificabile offesa alla dignità episcopale, il di cui valore veniva umiliato, sacrificandolo in favore di un presunto grado, superiore cioè all’autorità papale. Non era indispensabilmente necessario sapere perfettamente e completamente la storia dell’antica Chiesa per comprendere che, già dai tempi Apostolici i Vescovi fondavano sempre la loro autorità basandosi sul fatto «che succedettero agli Apostoli, governando la Chiesa, tutti con la medesima facoltà[130] e col medesimo ministero degli Apostoli»[131]. S. Attanasio parla del ministero dei Vescovi come qualcosa che il Signore consacrò per mezzo degli Apostoli[132]. S. Gregorio il grande insegna chiaramente: «Oggi i Vescovi occupano nella Chiesa il posto degli Apostoli»[133].

S. Ignazio di Antiochia dice che l’autorità Apostolica che hanno ricevuto i Vescovi, proviene da Dio Padre[134]; e aggiunge che il Vescovo non va sottomesso a nessun altro che al medesimo N. S. Gesù Cristo[135]. Da ciò «la catena d’oro che unisce i fedeli con Dio, passa da anello in anello dai Vescovi agli Apostoli, dagli Apostoli a Gesù Cristo e da Gesù Cristo al Padre[136]». Questo tradizionale insegnamento è tanto chiaramente esposto dai SS. Padri che per conto mio non esisteva alcun dubbio. Basta leggere gli antichi cataloghi dei Vescovi che a noi ci hanno lasciato S. Ireneo, Tertulliano, Eusebio, S. Girolamo, S. Optato di Mileve e tanti altri Padri storiografi ecclesiastici, i quali cercarono di annotare e descrivere con la più dettagliata cura le successioni dei Vescovi che diressero le diverse chiese fondate dagli Apostoli. Dopo i nomi degli Apostoli fondatori vennero annotati, successivamente, i nomi di tutti i Vescovi di ogni seggio, fino all’epoca degli autori di questi cataloghi. Ora, perché tanta cura, tanto interessamento e tanta attenzione per poter dimostrare tale apostolica successione, se, come pretende il papismo che «l’autorità degli Apostoli si estinse con gli stessi Apostoli e non si trasmise ai loro successori nel ministero Episcopale?»[137].

Per logica conseguenza degli insegnamenti papisti circa l’autorità e la potestà dei Vescovi, nella Chiesa Romana, si crede, che gli stessi Concili Ecumenici non hanno altro valore che quello in cui il Papa si compiace concedere loro. «I Concili Ecumenici – dicono i papisti – non sono né possono essere altro che una Congregazione del Cristianesimo riunita per virtù del podere del Capo Supremo e sotto la presidenza di esso»[138]. Ora, dato che tale Supremo Capo non è il Signore ma il Papa, in linea di massima non può esistere Concilio Ecumenico se non convocato sotto la presidenza personale del Papa[139] o di uno dei suoi immediati rappresentanti[140]. In qualunque momento durante un Concilio Ecumenico il Papa da solo lo può sciogliere, differire o trasferire[141]; basta solo che egli esca dalla sala delle riunioni dicendo: «Io non sono più qui» che il Concilio Ecumenico, sia trasformato da quel momento in una riunione privata, e, se i suoi membri insistono ancora, «esso si trasforma in una congiura illegale e scismatica»[142]. I Canoni stessi del Concilio non hanno il minimo valore se non accettati e ratificati dal Papa, e se non saranno timbrati con il timbro dell’autorità di lui[143].

Dopo la lettura di tutti questi testi cominciai ad intuire qualche cosa che fino a quel momento mi era rimasto incomprensibile, che i Vescovi cattolici romani di tutte le contrade del mondo, radunati il 1896 in Sinodo nel Vaticano avevano aderito alla riduzione della loro autorità ed alla loro tramutazione in muti servi del Vescovo di Roma ammettendo il dogma dell’infallibilità papale. Il Papa era ivi semplicemente il Dittatore del Sinodo, dal giorno del suo inizio fino al termine di esso, di modo che era impossibile non realizzarsi ivi ciò che egli desiderava come pure era impossibile stabilirsi nel Sinodo qualcosa senza la volontà del Dittatore. Infatti, così viene dimostrato dalle dichiarazioni del Vescovo Tedesco Strosmayer, uno dei membri del Sinodo la cui retta coscienza si scandalizzò dinanzi allo spettacolo che presentarono i Vescovi privi di autorità e di libera volontà di fronte ad un onnipotente Papa: «Nel Sinodo del Vaticano – egli disse – non avevamo la necessaria libertà; a causa di ciò esso non può essere chiamato un vero Sinodo né può avere diritto di emettere dei canoni che potessero imporre l’ubbidienza alle coscienze dell’intero mondo cattolico. Tutto ciò che avrebbe potuto assicurare la libertà della parola e di pensiero venne escluso con molta accortezza... e come se tutto ciò non fosse bastato, questo Sinodo compì la più scandalosa violazione dell’antico detto ecclesiastico: «quod semper, quod ubique, quod ab omnibus» cioè: «È infatti cattolico quello che sempre, da per tutto e da tutti è stato creduto»[144]. In una parola il più evidente e disgustoso uso della presunta infallibilità papale è stato necessario prima ancora che l’infallibilità stessa venisse proclamata quale dogma.

Per di più si aggiunse questo: «che il Sinodo non venne convocato né radunato legalmente; che i Vescovi, alti dignitari e altolocati italiani, formavano una enorme e dominante cricca quasi monopolistica; in modo che i membri di esso furono intimiditi dalla più scandalosa propaganda, e che tutto il meccanismo del potere papale che in quel momento esercitava il Papa di Roma contribuì ad intimidire e ad impedire ogni libera espressione. Ognuno, quindi, ne può dedurre chiaramente quale specie di libertà di parola (norma inviolabile ad ogni Sinodo) si avesse nel Sinodo del Vaticano»[145].

Durante tutto questo periodo di tanta violenta mia crisi spirituale, avevo quasi abbandonato i miei studi. In tutte quelle ore che il regolamento del mio Ordine mi concedeva libere, approfittavo della solitudine e compunzione della mia cella per aumentare le mie cognizioni e approfondire una tanto ampia materia. Mesi interi studiai la sintesi e l’organizzazione della Chiesa dei primi secoli da fonti Bibliche, Apostoliche e Patristiche. Ma questa fatica non si sviluppava completamente di nascosto: il mio aspetto esteriore sembrava fortemente influenzato dalla mia grande inquietudine, che già aveva assorbito tutto il mio interessamento. Non esitavo a cercare fuori dal monastero i libri e le persone che avrebbero potuto contribuire in qualche modo ad offrirmi nuovi lumi per il mio problema. Più tardi osavo già rivelare in parte le mie condizioni benché con la più grande attenzione e prudenza, accennandole confidenzialmente a diversi dotti ecclesiastici, amichevolmente legati a me. In tal modo ebbi consigli, pareri ed opinioni sul mio caso, sempre di grande importanza per me. Intanto, trovavo i più dei miei confidenti, più fanatici di quanto non avessi supposto. Per quanto riconoscevano con me l’assurdo dell’intera dottrina papista si aggrappavano disperatamente all’idea, che «la sottomissione dovuta al Papa esige un cieco consenso della mente»[146] e quell’altro detto di Ignazio Loiola, fondatore dell’Ordine dei Gesuiti secondo cui «per avere in tutte le cose la verità, per non deludersi in nulla, bisogna avere sempre come principio fermo, che ciò che vediamo come bianco, è in realtà nero, se tale lo determina la gerarchia della Chiesa»[147].

