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venerdì 11 gennaio 2013

La sopravvivenza e la fioritura della tradizione ortodossa Russa nell'Arcivescovado per le Chiese ortodosse russe - Esarcato del Patriarcato Ecumenico

Un po’ di Storia non fa mai male…

del caro nel Signore, Fratello, Concelebrante e Amico, P. Sergio Mainoldi (Decano in Italia dell’Esarcato)

La storia dell’Arcivescovado per le chiese ortodosse russe in Europa occidentale, Esarcato del Patriarcato ecumenico, costituisce un singolare esempio di come la testimonianza della Fede ortodossa e il martirio abbiano costituito una parte non trascurabile dell’esperienza spirituale ed ecclesiale della diaspora ortodossa in Europa occidentale durante il XX secolo. Quello che cercherò di mettere in luce è che sia i motivi che portarono alla nascita dell’Esarcato, sia i principî canonici posti alla base della sua istituzione, furono una conseguenza di un incontro non fortuito tra il significato e il ruolo ‘ecumenico’, riconosciuto dal plèroma della Chiesa indivisa al Patriarcato di Costantinopoli, e l’esigenza di un recupero dell’istanza ecclesiale-ecumenica da parte del clero della Chiesa russa in diaspora in Europa occidentale negli anni successivi alla Rivoluzione bolscevica.

La nascita dell’Arcivescovado come «Esarcato ortodosso russo temporaneo del santo Trono apostolico e patriarcale di Costantinopoli in Europa occidentale», creato su decreto del Patriarca ecumenico Fozio II e approvata dal Santo Sinodo del Patriarcato ecumenico in data 17 febbraio 1931, doveva rispondere inizialmente, come recita lo stesso titolo della diocesi, a una situazione contingente – e possibilmente transitoria – che venne a determinarsi per l’allora «Amministrazione provvisoria delle parrocchie russe in Europa occidentale», fondato dal Patriarca Tikhon di Mosca e affidato al Metropolita Evlogij (Georgievskij) nell’aprile 1921 in ragione dell’impossibilità di mantenere un legame ecclesiale con la Chiesa madre, vittima delle persecuzioni antireligiose del regime bolscevico[1].

Tanto le polemiche del tempo quanto i giudizi successivi si sono per lo più concentrati sul problema canonico (le ragioni di Mosca lese o meno da Costantinopoli ecc.) oppure sono approdati al giudizio che questi eventi furono determinati dalla contingenza storica, mancando tuttavia di riconoscere che la nascita dell’Esarcato rispondeva a ben più profonde ragioni. La cornice storica, infatti, non fu che la causa contingente della formazione dell’Arcivescovado russo sotto il Trono ecumenico, ma in realtà costituì l’occasione che consentiva l’attualizzazione di una serie di dynameis costitutive dell’essere ecclesiale che erano fino a quel momento rimaste sopite nella Chiesa russa, ed erano state riportate allo scoperto dal Concilio di Mosca del 1917-18.

Gli eventi che avevano stravolto la società russa e la sua forma di governo, tra il 1905 e il 1917, dalla caduta della monarchia alla Rivoluzione bolscevica, offrirono alla Chiesa russa un’occasione per uscire dalla condizione di stallo in cui si era trovata alla fine del periodo Sinodale. Se infatti la tradizione russa durante quel periodo era brillata per gli straordinari frutti di santità che erano maturati sul suo sconfinato territorio, dai successi dell’azione missionaria, alla riscoperta dell’Esicasmo e all’irradiamento dello stárčestvo – era questa la Santa Russia –, non altrettanto possiamo dire per quel che riguarda gli sviluppi ecclesiologici o la scienza teologica. Per il fatto stesso che lo statuto della Chiesa russa come organo del Governo imperiale era evidentemente un’anomalia, la coscienza ecclesiale plasmata da una tale commistione religioso-nazionalistica non poteva non esserne influenzata negativamente, al pari della riflessione ecclesiologica, per non parlare poi della riflessione teologica, che era rimasta confinata in una scolastica conservatrice, influenzata nei metodi e nei contenuti dalla teologia occidentale.

