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venerdì 9 gennaio 2015

27 dicembre / 9 gennaio: Santo Stefano Protomartire

Stefano – nome ellenico corrispondente all’aramaico Kelil, maschile di “corona”, cioè incoronato – fu il primo martire della Chiesa cristiana, martire che, come si vedrà, alcuni tendono a identificare con l’apostolo Paolo o lo stesso Gesù Cristo.

Rivelano gli Atti degli Apostoli (cap. 6) che, per essere aiutati nel ministero, gli apostoli scelsero, tra i discepoli, Stefano, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas e Nicola di Antiochia, ai quali «imposero le mani». Questo gesto – presente sia nell’Antico Testamento (Nm 27,18-23) che nel Nuovo Testamento (At 13,3; 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6) – è interpretato dalla Chiesa come l’istituzione del diaconato, ossia la trasmissione ufficiale di un incarico accompagnata dall’implorazione di una grazia per esercitarlo, da compiersi con discernimento («Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui», 1 Tm 5,22). Gli Atti parlano poi soltanto di Stefano.

Ebreo di lingua greca, dalla sapienza fuori del comune e capace di compiere miracoli, Stefano fu lapidato a Gerusalemme con l’accusa di aver bestemmiato contro Mosè e contro Dio, alla presenza, e con l’assenso, del fariseo Saulo di Tarso (At 8,1), futuro san Paolo.

La data della morte è stata dapprima creduta di poco successiva alla risurrezione di Cristo, poi essa è slittata dopo la Pentecoste poiché gli apostoli già predicavano. Ora si tende a credere che sia avvenuta nell’anno 36 (nel periodo tra Pasqua e Pentecoste), perché Stefano fu lapidato e non crocifisso come usavano i Romani, cosa che poté succedere soltanto quando, deposto Ponzio Pilato nel 36, comandava il Sinedrio, il supremo organo politico, religioso e giudiziario degli Ebrei che non aveva la facoltà di condannare a morte senza il consenso dei Romani. Tuttavia, per Stefano, il Sinedrio non arrivò alla sentenza, perché gli astanti «lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo» (At 7,58) senza che qualcuno lo impedisse. Va considerato, però, che forse gli Ebrei credettero di mettere in pratica le parole di Mosè: «Conduci quel bestemmiatore fuori dell’accampamento; quanti lo hanno udito posino le mani sul suo capo e tutta la comunità lo lapiderà» (Lv 24,14), per cui non decade la prima ipotesi che colloca la lapidazione nell’anno 33 o 34.

L’arringa difensiva di Stefano è interamente riportata negli Atti (cap. 7) e l’autore, l’evangelista Luca, la prese sicuramente da altre fonti, sia perché essa non è in gran parte pertinente alle accuse ma vi è compiuta una rilettura cristologica dell’Antico Testamento, sia perché la parlata di Stefano è «infiorata di aramaismi assolutamente non imputabili a Luca e costruita differentemente dalle regole della retorica greca e con locuzioni estranee all’evangelista» (C. Zedda). Forse la fonte fu il fariseo Gamaliele, dottore della legge (At 5,34) e maestro di san Paolo (At 22,3), che, come membro del Sinedrio, assistette ai processi subiti da Gesù Cristo e dagli apostoli. E infatti il processo a Stefano assomiglia a molto a quello subito da Gesù, cosa che se da una parte mostra l’intenzione di evidenziare la continuità tra Cristo e il suo discepolo, dall’altra ha fatto sorgere le prime perplessità sull’identità di Stefano.

I miracoli operati dal Protomartire, fedelmente registrati in libelli da sant’Agostino e da altri, erano tanto numerosi che i crociati (XIII secolo) razziarono le reliquie di Stefano diffondendole in Europa in quantità molto sospette (solo a Roma si venerarono contemporaneamente un cranio, tre bracci e un corpo pressoché intero).

Ciò confermò ulteriormente le perplessità degli storici sul ritrovamento dei resti di Stefano e sulla narrazione di Luciano, arrivando alla supposizione che essa fosse da identificare, in tutto o in parte, nella Apocalisse di Stefano, un apocrifo condannato dal Decreto Gelasiano (VI secolo) di cui non si conosce il testo completo. E, tra gli miscredenti, crebbero i dubbi sull’autenticità della figura di Stefano, perché già si era notato che:

- il discorso tenuto da Stefano davanti al sinedrio non ha carattere difensivo, ma didattico;

- vi è corrispondenza tra le parole di Stefano e quelle proferite nei rispettivi processi da Gesù, Paolo (At 22 e 23), Pietro (At 4 e 5) e Giacomo il Giusto (in Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica) e anche sant’Agostino sottolineò la somiglianza delle passioni di Gesù e Stefano. Per esempio, Gesù disse «d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo” (Mt 26,64; cfr. Mc 14,62; Lc 22,69; Gv 1,51)» e Stefano: «Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio» (At 7,56) e ancora Gesù disse: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34) e Stefano: «Signore, non imputar loro questo peccato» (At 7,60) e Giacomo il Giusto: «Ti supplico, Signore Dio Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Eusebio);

- vi è analogia di contenuti e di stile tra la narrazione di Luca e la Lettera agli Ebrei di san Paolo;

- sono accostabili i versetti At 7,58 («lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo») e At 14,19 («essi presero Paolo a sassate e quindi lo trascinarono fuori della città, credendolo morto») e le parole di san Paolo in At 22,20 («quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch’io ero presente e approvavo e custodivo i vestiti di quelli che lo uccidevano»).