Conformemente a tale fanatica mentalità dinanzi alla quale ogni logica obiezione restava inefficace, un ieromonaco di quest’Ordine per l’amicizia che ci legava mi confidò: «Ciò che tu dici è indubbiamente chiaro e logico da ogni punto di vista e non posso fare a meno di riconoscerlo. Ma noi Gesuiti, oltre alle tre promesse, ne abbiamo anche una quarta speciale, più sostanziale di quelle dell’ubbidienza, della castità e della povertà. È la promessa della sottomissione al Papa[148]. Perciò sono costretto a preferire di gettarmi col Papa nell’eterna condanna, anziché salvarmi con tutte queste tue verità dell’assoluta certezza».

TU SEI PIETRO...

I più obiettivi tra i miei amici mi consigliavano di studiare le fonti bibliche sul papismo e cioè i passi evangelici che questo cita per la dimostrazione e la difesa del cosiddetto «Primato di Pietro»[149]. Consideravo giusto il consiglio ed era molto di mio gusto, perché mi offriva una nuova occasione di esaminare il mio caso sulla base della S. Scrittura. Come è naturale scelsi come argomento delle mie ricerche la più importante delle pericopi evangeliche nel 16° Capitolo del Vangelo secondo Matteo, sul quale si costruì la dottrina circa il detto del «Primato»: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»[150] *. Per il romano-cattolicesimo, questa parola del Signore rivolta a Simon Pietro, costituiscono la divina istituzione della pretesa giurisdizione amministrativa e giuridica di questo Apostolo[151]. Il Gesuita Bernardino Llorca scrive: «Come ricompensa della sua meravigliosa confessione circa la divinità di Gesù Cristo, il Signore annunziò a Pietro che lui, Pietro sarebbe la pietra angolare, cioè il Capo e la suprema Autorità dell’edificio della Sua Chiesa»[152]. Questa metafora (Pietro-Pietra) la quale fu applicata all’Apostolo e la quale indica che egli è il fondamento della Chiesa, dimostra anche chiaramente che egli viene stabilito massimo Capo di questa. Il senso della metafora è che Pietro dev’essere per la Chiesa ciò che è il fondamento per l’edificio. E come in ogni edificio il fondamento è precisamente ciò che consolida e dà vera unione all’insieme di esso, così anche nella Chiesa è lui, il Pietro, che da la stabilità e la vera unione ad essa[153].

Concordemente a tale interpretazione del citato passo evangelico, la Chiesa Romana insegna che S. Pietro, presunto primo Papa, «è il fondamento e la pietra angolare della Chiesa, il di lei Principe e Capo, e l’infallibile dittatore della terra»[154]. E difatti, ciò costituisce dottrina obbligatoria ed «è evidente che secondo la volontà e l’Ordine di Dio la Chiesa si regge sul beato Apostolo Pietro come precisamente ogni edificio si regge sulle sue fondamenta»[155]. Intanto questa tanto errata dottrina pretende che essa si accordi, secondo il Sinodo del Vaticano, «con il chiarissimo ed evidentissimo senso della S. Scrittura come è stato inteso sempre dalla Chiesa Universale»[156]. Secondo il mio giudizio però «il chiaro e molto evidente senso della S. Scrittura come è stato inteso sempre dalla Chiesa Universale era precisamente del tutto il contrario. Poche cose, infatti esistono nella S. Scrittura così chiare ed evidenti quanto quello che precisa che nessuno può porre altro fondamento che quello che è stato posto, il quale è Gesù Cristo»[157]. «Gesù Cristo è il solo fondamento della Chiesa», dice S. Attanasio[158]. Il Signore è l’unico fondamento, di cui l’Apostolo Paolo è orgoglioso perché l’aveva messo, quando insieme con lo stesso S. Pietro istituì la Chiesa di Roma[159] ** perché «solo il Signore Gesù Cristo è il fondamento di tutte le parti della Sua Chiesa»[160]; «ogni qual volta nelle Sacre Scritture si parla di un fondamento – dice S. Gregorio il Grande – non si accenna a nessun altro che al Signore»[161]. Sembra impossibile che uno possa osare di negare che Gesù Cristo è la pietra e il fondamento della Chiesa, se leggerà sia pure una sola volta, i libri canonici del Vecchio[162] e Nuovo Testamento[163] ***.

Le parole del Signore «Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la mia Chiesa» riportate dall’Evangelo di Matteo, non sono riferite da nessun altro Evangelista. Non si ha il minimo cenno di esse né in Giovanni nonostante che questi fa testimone oculare della confessione di Pietro, né in Luca e neppure in Marco, il quale, anzi, è stato discepolo, compagno, interprete dello stesso Pietro e scrive il suo Evangelo secondo l’insegnamento e lo spirito di questo Apostolo. Tutte queste cose precisamente non ci presentano gli Evangelisti come seguaci e sostenitori del primato papale dato che dimenticarono di notare nelle loro Sacre Opere ciò che, secondo la dottrina papista costituisce «il più importante elemento del Cristianesimo[164], la sostanza e il totale di esso»[165]. O sarebbe più retto attribuire la responsabilità di tale ingiustificata omissione allo stesso Spirito Santo, sotto la guida del quale «sospinti parlarono»[166].

Nei diretti discepoli degli Apostoli, nella seconda generazione cristiana, non troviamo ugualmente traccia di una allusione circa il passo di cui si tratta. Difatti nelle Opere dei Padri Apostolici le quali comprendono 412 citazioni delle S. Scritture, manca completamente qualunque cenno relativo alla confessione di Pietro, riportata solo da Matteo. Lo stesso precisamente succede anche con gli altri passi evangelici che vanno citati a favore del primato papista. Né nella «Didachè (= Dottrina) dei dodici Apostoli», né in Clemente, né in Ignazio, né in Policarpo, né in Barnaba, né nell’epistola a Diognito, né nei frammenti di Papia, ancora meno nel Pastore di Erma, dove solo si fa menzione circa la organizzazione e costituzione della Chiesa, è possibile trovare la minima traccia circa il passo famoso encomiato dai papisti «Tu sei Pietro...». I due primi secoli, quindi, si presentano indiscutibilmente ignari di quello elemento «nella base del quale si regge completamente il cristianesimo»[167].

Questa importante omissione è maggiormente sentita nel Pastore di Erma il quale, Erma, era precisamente fratello di Pio Vescovo di Roma; inoltre sappiamo dal canone del Muratori che Erma scrisse quest’opera durante il Vescovato di suo fratello Pio. Ivi Erma descrive i posti degli Apostoli, Vescovi, confessori e diaconi[168], priori, dignitari[169], di quelli che presiedevano nella Chiesa protopresbiteri[170]. Ma nel Pastore, quandunque sia strapieno di immagini e simbolismi circa l’organizzazione e la gerarchia della Chiesa, non incontriamo in nessun punto una testimonianza circa il singolare posto di Vescovo, quale Capo generale di tutto il Cristianesimo. Importantissimo riesce, quindi, il fatto che il fratello stesso del Vescovo di Erma, si presenti ignorando del tutto le cose che riguardano il primato papista!