Padre Gregorio Lomako (1881-1959), rettore della cattedrale Sant-Alexander Nevskij di Parigi e grande canonista (fu, tra l’altro, il primo a suggerire al Metropolita Evlogij di cercare protezione sotto l’omophorion ecumenico), ebbe a scrivere nel 1950: «I duecento anni di direzione sinodale della Chiesa russa, allorché questa era diventata uno “dei dipartimenti amministrativi” del complesso apparato statale, non mancarono di lasciare una traccia nelle coscienze, e soprattutto in quella degli emigrati all’epoca delle nostre prime “espulsioni”. Durante questi duecento anni, la maggioranza dei russi ha perso la purezza della coscienza ecclesiale, dimenticando il senso dell’unità della Chiesa, della sua cattolicità, il fatto che essa è autosufficiente per se stessa. La loro concezione del legame con la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, nonché della necessità di questa relazione, si indebolì all’estremo o fu distorta al punto tale che finirono per attribuire alla Chiesa russa tutti gli attributi della Chiesa universale; ne risultava così che la Chiesa locale della Russia era sentita come la Chiesa universale e che oltre a quella non c’era nulla di ecclesiale né di ortodosso. C’erano sì da qualche parte dei Greci, dei Rumeni e degli Arabi, ma erano soltanto delle “quantità trascurabili”»[2].

Il Concilio di Mosca del 1917-18 concretizzò la reazione del corpo ecclesiale alla necessità di riportare la Chiesa entro un’organizzazione conforme alla tradizione ortodossa: se la Rivoluzione bolscevica impedì di fatto l’applicazione in Russia delle riforme sancite da quel Concilio, non ne annullava tuttavia la stringente necessità, che invece continuò a determinare la riorganizzazione ecclesiale della Diaspora. La richiesta di Mons. Evlogij di accoglienza sotto l’omoforio del Patriarca ecumenico rispose precisamente alla volontà di proseguire in questo movimento di rinascita ecclesiale della Chiesa russa che si era innescato negli anni preparatori del Concilio di Mosca. E vediamo come, limitandoci ad alcuni punti salienti:

1) La libertà ecclesiale come presupposto della vita nella Chiesa. La separazione tra la Chiesa e lo Stato, che in Russia si era prodotta come evento, non programmato, successivo alla caduta della monarchia, e venne sancito con la restituzione del Patriarcato da parte del Concilio del 1917-18, costituì una vera e propria liberazione, non tanto della vita ecclesiastica, quanto della coscienza ecclesiale. Questo processo aveva gettato nel corpo ecclesiale il germe della discussione sul ruolo della Chiesa nel mondo, allorché il vecchio mondo della Russia monarchica era di fatto svanito (uno svanimento improvviso e inimmaginabile, come lo fu la dissoluzione dello Stato sovietico nel 1989).

L’inizio della stagione del martirio, con le prime ondate di persecuzioni bolsceviche, riportarono poi al centro della percezione ecclesiale l’autocoscienza escatologica della Chiesa. Il Metropolita Evlogij si fece consapevole e convinto sostenitore dell’istanza di separazione della Chiesa dalla causa politica in relazione alla situazione in patria, rifiutandosi da una parte di firmare la lealtà allo Stato sovietico, e, dall’altra, prendendo le distanze dagli argomenti apologetici – e di certo non illegittimi, ma portatori di un giudizio politico – che i Sinodali avevano invocato per separarsi da Mosca. In quell’occasione il Metr. Evlogij ebbe a scrivere: «Non permetterò che nelle chiese sotto la mia obbedienza l’ambone ecclesiastico sia trasformato in tribuna politica»[3]. Per quanto siano evidenti le ragioni contingenti di questi scambi, chiaramente determinate dalla volontà di sottrarsi dall’influenza del potere ateo sovietico, la drammaticità del momento non impedì di andare al fondo dei principî e di recuperare l’autentico senso della libertà ecclesiale, non solo nei termini di una coscienza negativa del “fatto” sovietico, bensì nel senso di una coscienza positiva che pervase tutta la parte della diaspora rimasta fedele al Metropolita Evlogij, creando di fatto la coscienza di trovarsi in una condizione favorevole per realizzare quelle istanze di rinnovamento che la tradizione ortodossa russa, ma a ben vedere l’Ortodossia in senso lato, richiedevano. Questa consapevolezza può essere riassunta con le parole che Santa Mat’ Maria Skobtzova ripeteva con insistenza: «la Chiesa nell’emigrazione godeva di un privilegio unico dai tempi dei primi cristiani, quello di una libertà quasi totale verso ogni forma di struttura statale o sociale»[4]. P. Alexander Schmemann a sua volta definisce così il significato escatologico ed ecumenico della vicenda storica della Chiesa russa di fronte alla catastrofe rivoluzionaria: «l’avvento del Bolscevismo non segnò soltanto la fine di un periodo della Chiesa russa, bensì la fine di un’epoca nella vita dell’Ortodossia»[5].