Inoltre, quanto tramandatoci dell’Apocalisse di Stefano, forse ripreso in una Passio di cui si è ritrovato un manoscritto del X secolo sul Monte Athos, evidenzia il ruolo preponderante avuto da Saulo/Paolo nella condanna di Stefano e, dall’attenta analisi dei testi, risultano riportate fatti e frasi già attribuiti, nei Vangeli e negli Atti, a Gesù e a Paolo.

Di conseguenza, è stata formulata l’ipotesi che nella lapidazione di Stefano si sia voluta celare la persecuzione di Paolo, cosa che parrebbe sostenuta dalla sostituzione nella traduzione CEI della Bibbia (At 7,60) del verbo “addormentarsi”, presente in tutte le altre traduzioni, con “morire”, verbi che possono essere ritenuti sinonimi, ma che, presi nel loro significato letterale, indicano due stati ben diversi, richiamando così il «credendolo morto» in At 14,19 sopra citato. A questa supposizione, che sostiene che Paolo e Stefano siano la stessa persona, ne è stata affiancata anche un’altra che ritiene che Paolo e Stefano (alcuni vi aggiungono Pietro e Giacomo) siano da identificare con Cristo stesso, di cui furono separate alcune vicende per dar loro maggiore pregnanza, ovvero a scopo didattico.

Naturalmente la Chiesa rifiuta queste ipotesi, accettando con prudenza soltanto la narrazione del prete Luciano, avvallata dal suo contemporaneo sant’Agostino.

Le Chiese ortodosse ricordano il martirio del «Protomartire e guerriero di Cristo» il 27 dicembre del calendario giuliano (9 gennaio di quello gregoriano) e lo scoprimento delle reliquie il 2 agosto (15 agosto). Localmente e nella Chiesa di Alessandria, si commemora il 2 agosto la traslazione delle reliquie da Gerusalemme a Costantinopoli (428), e il 15 settembre (28 settembre) il loro ritrovamento nel 415. La tradizione vuole che la data del 2 agosto sia quella della consacrazione della chiesa di Costantinopoli dedicata al protomartire Stefano.

Stefano “morì” o “si addormentò”, secondo le diverse traduzioni della Bibbia, verbi, questi, che nel linguaggio degli antichi cristiani erano considerati sinonimi, in quanto si credeva nella provvisorietà della morte e nella risurrezione. Il luogo della lapidazione è ignoto; si suppone che fosse in una zona pietrosa a nord di Gerusalemme, lontana dal controllo della guarnigione romana che avrebbe impedito l’esecuzione. Una tradizione – seguita dalla Chiesa orientale – vuole che alla lapidazione assistettero, da lontano e in preghiera, la Vergine e san Giovanni il Teologo.

Il corpo di Stefano fu abbandonato agli animali selvatici, ma alcune anime pie lo seppellirono (At 8,2). Su chi fossero queste persone ci sono tre tradizioni: quella ufficiale indica il dotto Gamaliele; una seconda vi aggiunge la presenza dell’apostolo Barnaba accanto a Gamaliele, forse sottintendendo che nessun apostolo difese pubblicamente Stefano (come fu per Gesù); una terza dice che fu Ponzio Pilato, convertitosi dopo il processo a Cristo, a seppellirlo nella tomba di famiglia, da cui in seguito gli angeli lo rimossero.

Dopo la morte, sia perché iniziò una serie di violente persecuzioni contro i cristiani, sia perché il culto delle reliquie si diffuse più di un secolo dopo, il corpo del martire fu dimenticato fino al 415, all’epoca dell’imperatore romano d’Occidente Onorio.

Ai primi di dicembre del 415 (ma nella lunga trattazione di Jacopo da Varazze è scritto 417), Luciano, un prete di Kefar-Gamala, a nord di Gerusalemme, sognò il vecchio Gamaliele che gli indicava il luogo ove erano sepolti lui stesso e tre suoi santi compagni: il protomartire Stefano, Nicodemo suo discepolo e Abiba (o Abibo) suo figlio. Luciano scrisse una relazione sul ritrovamento (o “invenzione”, dal latino inventio, trovare) dei corpi in lingua greca, che fu subito tradotta in latino da Avito di Braga (ma alcune versioni dicono che fu Avito a sognare Gamaliele) e contemporaneamente riversata in siriaco e in copto.

Scoperto il corpo del martire, la terra tremò, un soavissimo odore si sparse e una settantina di infermi guarirono immediatamente. Le ossa di Stefano, tranne una piccola parte lasciata a Luciano, furono trasportate solennemente a Gerusalemme nella chiesa di Sion, il 26 dicembre 415 (data già dedicata al santo nel Martirologio siriaco), dal vescovo della città santa Giovenale e dai vescovi Eutonio di Sebaste e Eleuterio di Gerico. Alcune ossa furono trasferite in Africa, tra i fedeli di Menorca e di Uzala, e successivamente le reliquie di Gerusalemme furono portate a Costantinopoli (prima traslazione) nel 428. Una seconda traslazione condusse le reliquie a Roma, come accenna Jacopo da Varazze.

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