Il primo cenno del passo evangelico circa la famosa confessione di Pietro non si presenta fino alla seconda metà del 2° secolo; quando verso l’anno 160 fu scritto il dialogo al Giudeo Trifone da Giustino Martire. Lo stile semplice e indifferente con cui Giustino narra la confessione dell’Apostolo, è chiaro. Egli dice: «Gesù ad uno dei suoi discepoli che si chiamava Simone il quale per rivelazione divina, Lo dichiarò quale Figlio di Dio, gl’impose il nome di Pietro»[171]. Verso la fine dello stesso secolo appare per la prima volta nella Grammatologia Ecclesiastica, una citazione, anche se non tanto fedele, del predetto passo. Il testo, che contiene tale citazione, appartiene all’Evangelo «Diatessaron» del Siriaco clerico Tatiano. Questa opera è di tale importanza, che nella Chiesa Siriaca sostituì completamente i Vangeli canonici, almeno fino alla metà del IV secolo. La citazione è la seguente: «Beato sei Simone. E le porte dell’Ades non ti vinceranno»[172]. Dal senso dell’espressione orientale «le porte» (pyle) possiamo solo supporre la vittoria di Pietro sulla morte[173], secondo quel medesimo senso che il Signore Risorto utilizzò, parlando di Giovanni «Se voglio che rimanga finché io venga?»[174].

Da Giustino dobbiamo passare al secolo d’oro della Chiesa, per trovare altre citazioni del nostro passo. In principio la prima cosa che notarono i SS. Padri è che il Signore soprannominò il suo Apostolo «Pietro» nel genere maschile, mentre disse che avrebbe edificato la sua Chiesa «Sulla Pietra» adoperando il genere femminile, la cui distinzione è chiara ed esclude così completamente l’identificazione di «Pietro» con la «pietra». Tale distinzione guidò i Padri e gli altri scrittori ecclesiastici, nel credere che la «pietra» sulla quale venne edificata la Chiesa, non era la personalità di S. Pietro, perché in tal caso il Signore avrebbe adoperato l’espressione «su questo Pietro»[175].

Conseguentemente la maggioranza di questi scrittori inclinava per la interpretazione della Pietra, come confessione di fede al Figlio di Dio, interpretazione questa che da tempo già aveva scalfito il S. Apostolo Giuda (non l’Iscariota) consigliando edificare «Noi medesimi sulla santissima nostra fede»[176]. Altri intesero il significato della Pietra come lo stesso Cristo, il preannunciato dai Profeti l’aspettata Pietra d’Israele[177] cosa che lo stesso Signore attribuisce a Sé[178]. In fine, altri, pochissimi scrittori, come Tertulliano, nonostante che determinate volte avessero identificato la Pietra con l’Apostolo, pure attribuiscono ad essa solo un’interpretazione metaforica, un significato soltanto spirituale, senza ritenere questa come un particolare privilegio dell’Apostolo in paragone con gli altri e molto meno ereditario[179].

Il grande Agostino scrive nelle sue Retractationes che leggendo questo passo evangelico superficialmente ebbe la impressione che la Pietra si potesse identificare con l’Apostolo; ma più tardi, studiando con attenzione comprese che la retta interpretazione è, che la Pietra sulla quale la Chiesa edificata non è che Colui il quale l’Apostolo Pietro confessò come Figlio di Dio[180]. S. Agostino insegnava sempre questo insegnamento come risulta da innumerevoli passi delle sue Opere. Egli espone i motivi di tale interpretazione e così si esprime: «Siccome la parola “Pietra” è prototipo: perciò il Pietro prende il nome dalla Pietra, e non la Pietra dal Pietro; come anche noi stessi cristiani assumiamo questo nome da Cristo e non Cristo dai cristiani. Tu – dice Cristo – sei Pietro su questa Pietra che hai confessato, dicendo “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”, edificherò la mia Chiesa, cioè in me stesso il Figlio di Dio vivente»[181]. Lo stesso concetto ripete S. Agostino, quasi con le stesse parole nella sua la Omelia sulla festa dei due Πρωτοκορυφαίοι (Protocorifei) Apostoli Pietro e Paolo[182]. Lo stesso fa anche nella sua 5a Omelia sulla Pentecoste, in cui dice ancora più chiaramente: «Su questa Pietra edificherò la mia Chiesa; non sopra Pietro (Petrum) il quale sei tu, ma sulla Pietra (Petram), la quale tu hai confessato»[183]. Ed aggiunge nel Tractatus 124° sull’Evangelo di Giovanni: «Su questa Pietra, la quale hai confessato, io edificherò la mia Chiesa; e ciò perché la Pietra era lo stesso Cristo»[184].

Questo S. Padre ironizzava alcuni eterodossi, i quali, come oggi i papisti, identificavano l’Apostolo Pietro con la Pietra: quanto interpretava i passi circa la rinnegazione di Pietro domandando loro mordacemente con il tono bruciante che lo caratterizza: «Dov’è adesso la vostra Pietra? Dov’è la solidità di essa?»[185]. Lo stesso Cristo era la Pietra, mentre Simone non fu che Pietro... di pietra. La vera Pietra fu risuscitata per rinforzare Pietro, il quale vacillò abbandonando la Pietra[186]. Su questa divina Pietra, la quale è il Suo vero Figlio: Iddio pose «i fondamenti relativi» cioè i primi materiali umani della Chiesa. Questi «fondamenti relativi» sono tutti insieme gli Apostoli, fra i quali Simone Pietro non occupa nessuno speciale posto di autorità o di giurisdizione. Ciò insegnano S. Paolo e S. Giovanni Evangelista, il quale in una delle sue meravigliose profetiche visioni ebbe l’occasione di vedere, che l’edificio spirituale della Chiesa edificato «sulla Pietra», aveva dodici pietre di fondamento, e su queste stavano i dodici nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello[187].

Perciò S. Ignazio Antiocheno scrive ai Tralliani, che «fuori di loro (degli Apostoli), non esiste neanche il nome della Chiesa»[188]; e S. Cipriano lo riferisce anch’egli a modo suo, insegnando che la Chiesa si è basata «Super episcopos», cioè sugli Apostoli e sui loro successori[189] i quali sono, stati edificati su quella inamovibile roccia (pietra) di Nostro Signore Gesù Cristo[190]. L’ammettere che la Chiesa è edificata solo sull’Apostolo Pietro escludendo tutti gli altri, come pretende il Papismo[191], equivale a paragonare il Salvatore con «quello stolto uomo» della parabola «che edificò la sua casa sulla rena», la quale casa «cadde, e la sua rovina fu grande»[192]. «Tu dici che la Chiesa si eresse su Pietro – scrive S. Girolamo all’eretico Iovinianus – ma la verità è che si eresse su tutti gli Apostoli; e la potenza della Chiesa si stabilì su tutti loro»[193].

Lo studio degli insegnamenti dei Padri relativo a questo passo della S. Scrittura, è stato molto vantaggioso per me; perché, come scrive S. Vincenzo: «è necessario, per evitare difficoltà ed i labirinti dell’errore, che il modo della spiegazione della S. Scrittura sia consono con la nota regola secondo il senso della tradizione ecclesiastica»[194].

Dopo queste indagini sui Padri, non avevo più alcun dubbio riguardo al fatto che l’insegnamento cattolico-romano sul primato papista dell’Apostolo Pietro, era del tutto contrario al «chiaro ed evidente senso» della S. Scrittura e gli insegnamenti degli Apostoli ed alle interpretazioni dei SS. Padri e in genere al costante ed ecumenico insegnamento, secondo la tradizione della chiesa di Cristo[195].