Possiamo così constatare che nel 1931, quando cioè la divisione della Chiesa russa dopo la rivoluzione aveva preso la configurazione nelle tre principali giurisdizioni – Patriarcato, Sinodali ed Esarcato – che ne disegneranno la topografia, in patria e all’estero, per tutto il settantennio sovietico, alla base di questa configurazione si staglino nondimeno tre differenti orientamenti ecclesiali: da una parte quello incarnato dal Patriarcato, costretto a soggiacere alle condizioni del potere ateo, a subirne la violenza distruttiva o a collaborare giocoforza quando gli venne richiesto (ad esempio con l’impegno di lealtà del Metropolita Sergio o con dalla svolta di Stalin nel 1946); in secondo luogo quello incarnato dai Sinodali, la cui «principale preoccupazione era di ordine politico e nazionalista, più orientata al passato che verso l’avvenire»[6]; e infine l’orientamento dell’Esarcato, che nelle sue condizioni riscopriva il criterio della libertà ecclesiale rispetto alle istituzioni del mondo come fondamento della sua identità e della sua missione.

Nel Patriarcato ecumenico l’Esarcato trovò una piena rispondenza a questa linea, come leggiamo nel Tomos patriarcale del 1931: «…abbiamo deciso che tutte le parrocchie ortodosse russe in Europa, pur conservando senza cambiamento né diminuzione l’indipendenza che avevano finora come organizzazione russa particolare e dirigendo liberamente i loro affari, siano considerate d’ora in poi come formanti temporaneamente, sul territorio dell’Europa, un esarcato unico e speciale del Santo Trono patriarcale ecumenico»[7]. È importante notare come questa dichiarazione parta dalla libertà ecclesiale come presupposto che si voleva garantito e approdi alla definizione dell’unità organica che la nuova istituzione, l’Esarcato, incarnava.

Se andiamo a guardare alla situazione attuale possiamo notare come le ragioni che si muovevano dietro gli scenari degli anni ’30 risultino ancora determinanti nelle scelte e nelle linee ecclesiali odierne: il legame, coatto o nostalgico, tra Chiesa e Nazione, e un’ecclesiologia incentrata sull’elemento nazionalistico e particolaristico, come quella mantenuta Sinodali e covata sotto le ceneri del Patriarcato, ha determinato da una parte la loro riunificazione canonica nel 2007 (fortemente caldeggiata dall’allora presidente della Federazione russa, Vladimir Putin), dall’altra ha determinato l’adeguamento a questa impostazione ecclesiologica della vita di quelle diocesi moscovite che si erano organizzate in diaspora, in una condizione di libertà da un condizionamento diretto dalla politica e tutto sommato dal criterio nazionalistico, cercando di imporre un’acculturazione russa di esportazione (definita oggi da molti “russificazione”), estranea alla loro storia in Occidente, determinando tra l’altro una redistribuzione di diocesi, monasteri e parrocchie in base alla divisione di questa linea culturale, dietro alla quale soggiace ancora una volta il problema della libertà ecclesiale rispetto alle istanze del secolo: «La recente divisione che ha attraversato in Gran Bretagna la diocesi di Sourozh lascia intendere che questa acculturazione è rimessa in questione dalla nuova ondata di emigrazione russa, causata da ragioni di ordine economico. I nuovi emigrati, formatisi nell’epoca sovietica, da poco convertiti, non hanno l’esperienza della libertà e la visione universalistica acquisita dalla prima emigrazione»[8].