IL PRINCIPIO DELLA DISPUTA

Quando le mie idee cominciarono a divenire conosciute, iniziò anche a circolare su di me la vaga diceria che fossi un monaco fortemente sospetto d’eresia. «Se fossimo vissuti, invece di adesso, pochi secoli fa – mi scrisse in modo molto severo un rispettabile Vescovo, ora Cardinale – le teorie che la Rev. Vostra sta sviluppando avrebbero costituito motivo più che bastante per condurla al rogo della Santa Inquisizione».

Non tardò anche a divulgarsi la diceria che i miei superiori ecclesiastici, avevano deciso per il caso di interporsi onde fosse impedita la mia ordinazione a Diacono[196]. Giunsero ad invocare il voto dell’ubbidienza e della disciplina monastica, per costringermi ad abbandonare coscientemente le mie convinzioni. Secondo loro dovevo ubbidire ciecamente e smettere d’occuparmi di altro in quanto il diritto dell’esame delle questioni di fede, l’aveva soltanto l’alta Gerarchia della Chiesa. Se credevo nella Chiesa Apostolica, mi dicevano, dovevo seguire, secondo loro, in tutti i legali successori degli Apostoli. Ma, la grazia del Signore permise che rimanessi fermo nelle mie convinzioni tenendo dinanzi a me i detti di S. Ireneo riguardo agli eterodossi. «Dal solo e semplice fatto che hanno l’Apostolica successione, non possono avere la pretesa di essere loro seguaci: bisogna che seguiamo i buoni successori degli Apostoli, ma anche bisogna dividerci dai cattivi»[197].

Difatti, la Chiesa romana può avere la formale successione apostolica dalla successiva imposizione delle mani dei Vescovi; ma non la vera successione della fede e dell’insegnamento Apostolico, quella che Papia encomiava alla stessa Cristianità di Roma nel secondo secolo dicendo: «In ogni successione ed in ogni luogo si osserva ciò che esigono le leggi, i Profeti ed il Signore»[198].

Nulla poteva ormai farmi cambiare idea. Perciò quando un prete, il quale d’allora non cessò di parlarmi con cattiveria, mi chiamò pubblicamente «ingrato figlio della Chiesa Cattolica», mi permisi di esprimere i miei dubbi se l’appellativo di «cattolico» s’accordasse realmente al papismo, che caratterizzai come «empia innovazione»[199], mentre «la vera fede cattolica è quella dell’antico ed universale Cristianesimo»[200]. E di fatti io stesso mi credevo più cattolico della stessa mia Chiesa: «È veramente cattolico colui il quale ama la verità di Dio, la Chiesa il Corpo di Cristo... colui il quale non preferisce nulla più della divina religione; e non pone prima di essa l’autorità d’un uomo, ma soltanto l’antica ed unica fede. E disprezzando questa autorità e rimanendo solidamente e fermamente collegato alla vera fede, è risoluto a non credere null’altro fuori di quello che sa che prescrisse la Chiesa fin dai primi inizi del suo cammino»[201].

Quando mi domandavano, se io, l’ultimo e il più umile dei monaci di S. Francesco, osavo giudicare e chiamare errata l’intera mia Chiesa, con tutti i Papi, i Sinodi e i Teologi di essa mi bastava rispondere semplicemente, ripetendo le parole di Tertulliano: «Ogni dottrina che si oppone alla verità insegnata dalla Chiesa, dagli Apostoli, da Cristo e da Dio dev’essere giudicata come errata»[202].

«ESCI DA ESSA, O POPOLO MIO…»

Ciò nonostante, probabilmente non avrei fatto il minimo passo per abbandonare la mia Chiesa, se fossi stato sicuro che malgrado la sua mostruosa deviazione dogmatica, mi sarebbe stato perlomeno possibile rifugiarmi esclusivamente nella vita spirituale, che il mio Ordine e il mio Convento mi offri vano lasciando alla Gerarchia la responsabilità riguardo all’eresia e l’obbligo di discernerla e di correggerla. Ma in una religione alla quale il semplice capriccio di un Papa che si crede infallibile, può introdurre tanti nuovi dogmi, decreti e insegnamenti errati quanti ne vuole, riguardo alla fede, al culto ed ai Sacramenti, resterebbero forse sicuri gli interessi della mia anima e la integrità della mia vita spirituale?

«Costituisce una grande tentazione – scriveva San Vincenzo di Lerino già nel 5° secolo – il fatto che costui, il quale tu consideri come profeta, come interprete dei profeti, come maestro e sostegno della verità che segui col più grande rispetto e amore, improvvisamente comincia ad introdurre clandestinamente pericolosi errori, che non puoi scoprire facilmente, abbagliato dal preconcetto dell’anteriore suo insegnamento e dalla cieca ubbidienza a lui»[203].

Di più ancora; era a me facile constatare, infatti, che la vita spirituale del Cattolicesimo romano presenta gravi ed evidenti prove d’influenza della sua deviazione Teologica. Dogmi, come quello del Purgatorio, usanze come quella dell’amministrazione della divina Comunione da uno e solo elemento, esagerazioni come quella del culto esagerato alla Vergine, costituiscono chiari sintomi di degenerazione teologica, evidenti agli occhi di quelli che vogliono vederli senza parzialità e senza preconcetti. Infatti, avendo loro di già profanato la iniziale purezza della fede evangelica ed apostolica con la dottrina sul papato e con l’eresia dell’infallibilità papale, avendo con tale modo travisata una parte del retto insegnamento sull’uomo deviarono similmente anche in altri punti. E come in tutti gli altri casi di eterodossia, che vengono ricordati dalla storia ecclesiastica: «in seguito continuano l’alterazione anche in altri insegnamenti, in principio per abitudine, e in seguito come se si fosse acquistato un certo diritto per continuare l’alterare. E così essendo snaturate in fine tutte le parti del retto-insegnamento, alterano, il tutto con lo stesso modo»[204].

Non è per nulla strano se personalità distinte, dal punto di vista spirituale, nella Chiesa romana, cominciavano a dare il segnale d’allarme, sebbene già tardi, con dichiarazioni pubbliche tanto espressive come la seguente: «Chi sa, se i “piccoli mezzi di salvezza” che ci assediano ci guidarono nel dimenticare l’unico Salvatore: Gesù!...»[205]. «Oggi la nostra pietà si presenta come un albero con tanti rami intrecciati e con tanto fitto fogliame, dove le farfalle svolazzano col pericolo di non sapere più dove si trova il tronco il quale contiene il tutto e dove si trovano le radici che abbracciano la terra»[206]. Aggiungiamo anche questa più opprimente frase: «Abbiamo decorato e supercolmato il quadro in tal modo, che l’immagine di Colui che è l’unico necessario è scomparso sotto gli ornamenti»[207].

La riparazione è semplice e possibile ed i più sinceri e coraggiosi di questa Chiesa lo riconoscono. Sfortunatamente però, l’occasione che venga applicata opportunamente è già molto dietro: «Non ci cibiamo d’altro cristianesimo che non sia quello dei tempi Apostolici – esclamava un sapiente Reverendo cattolico romano, Mons. Le Camus –. Non dobbiamo permettere a coloro che ci propongono altre differenti idee di turbare la nostra vita religiosa, di sottrarci alla nostra buona volontà e di diminuire le nostre energie»[208].

Le seguenti parole sono veramente una eco dei rimproveri di S. Policarpo ai Pilippesi: «Si abbandonino le vanità degli uomini e i falsi insegnamenti e si torni all’insegnamento che ci fu dato in principio»[209]. E aggiungiamo anche le osservazioni di S. Cipriano a Cecilio: «Quando la verità manca dall’usanza e dalla Tradizione queste non sono altro che l’antichità dell’errore. Esiste un mezzo molto sicuro per il quale le anime pietose possono distinguere ciò che è vero da ciò che non è vero: basta risalire al primo inizio del divino insegnamento, là dove ha termine l’errore umano. Si ritorni al primiero insegnamento, che ci fu dato da N. S. G. Cristo, come fino all’inizio Evangelico, fino alla Tradizione Apostolica da cui scaturisce la ragione dei nostri pensieri e delle nostre opere»[210].

Aggiungiamo ancora le parole del grande Profeta: «Fermatevi sulle vie, e guardate, e domandate quali siano i sentieri antichi del Signore, e guardate dove sia la buona strada e incamminatevi per essa; e voi, troverete la purificazione delle vostre anime»[211].

Ero, quindi, persuaso che anche la stessa vita spirituale della Chiesa romana potesse riuscirmi seriamente pericolosa; perché «nella Chiesa di Dio, costituisce grande tentazione per i fedeli, l’errore di coloro, i quali li conducono, e maggiore e più grave è la tentazione, quando quelli che insegnano l’errore occupano gradi molto elevati»[212]. Colui che affida la sua anima ad una Chiesa, che è diretta e governata da eterodossi, corre il pericolo che gli accada ciò che accadde ai fedeli, che si trovavano sotto l’autorità pastorale di Origene, per il quale i Padri dicono: «Infatti, non semplice tentazione, ma molto grave fu la cattiva influenza di questo maestro della Chiesa a lui affidata..., che nulla sospettava, nulla temeva da lui e così fu da esso condotta, a poco a poco ed incoscientemente, dalla originale religione ad una empia innovazione»[213].

Non volevo più restare nel seno di un falso cristianesimo, che sfruttava il Vangelo, per servire i fini imperialistici del cesaropapismo. Non volevo essere di quelli, che «non possono avere il vero Dio quale Padre in quanto disprezzarono la vera Chiesa quale Madre»[214], perché come dice S. Cipriano, quanti deviarono dalla vera dottrina e dalla prima unione ecclesiastica, «non hanno la legge di Dio, non hanno la fede del Padre e del Figlio, non hanno la vita e la salvezza»[215]. Avevo la convinzione che nulla più mi restava, che prendere la ultima decisione e fare il passo decisivo, ponendo fine alla insopportabile mia condizione nel seno del papismo, condizione la quale era già scossa da ogni punto di vista.

Indubbiamente la grazia del Signore mi ha contenuto in quei giorni in cui avrei dovuto prendere una così grave decisione, in modo che io mi domando ancora stupito, come mai ho potuto resistere alle tante lacrime dei miei cari fratelli del monastero ed ai tanti rimproveri e alle tante minacce dei miei superiori. Mi chiamarono ingrato e apostata della Chiesa dei miei avi e apostata della Tradizione religiosa della mia Patria. Mi limitavo a rispondere ai pochi che volevano ascoltarmi ancora, con queste parole di S. Girolamo nelle quali trovavo tanta forza e consolazione in ogni momento: «Non siamo obbligati a seguire gli errori dei nostri antenati e dei nostri maggiori ma i dettami della S. Scrittura e gli ordini di Dio»[216]. Per quanto riguarda il supposto «tradimento» alla Tradizione della Patria ero tranquillo. «Tutto ciò che si contrappone alla verità, anche se si tratta di una Tradizione o di una antica usanza, è eresia»[217].

E quando, dopo mesi, scrissi il primo capitolo del mio studio «Storia dell’Ortodossia Spagnuola», nel quale scientificamente mi occupavo della fondazione delle prime Chiese Iberiche dall’Apostolo Paolo[218] ho constatato che ero precisamente l’unico che non aveva tradito ancora la vera e antica Tradizione Spagnuola, dato che la Chiesa della mia Patria era infatti Ortodossa durante i primi quattro secoli dalla sua fondazione e non papista e non dominata dal Vaticano come oggi[219].

Abbandonai infine il monastero e poco dopo proclamavo pubblicamente la mia decisione, di abbandonare la Chiesa Romana. Altri monaci e Sacerdoti, avevano dimostrato fin allora il proposito di seguirmi, ma all’ultimo momento nessuno di loro si mostrò premuroso di sacrificare tanto radicalmente le sue condizioni nella Chiesa, il suo onore e la sua buona riputazione della società[220]. Prima di abbandonare il Convento ebbi la buona idea di chiedere ai superiori di rilasciarmi un certificato che attestasse che l’abbandono del Convento da parte mia avveniva dietro mia spontanea volontà e che durante tutta la mia vita monastica, non avevo dato il minimo motivo ad osservazioni. Tale documento mi venne rilasciato in seguito e fu «la deplorevole particolarità» che impedì posteriormente i Greci Uniti in Ellade di costruire qualche calunnia sulle cause della mia «Apostasia».

In tal modo abbandonai la Chiesa di Roma, il cui Capo dimenticando che il regno del Figlio di Dio non è di questo mondo[221] e che «colui il quale è stato chiamato alla dignità Episcopale, non lo è stato per investirsi di un’autorità umana, ma per servire intera la Chiesa»[222], imitò colui che «nella sua superbia desiderando essere come Dio, perdette la vera felicità per guadagnare una falsa gloria»[223]; imitò colui che «sedette al Tempio di Dio, per credersi Dio[224]». «Salirò fino ai cieli ed innalzerò il mio trono al disopra delle stelle di Dio: siederò sulla montagna, ove seggono gli Dei... e somiglierò all’Altissimo»[225].

Giustamente Bernardo di Chiaravalle, una delle maggiori figure mistiche d’Occidente, scriveva a Papa Eugenio: «nessun veleno maggiore per te, nessuna spada più pericolosa, che la passione del dominio»[226]. Guidati da questa sfrenata passione i Papi obbligarono la loro Chiesa a «fornicare con le forze del mondo, facendone bottino di mercanti»[227]. In tal modo trasgredirono i comandamenti di Dio, insegnando dottrine che sono precetti d’uomini[228] e «minando la verità, per costruire su questa i loro errori»[229] divennero loro stessi bugiardi[230], e seguaci del padre dei bugiardi e della menzogna[231]. E ciò, come del resto è accaduto a tutte le altre eresie di tutte le epoche, «perché introdussero nel divino dogma superstizioni umane, perché violarono i precetti degli antichi, disprezzando gli insegnamenti dei SS. Padri, annullando la sapienza degli antenati, attratti dalla sfrenata passione di una empia e vana, innovazione e perché non volevano contenersi nei limiti della santa e incorruttibile antichità»[232]. Ecco, dove è andato a finire il Papa, come quello sventurato Origene «coll’avere sprezzato la semplicità della religione cristiana e coll’avere preteso che egli sa più d’ogni altro, disprezzando le Tradizioni della Chiesa e gli insegnamenti degli antichi»[233].

In un tale stato di cose, non potevo fare altro che ciò che ho fatto, ubbidendo alla voce della mia coscienza, la quale ripeteva il comandamento dello stesso Dio al popolo eletto: «Esci da essa, o popolo mio: affinché non sii partecipe dei suoi peccati e non abbi parte alle sue piaghe»[234].