L’incontro tra il Metropolita Evlogij e il Patriarca ecumenico Fozio ha potuto svolgersi alla luce della coscienza, pienamente consolidatasi nella storia del Patriarcato di Costantinopoli dopo la caduta dell’Impero bizantino, del ruolo del Trono ecumenico nel ricordare all’Ortodossia mondiale la missione di apostolato e di annuncio escatologico da parte della Chiesa al di là di ogni alleanza strutturale e culturale con le nazioni a cui la Chiesa estendeva il suo territorio e, soprattutto, con la loro forma politico-amministrativa. Il Metropolita Evlogij, nel presentare al suo gregge la svolta costantinopolitana, ricordava, oltre al ruolo ecumenico del Patriarcato, anche l’esperienza diretta del martirio da questo vissuta: «Cercando soccorso e protezione presso il Patriarca ecumenico noi ci siamo rivolti alla Chiesa che è la nostra Grande madre spirituale, cioè la Madre della nostra Madre, la Chiesa russa, e all’autorità del Trono ecumenico sancita dai canoni. Così facendo noi eravamo animati dalla speranza che questa antica e grande Chiesa di Costantinopoli, la quale ha sopportato per lunghi secoli sofferenze innumerevoli, comprendesse le nostre sofferenze e le nostre pene»[9].

2) Il presupposto locale. Una fondamentale istanza ecclesiale e – più propriamente – ecclesiologica, portata avanti dall’Esarcato sulle scorte del Concilio di Mosca, è quello del ritorno alla concezione della centralità della diocesi locale, quale organismo vitale dell’organizzazione della Chiesa ortodossa nella sua estensione territoriale universale. I preparativi del Concilio di Mosca del ’17-’18 avevano posto in programma la riforma del sistema delle eparchie della Chiesa russa, nell’ottica di un decentramento dell’amministrazione ecclesiastica, conseguente del resto alla rottura del legame centralistico tra Sinodo e Governo imperiale. Se la situazione storica impedì di fatto che questa riforma fosse posta in atto, è tuttavia importante osservare come il Concilio di Mosca riportasse al centro dell’ecclesiologia il concetto di “chiesa locale” e di conciliarità nella primazialità episcopale, definita dal legame tra l’insieme dei fedeli e dei chierici afferenti al territorio di una data eparchia e il loro vescovo: «Il vescovo eparchiale, ereditando la sua autorità dai Santi Apostoli, è il presidente della Chiesa locale che dirige l’eparchia con il concorso conciliare dei chierici e dei laici» (I, V, 15)[10]. A dare concretezza a questa definizione si aggiungono i principi che regolano il rapporto tra l’eparchia e il vescovo: l’elezione di questi, da parte di un assemblea di chierici e laici e la sua inamovibilità fino alla morte, a meno di gravi motivi canonici. Si affiancano al vescovo nella gestione dell’Eparchia l’Assemblea eparchiale e il Consiglio eparchiale; la ratifica canonica da parte del S. Sinodo patriarcale del vescovo eletto, attesta infine il legame tra l’elezione interna alla chiesa locale e la Chiesa universale.

La struttura amministrativa dell’Esarcato risponde non soltanto a questa impostazione, ma soprattutto l’essere portatore del principio, ineliminabile per l’Ortodossia, della conciliarità (sobornost’), che deve trovare applicazione in ogni divisione territoriale della Chiesa, a partire proprio dall’eparchia. Analogamente potremmo dire per l’organizzazione delle parrocchie, che applica al livello della cellula ecclesiale minima il principio della conciliarità, per il quale l’Esarcato ha seguito ancora i dettami del Concilio di Mosca.

È tramite il legame personale tra i membri della diocesi e il loro vescovo, il cui principio canonico è concretizzato dall’elezione interna alla diocesi – cosa che presuppone la conoscenza e la relazione personale –, che la Chiesa partecipa al mistero tripersonale della Trinità, come recita il 34 canone apostolico, al quale invece si confà meno il principio monarchico di un primus calato dall’alto da un’amministrazione suprema centrale.

Nel rivendicare il proprio Statuto come garante della fedeltà alla tradizione russa, dichiarazione che è più vera in relazione all’eredità spirituale che non a quella teologica ed ecclesiologica precedente al Concilio di Mosca, emerge l’autocoscienza di un nuovo ruolo Provvidenziale, cioè del non essere soltanto applicazione della riforma della Chiesa russa sancita dal Concilio del 1917-18, bensì di essere testimone e missione dell’Ortodossia in Occidente – come leggiamo nel Cap. I, art. 7 degli Statuti dell’Esarcato: «Questo statuto [di autonomia interna concesso dal Patriarca Atenagora il 22 gennaio 1971] ha permesso all’Arcivescovado di preservare la sua specificità liturgica e amministrativa ereditata dalla secolare e santa tradizione ortodossa russa, nell’obbedienza del Patriarcato di Costantinopoli. Gli ha garantito la libertà dalle influenze estranee alla Chiesa e contribuisce alla testimonianza e al radicamento della Santa Fede Ortodossa nei paesi dell’Europa occidentale, dove l’Arcivescovado è stato fondato dalla Provvidenza Divina (Dichiarazioni delle Assemblee Generali dell’ottobre 1949 e del febbraio 1966)»[11].

Per arrivare a quella che è a tutti gli effetti l’applicazione del concetto di “chiesa locale” alla diaspora, il cammino non fu immediato: dall’incertezza che caratterizzò i primi anni di vita dell’Esarcato si approdò alla graduale – ma lucida – percezione che qualcosa di non provvisorio si era messo in moto e che ripetutamente ispirò i suoi membri nel prosieguo della cammino intrapreso nei momenti in cui la Storia presentava la possibilità di un ritorno all’antica Chiesa madre russa, rimettendosi all’obbedienza del Patriarca moscovita: successe nel 1946, dopo la morte del Metropolita Evlogij, nel 1965 quando il Patriarca Atenagora soppresse l’Esarcato provvisorio, e soprattutto dopo la caduta del regime sovietico, allorché le condizioni storiche e politiche che avevano determinato il distacco della diaspora da Mosca sembrarono consegnate definitivamente al passato.

3) Il presupposto cattolico-ecumenico. Altro aspetto fondamentale – speculare a quello appena toccato – che ha caratterizzato la coscienza ecclesiale dell’Esarcato è la visione cattolica (sobornaja) della Chiesa, definita dal concetto della pienezza universale del corpus ecclesiale (plèromaticità), che si verifica laddove si realizzano le condizioni essenziali dettate dal legame sacramentale (in primo luogo eucaristico) tra il sacerdozio del vescovo e il sacerdozio regale dell’assemblea dei credenti, che nella condizione di diaspora, laddove veniva meno il legame presupposto tra il vescovo e il suo territorio canonico, trovava l’unica legittimazione canonica nelle prerogative extraterritoriali canonicamente attribuite al ruolo ecumenico del Patriarcato di Costantinopoli. Fu questa coscienza cattolica ed ecumenica a spingere il Metropolita Evlogij verso quel Patriarcato che la tradizione della Chiesa ortodossa aveva incaricato di essere il primo custode e responsabile dell’applicazione.

Le posizioni emergenti dal dibattito, per certi versi aspro, tra il Metropolita Sergio e il Patriarca Fozio nei primi anni Trenta, ritraggono due ecclesiologie divergenti, al di là del riconoscimento delle rispettive prerogative, quali ancora oggi distanziano Mosca e Costantinopoli. Se Mosca sosteneva il principio dell’equipollenza di ogni Chiesa autocefala e della assoluta impermeabilità tra le reciproche giurisdizioni canoniche, Costantinopoli portava avanti una concezione organica e unitaria dell’ecclesiologia ortodossa (rispondente a un’applicazione inter-patriarcale del 34 canone apostolico e all’interpretazione “estensiva” del 28° canone di Calcedonia).

La polemica che sorse tra i due Patriarcati all’atto dell’istituzione dell’Esarcato riportava alla luce quelle divergenze di impostazione che già avevano segnato, nel XVI secolo, la nascita del Patriarcato di Mosca, così delineate da Enrico Morini: «Emerge con evidenza, nella conclusione della vicenda legata all’istituzione del patriarcato moscovita, la profonda divergenza delle due prospettive, quella ideologico-politica del sovrano russo e quella ecclesiastico-canonica della Chiesa greca, impersonata dai quattro patriarchi ellenofoni»[12].