VERSO LA LUCE

Quando la notizia della mia disapprovazione del papismo cominciò a divulgarsi in larghi circoli ecclesiastici e ad essere accettata con entusiasmo dai Protestanti Spagnoli e Francesi, la mia posizione diveniva ancora più delicata. Nella mia quotidiana corrispondenza ricevevo molte lettere anonime di minacce e di ingiurie: mi si imputava che io cercavo di creare una pubblica opinione antipapista tra i fedeli e che volevo condurre all’apostasia un determinato numero di sacerdoti cattolici-romani, i quali, venivano considerati «deboli dogmaticamente» perché avevano la debolezza di palesare pubblicamente un interesse ed una simpatia per il mio caso. Tutte queste cose mi condussero alla decisione di lasciare Barcellona per trasferirmi a Madrid, ove accettai la ospitalità degli Anglicani e per mezzo loro iniziai relazioni col Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Intanto, nemmeno là riuscii a rimanere inosservato. E, dopo ogni mia predica, nei diversi Tempi della Chiesa Anglicana, un grande numero di ascoltatori erano desiderosi di conoscermi personalmente e discutere con me, confidenzialmente, su diverse questioni di coscienza. Il maggior numero dei miei interlocutori mi poneva la domanda circa la coesistenza di diverse Chiese Cristiane le quali si scomunicavano fra loro perché ognuna di esse sostiene che è l’unica, autentica e genuina rappresentante e, quindi, erede della Chiesa dei primi secoli.

Così, senza che io lo avessi cercato, cominciò a formarsi intorno a me un circolo sempre maggiore, di cui la maggioranza dei componenti non erano papisti. Ciò mi esponeva pericolosamente a venire alla rottura con le autorità, specialmente quando fra le visite confidenziali che ricevevo, cominciarono ad annoverarsi anche alcuni Sacerdoti cattolici-romani da molti conosciuti e disprezzati quali «ribelli contro la loro chiesa e quali seguaci di una idea liberale riguardo il Primato e la Infallibilità del Pontefice di Roma».

L’odio fanatico che nutrivano da allora in poi per me determinati cattolici-romani più papisti che cristiani, lo integrarono, infine, in quel giorno in cui risposi pubblicamente per esteso ad uno studio ecclesiologico, che mi era stato inviato dall’Azione Cattolica come «ultimo passo» per farmi desistere dalla «mia eretica ostinazione». Lo studio in parola, di carattere apologetico, portava il titolo espressivo: «Il Papa Vicario di N. S. Gesù Cristo sulla terra», ed il suo riassunto era presso a poco il seguente: «In virtù dell’infallibilità di Sua Santità i cattolici-romani sono, oggi, i soli cristiani che possano essere sicuri di ciò che credono». Dalle colonne della Rassegna portoghese «Critica dei Libri», risposi loro senza alcuna riserva: «Più obiettivo è, per virtù precisamente di tale infallibilità, il fatto che oggi siete in realtà i soli cristiani... i quali non possono essere sicuri... di ciò che Sua Santità li obbligherà a credere domani». Il mio commento terminava con queste parole: «ancora un po’ di più, e riuscirete a mutare N. S. Gesù Cristo in Vicario del Papa nei cieli».

Poco tempo dopo posi termine alla nostra disputa con la pubblicazione a Buenos Aires di un triplice studio, che esauriva completamente il tema nel modo più obiettivo[235]. Questo studio consiste in una raccolta di tutti i passi delle opere dei SS. Padri dei primi quattro secoli, che alludono direttamente o indirettamente ai così detti «Testi del Primato» che, come è noto, sono: Matt. 16, 16-19; Giovan. 21, 15-17; Luc. 22, 31-32. In tal modo dimostravo che la dottrina papista è assolutamente contraria alla interpretazione che danno i SS. Padri su questi passi del Vangelo, interpretazione che costituisce precisamente l’unica regola della spiegazione della parola di Cristo.

L’INCONTRO CON LA VERITÀ

Durante questo periodo, indipendentemente dai detti avvenimenti, venni per la prima volta in immediato contatto con l’Ortodossia. Prima di procedere alla enumerazione dei fatti devo far notare qui che le mie cognizioni su questa Chiesa erano abbastanza sviluppate fin dal principio della mia odissea. Da una parte, determinate discussioni, che per lungo tempo avevo fatto in temi ecclesiastici con un gruppo di universitari Polacchi ortodossi, i quali erano di passaggio per la mia patria, d’altra parte le notizie pubblicate che ricevevo dal Consiglio Ecumenico relative all’esistenza ed all’azione degli Ortodossi d’Occidente, avevano mosso sinceramente il mio interessamento. Di più, ultimamente, cominciai a ricevere pubblicazioni da Russi, da Greci, da Londra, da Berlino ed alcuni preziosi studi dell’Archimandrita Benediktos Katsanevakis, pubblicati a Napoli, che avevano guadagnato la mia simpatia.

Tutto ciò contribuì, naturalmente, a poco a poco ad estinguere integralmente tutti i miei preconcetti, che, a riguardo dell’Ortodossia vengono fomentati dal Cattolicesimo romano, i cui testi ufficiali di dottrina che vengono insegnati alla gioventù scolastica e universitaria riferiscono che: «Lo scisma d’Oriente, il così detto Ortodossia, non è null’altro che un insieme senza vita, mummificato, fossilizzato e disseccato; piccole chiese locali, senza nessuno dei caratteristici contrassegni distintivi della vera Chiesa di Cristo»[236]. Cioè «un lacrimevole scisma il quale ebbe come Padre il Diavolo e come Madre la superbia del Patriarca Fozio»[237].

Quando, di mia propria iniziativa, cominciai le mie relazioni per corrispondenza con un venerabile membro della Gerarchia Ortodossa in Occidente a cagione della mia propria crisi dovuta a tutte queste generiche informazioni, ero già integralmente capace di ricevere obiettiva cognizione di quanto questo Vescovo mi voleva riferire riguardo alla dottrina Ortodossa. In altre parole ero già in condizione di esaminare senza preconcetti tutte le relative questioni dottrinali riguardanti sia la fondazione che la situazione teologica delle Chiese Orientali.

Durante tali relazioni, non tardai a discernere il parallelismo esistente fra la mia negativa posizione e la dottrina Ecclesiologica dell’Ortodossia dinanzi al papismo. Mentre io combattevo «ciò che non doveva esistere» l’Ortodossia parallelamente, offriva «tutto ciò che deve esistere». Riferii questo parallelismo a quel venerabile prelato, dato i nostri reciproci rapporti convenne meco su tale punto, anche se con qualche riserbo dovuto al fatto della mia permanenza fra Protestanti. Qui devo osservare che i rappresentanti dell’Ortodossia in Occidente non s’interessano per nulla del proselitismo perché il proselitismo tra cristiani è contrario alla loro concezione circa la situazione ecclesiastica in Europa ed alla loro attività strettamente pastorale fra i Greci ed i Russi, la di cui spiritualità è stata loro affidata.