L’atteggiamento del clero che diede vita all’Esarcato dimostra che la tradizione spirituale russa, laddove sottratta ai condizionamenti teocratici che hanno segnato la sua vicenda ecclesiale dagli albori dell’epoca moscovita (XVI secolo) sino a tutto il periodo Sinodale-petroburghese, conservava in sé quell’ispirazione profonda alla linfa vitale dell’Ortodossia che alimentò i primi cinque secoli della Chiesa russa sotto l’obbedienza al Patriarcato ecumenico. Rispetto a questa continuità spirituale, la deriva cesaropapistica subìta dalla Chiesa russa, da Ivan il Terribile agli ultimi zar, per non parlare dell’aggressione dello Stato contro la Chiesa sotto il regime sovietico, ci appaiono una parentesi di minor importanza, per quanto storicamente preponderante, cosa che ci ricorda, evangelicamente, che le grandezze di questo mondo sono pochezze di fronte al Regno di Dio che è già anticipato nella vita della Chiesa. Il ritorno dei russi in diaspora sotto il Patriarcato ecumenico non ci sembra dunque casuale o artificioso o abusivo (come è stato sostenuto o tuttora si sostiene), ma rispondente all’antico legame spirituale ed ecumenico su cui si edificò la cristianizzazione della Russia: «la cristianità russa è stata straordinariamente a lungo fedele […] alla giurisdizione della Chiesa madre. Non solo la sua autocefalia, proclamata quasi alla metà del XV secolo, è un fenomeno comparativamente tardivo, ma soprattutto l’atteggiamento di evidente lealismo verso il lontano patriarca [di Costantinopoli], sempre tenuto dal ceto monacale, è una costante della Chiesa russa»[13]. Questa costante è risultata determinante nell’equazione che portò il Metropolita Evlogij a Costantinopoli nel 1931.

La posizione espressa dal Metropolita Evlogij e sancita dal tomos del Patriarca Fozio, guardava a un’entità ecclesiale locale definita dall’unità tra il popolo dei fedeli, il clero e il suo vescovo, icona di Cristo. Per quanto quest’unità non potesse pienamente rispondere al criterio dell’organizzazione territoriale ortodossa, vi poteva però rientrare come Esarcato sotto il Trono ecumenico, alla luce del criterio ecumenico definito dal 28° canone di Calcedonia.

4) La rinascita teologica. Non possiamo infine non accennare alla fioritura teologica che ha costellato la storia dell’Esarcato, e che ne costituisce probabilmente il risultato più notevole e riconosciuto. Senza entrare nei dettagli di questa rinascita, per i quali si rimanda alla pregevole sintesi dal titolo “La teologia ortodossa occidentale”, offerta dal Metropolita Giovanni Zizoulas di Pergamo, in occasione del recente conferimento della laurea honoris causa all’Istituto Saint-Serge[14], è qui interessante evidenziare come questa rinascita tragga la sua stessa linfa dalle ragioni ecclesiali e canoniche più profonde che hanno portato alla nascita dell’Esarcato. Ancora una volta dobbiamo andare a vedere quale era l’eredità teologica che la diaspora russa portava con sé e anche qui, come nei punti sopra esposti, dobbiamo constatare l’atrofizzazione della riflessione teologica nel periodo Sinodale. L’occidentalizzazione della cultura russa voluta da Pietro il Grande si era accompagnata a una più o meno volontaria, ma inesorabile, occidentalizzazione della teologia. Questo processo è così denunciato da P. Alexander Schmemann: «le condizioni tragiche della vita ecclesiale imposero ai pensatori ortodossi un’adozione acritica delle categorie e delle forme di pensiero teologiche occidentali. Il risultato fu una teologia profondamente “occidentalizzata”, la cui tradizione fu conservata […] dalle scuole di teologia. In Russia, per esempio, la teologia fu insegnata in latino fino alla metà del XIX secolo! La “cattività occidentale” della teologia ortodossa fu vigorosamente denunciata dai migliori teologi di quest’ultimo secolo»[15].