Quando la nostra corrispondenza era ormai molto avanzata e per mezzo di essa le mie relazioni erano estese fino allo stesso Patriarcato Ecumenico, solo allora, fu deciso di consigliarmi lo studio della preziosa opera di Sergio Boulgakoff «L’Ortodossia»[238] e la non meno profonda opera del Metropolita Serafino di Berlino, la quale porta il medesimo titolo[239]. Dal principio della lettura di queste opere, sentii il mio essere identificarsi con lo spirito dei loro autori. Nessun paragrafo vi incontrai da non potere ammettere e abbracciare coscientemente. Tanto in tali opere, quanto in molte altre che cominciai a ricevere dalla Grecia accompagnate da lettere incoraggianti, mi sorprendeva l’evangelica purezza dell’insegnamento Ortodosso, i di cui fedeli sono oggi, indubbiamente, gli unici cristiani del mondo i quali credono quello che credevano anche i cristiani delle catacombe; gli unici e veramente fedeli, i quali hanno ragione di ripetere con legittimo orgoglio la patristica frase: «Crediamo a tutto ciò che ricevemmo dagli Apostoli, a tutto ciò che gli Apostoli ricevettero da Cristo, e a tutto ciò che Cristo ricevette dal Padre». O a queste parole di Tertulliano: «Solo noi siamo in comunione con le Chiese Apostoliche, perché la nostra dottrina è la sola, che non si differenzia dalla dottrina loro. Questa è la testimonianza della nostra verità»[240].

Durante questo periodo scrissi il mio studio «Concetto della Chiesa secondo i Padri dell’Occidente» e lo studio «Dio nostro, Dio vostro, e il Dio»[241], la cui pubblicazione, nel Sud America, fui costretto di sospendere, per non offrire un’arma tanto maneggevole quanto pericolosa alla propaganda protestante.

Venni allora consigliato dal lato Ortodosso, di lasciare il mio atteggiamento semplicemente negativo dinanzi al papismo, atteggiamento al quale mi ero attaccato, per dedicarmi ad un lavoro di concentrazione e di autoesame, per il rinvenimento del mio positivo e concreto mio personale «Credo», per mezzo del quale avrebbero potuto esaminare la mia esatta condizione teologica e misurare le distanze che questa potesse avere dall’anglicanesimo da una parte e dall’Ortodossia dall’altra. Tale fatica non era né facile né breve in quanto mi obbligava ad un esame molto largo, trattandosi della fede per la quale indubbiamente non ero ancora teologicamente preparato. Perché, non si trattava per me soltanto di cancellare i dogmi relativi al Primato Papale e le sue prerogative e rimanere con il resto della dottrina romana, ma occorreva un profondo lavoro di analisi e chiarificazione, tra le verità fondamentali del Cristianesimo e le barriere dogmatiche papali di ogni ordine e specie, sulle quali sono stati solidamente basati per secoli gl’interessi politico-ecclesiastici del Vaticano, per la realizzazione delle sue mire imperialistiche sulla Chiesa. E ciò perché non volevo ricadere nel medesimo errore degli Antichi Cattolici i quali scandalizzandosi della proclamazione del dogma dell’infallibilità papale nel Sinodo del Vaticano, abbandonarono il Papa e restarono però con la medesima teologia romana, contessuta con tanti altri artefatti dogmi, preconcetti e superstizioni.

Innanzi all’enorme difficoltà di questo lavoro preferii esprimere il mio atteggiamento con parole generiche e positive, quanto più mi era possibile, esprimendomi quindi così: «Credo a tutto ciò che contengono i libri canonici del Vecchio e Nuovo Testamento ed a tutti gli insegnamenti che scaturiscono direttamente dal loro contenuto conformemente all’interpretazione di esso fatta secondo il tradizionale insegnamento ecclesiastico, cioè secondo l’insegnamento dei Concili Ecumenici e dell’unanime consenso dei Santi Padri».

Da quel momento, cominciai a notare che la simpatia dei Protestanti verso di me diminuiva rapidamente, fatta eccezione degli Anglicani, la comprensione e l’incoraggiamento morale dei quali mi accompagnavano durante tutto questo difficile periodo. E solamente allora l’interesse degli Ortodossi, anche se molto tardi, cominciava a dileguare il preconcetto verso me e considerarmi come uno «probabile e interessante catecumeno». Le parole di uno scienziato Ortodosso Polacco (al quale, gli Uniti[242], informati della sua influenza, delle sue ricchezze e del suo prestigio, fecero proposte di convertirsi con ogni costo al papismo), le parole dico di lui mi persuasero circa la fede dell’Ortodossia sulle verità sostanziali del primo Cristianesimo. Questo mio amico diceva agli Uniti: «Mi consigliate che devo rinnegare la fede Ortodossa per diventare perfetto cristiano: E bene; la mia fede Ortodossa, è costituita dai seguenti elementi: Gesù Cristo, Vangelo, Sinodi e SS. Padri. Chi o quali di questi elementi devo rinnegare, per diventare, come dite, perfetto cristiano?». E quando, modificando la loro politica, gli proposero di non rinnegare nulla di ciò, ma almeno riconoscere il Papa come infallibile Capo della Chiesa, rispose semplicemente: «Riconoscere il Papa? Ciò sarebbe come rinnegare tutti i sopraccennati elementi!».

Compresi, che difatti, ogni cristiano non Ortodosso, ha la possibilità di sacrificare una parte dell’intera sua dottrina, per giungere ad una più completa purezza della sua fede, mentre il cristiano Ortodosso non ha questa facoltà, perché solo lui resta fermamente alla sostanza del Cristianesimo, la quale costituisce la Verità rivelata, eterna ed immutabile. Un cristiano cattolico-romano per esempio, può rinnegare il Papa, come feci io, o confutare la dottrina sul Purgatorio, o portare obiezioni alle norme del Concilio di Trento senza perciò cessare d’essere cristiano. Con lo stesso modo un Protestante può rinnegare gli insegnamenti dei grandi Riformatori in ciò che riguarda la Divina Grazia e la Predestinazione e rimanere intanto ugualmente cristiano. Solo l’Ortodosso è colui il quale non dispone nella sua fede di altri elementi che di quelle sostanziali e basilari verità del Cristianesimo, direttamente rivelate da Dio per mezzo di Gesù Cristo. La Ortodossia è la sola Chiesa la quale non accettò mai di proporre nulla ai suoi fedeli, tranne quello, che «sempre, dappertutto e da tutti» fu considerato come insegnamento rivelato da Dio[243]. Perciò, l’abbracciare l’Ortodossia non è altro che l’abbracciare la fede del Vangelo nella sua limpidezza primitiva, mentre al contrario il rinnegarla e il ribellarsi ad essa è come rinnegare e distaccarsi interamente dal Cristianesimo.

L’Ortodossia è quell’unica Chiesa, che come fedele custode della fede Evangelica «giammai mutò in essa nulla, né tolse né aggiunse nulla»[244] «non tolse nulla di sostanziale né accumulò degli accessori, né smarrì qualcosa di suo, né rapì nulla di estraneo, sempre fedele e prudente verso ciò che ereditò»[245], perché sa che nella fede, che originariamente le fu affidata una volta per sempre[246], non è permesso il minimo cambiamento neanche da un angelo del cielo[247] e tanto meno da un uomo terreno bugiardo e peccatore!...

L’Ortodossia è la vera sposa di Cristo «gloriosa, senza macchia, e senza ruga o qualcosa di simile, ma santa ed irreprensibile»[248].Questa è la Santa Chiesa di Dio l’unica sua[249], «la veramente Chiesa Universale (= Cattolica) che combatte contro tutte le eresie». Essa può combattere ma non può essere mai vinta. Benché tutte le eresie e gli scismi siano da Essa germogliati, sono tolti da Essa come tralci inutili dal tronco della vite principale, questa però resta ferma alla sua radice, alla sua unione con Dio[250]. Chi la segue, segue Dio; chi ascolta la sua voce, ascolta quella di Dio[251]; e colui il quale le disubbidisce è uno dei Gentili[252].

Persuaso di tutte queste idee non mi sentivo più tanto solo, dinanzi all’onnipotente papismo da una parte, e la sempre più manifesta freddezza dei protestanti dall’altra. Sentivo che esistevano in Oriente e sparsi in tutto il mondo, milioni di miei fratelli cristiani, i costituenti la Chiesa Ortodossa, che, con essi, mi trovavo già in comunione di fede e di dottrina. La calunnia papista della fossilizzazione e del disseccamento teologico dell’Ortodossia, non mi ha per nulla toccato, poiché, avevo compreso, ormai, che questa perseverante costanza dell’Ortodossia nella verità da Essa ereditata, non era immobile, statica, impassibile e quindi pietrificata, ma era una confessione di fede a corrente permanente, quale la corrente di una cascata, che appare sempre la stessa, mentre, le sue acque, alternandosi, sono permanentemente diverse ed in ogni momento producono nuova eco ed armonia.

A poco a poco, anche gli ortodossi cominciarono a considerarmi come persona loro. «Il discutere con questo Spagnolo delle verità dell’Ortodossia non è proselitismo – scriveva un Archimandrita – ma è parlare con lui di un insegnamento, di uno spirito religioso, i quali sono tanto nostri quanto suoi, con la sola differenza che noi li abbiamo ereditati dai nostri anteriori mentre lui è riuscito ad esumarli da una profondità di quindici secoli di storia della nostra Chiesa». Era quindi chiarissimo che il naturale sviluppo delle mie «spirituali inquietudini», così chiamate dal mio confessore, mi aveva guidato inconsciamente nel seno della Madre Chiesa cioè della Chiesa Ortodossa. Di più; durante questo ultimo periodo, ero già, senza che me ne accorgessi, un Ortodosso e nello stesso modo come i discepoli a Emmaus, così, anch’io camminavo percorrendo insieme con la Divina Verità, senza riconoscerla, fino al termine del mio viaggio spirituale.

Quando, arrivato alla piena convinzione di tutte queste cose, compresi che non mi restava null’altro che agire in conseguenza. Scrissi quindi, una lunga esposizione del mio caso e del suo sviluppo al Patriarcato Ecumenico come pure a Sua Eminenza l’Arcivescovo di Atene a mezzo della Direzione della «Diaconia Apostolica» (Αποστολική Διακονία) della Chiesa di Grecia. Allo stesso modo esposi chiaramente la mia risoluzione alle Gerarchie e ad altri membri delle varie Chiese, con le quali ero in relazioni. E sentendomi come colui che possiede già la perla preziosa per la quale vale la pena di sacrificare qualunque cosa che ha[253], pur di custodirla, abbandonai la mia Patria a mi recai in Francia dove venni in pieno contatto con gli Ortodossi miei fratelli appena conosciuti. Preferii, però, di lasciare passare ancora del tempo, prima di entrare regolarmente come membro della Chiesa Ortodossa, avendo ancora intenzione di maturare a poco a poco la mia tanto importante risoluzione.

Infine feci il passo definitivo, chiedendo ufficialmente l’ingresso nella vera Chiesa di Cristo. Tutti concordemente decisero che l’avvenimento avesse luogo nella stessa Grecia, terra per eccellenza della Ortodossia, ove dall’altra parte, bisognava che mi recassi poiché colà dovevo seguire gli studi teologici. Giunto ad Atene mi presentai a Sua Beatitudine l’Arcivescovo, che mi serbò la migliore accoglienza paterna il di cui affetto, la tenerezza e l’interesse si mantengono inalterati fin oggi, accompagnandomi ad ogni passo della mia nuova vita ecclesiastica. Ciò potrei dire anche per l’allora Rev.mo Protosincello (Vicario Generale), oggi per grazia Divina Vescovo di Roge (Ρωγών), vero padre, il di cui interessamento per me superò fin dal principio ogni mia aspettativa. Inutile dire che in tale ambiente di affettuosa tenerezza, il Santo Sinodo non tardò a decidere per il mio definitivo ingresso nel seno della Chiesa Ortodossa.

Durante la Sacra Funzione della Cresima, per me commoventissima, in virtù della quale divenni ormai membro della vera vite, fui onorato col nome dell’Apostolo delle Genti, ed in seguito ammesso nel monastero della Madonna di Pentelis come monaco. Pochi mesi dopo venni ordinato Diacono per mezzo dell’imposizioni delle mani del Vescovo di Roge (Ρωγών).

Disprezzando le continue molestie da parte dei membri del fosco Ordine papista dei così detti «Greci uniti» poco numerosi in Grecia, la fantasia dei quali non si esaurisce mai quando si tratta di macchinare ogni specie di calunnie mi sento felice perché circondato dall’affetto, dalla simpatia, e dalla comprensione da parte della SS. Chiesa Greca e della venerabile Gerarchia, come pure da parte delle diverse Organizzazioni religiose ed in genere di tutti coloro che fin oggi mi onorano con la loro spirituale conoscenza.

Da tutti questi, miei padri e fratelli nella fede, e da quelle persone che a mezzo dei miei scritti benevolmente hanno appreso di me e di tutta la mia Odissea, chiedo il soccorso delle loro preghiere per ricevere la grazia del Cielo, onde mantenermi degno e costante verso il grande ed eccellente beneficio di Dio.

* * * * *

IL CONSENSO DELL’AUTORE

Salonicco, 1 febbraio 1955

Al molto Rev.

Archimandrita Benedictos Katsanevakis

NAPOLI (Italia)

Molto Reverendo,

Con grande gioia ho ricevuto tempo fa il Vostro libro: “I Sacramenti nella Chiesa Ortodossa”, per l’invio del quale desidero esprimerVi i miei più sentiti ringraziamenti. L’ho letto e studiato con molta attenzione e dopo di ciò sento profondamente, come ortodosso Occidentale, la riconoscenza per la Vostra attività illuminatrice e missionaria in Occidente, attività e opera, alle quali, io, personalmente, debbo tanto, come attuale Cristiano Ortodosso.

La seria obiettività che usate nei vostri studi, la profonda scientifica dignità e la fervente dedizione ai principi dell’inalterata eredità dell’Ortodossia, presentano la Vostra Opera Apostolica quale veramente unica.

Da molto tempo avevo grande desiderio di venire in contatto spirituale con Voi, affinché, da giovane ed inesperto operaio nella Vigna del Signore, approfittassi dalla Vostra ricca, spirituale e scientifica esperienza missionaria, ma ignoravo il Vostro preciso indirizzo in Napoli. Ultimamente l’ho conosciuto durante la mia permanenza al Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, ove con piacere ho constatato la profonda stima di cui lì gode la Vostra persona ed il Vostro Apostolato…

Ora, rispondendo alla Vostra ultima lettera, con filiale riconoscenza per l’onore concessomi Vi do pieno il mio consenso per la traduzione in lingua italiana del mio umile libretto circa la mia conversione all’Ortodossia. Ringrazio anticipatamente per questa Vostra fatica.

Devotissimo

Paul Fr. Ballester Convalier

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