Questa era l’eredità con cui si doveva confrontare l’emigrazione, senza chiaramente poter godere di quella consapevolezza data dagli sviluppi successivi, che guidava il sicuro giudizio di P. Schmemann. Leggiamo così nelle memorie del Metropolita Evlogij che l’esigenza di creare una scuola per la formazione del clero della diaspora si misurò con l’interrogativo circa l’opportunità di creare un seminario di formazione pastorale piuttosto che un Istituto di studi superiori teologici. La scelta cadde sulla seconda opzione, sicché venne fondato l’Istituto Saint-Serge con l’intento di «continuare – scrive il Metropolita Evlogij – le tradizioni delle nostre accademie teologiche, di sviluppare il nostro pensiero e la nostra scienza teologica» e di «preparare dei quadri, preti e laici, con una buona formazione»[16].

L’approccio non meramente conservatore che fu alla base dell’impostazione dell’Istituto, bensì di missione e di sviluppo, furono ben chiari al Metropolita Evlogij e alla squadra di professori che animarono l’impresa. Così leggiamo ancora nelle memorie del Metropolita: «La creazione di un istituto di teologia a Parigi, in questo importante centro della cultura occidentale, cultura non russa, ma con un fondamento cristiano, aveva la sua importanza. Ciò implicava per questa scuola una linea di condotta ecumenica nell’approccio a certi problemi teorici e nelle applicazioni pratiche, affinché l’Ortodossia non fosse più nascosta sotto il moggio e divenisse progressivamente di appannaggio di tutti i cristiani»[17].


[1] Un sunto di questi eventi può essere letto in Internet all’indirizzo: http://www.esarcato.it/archivio_testi/ecclesiologica/02_Sopravvivenza_della_tradizione_ortodossa_russa.pdf

[2] Citato da P. Constantin Andronikof nel Rapporto sulla storia dell’Arcivescovado, presentato all’Assemblea straordinaria del 1966 (http://www.exarchat.eu/spip.php?article413). P. Constantin così chiosa la citazione: «Un tale stato del sentire ecclesiale ha costituito la ragione profonda che ha permesso la comparsa di Assemblee e di Sinodi all’Estero…» (trad. it. nostra).

[3] Lettera inviata il 30 agosto/12 settembre 1927 dal Metropolita Evlogij al Metropolita Sergio, sostituto del locum tenens del trono patriarcale, in «Tserkovny Vestnik» n° 3 1927; cfr. Notes et materiaux sur l’histoire de l’Eglise russe en Europe occidentale, Exarchat du Patriarche de Moscou en Europe occidentale, [raccolta dattilografica] Paris, 1972, p. 46. Nostra è la traduzione in italiano delle citazioni da questa raccolta. Il «Tserkovny Vestnik» era l’organo ufficiale di comunicazione della Diocesi del Metropolita Evlogij.

[4] Nikita Struve, Il problema della missione nell’emigrazione russa, in Le missioni della Chiesa ortodossa russa. Atti del XIV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa. Sezione russa, a cura di A. Mainardi, Magnano, Qiqajon, p. 292.

[5] Alexandre Schmemann, Le chemin historique de l’orthodoxie, ymca-press, Paris, 1995 p. 320.

[6] N. Struve, Il problema della missione cit., p. 288.

[7] Disponibile on-line nel sito ufficiale dell’Esarcato: «http://www.exarchat.eu/spip.php?article857».

[8] N. Struve, Il problema della missione cit., p. 294.

[9] Messaggio episcopale del Metropolita Evlogij del 12/25 febbraio 1931; in «Tserkovny Vestnik» n° 2 1931; Notes et materiaux cit. p. 58.

[10] Hyacinthe Destivelle, Le Concile de Moscou (1917-1918). La création des institutions conciliaires de l’Église orthodoxe russe, Paris, Cerf, 2006, p. 155. Trad. it. nostra.

[11] Disponibile on-line nel sito ufficiale dell’Esarcato: «http://www.exarchat.eu/spip.php?rubrique30».

[12] Enrico Morini, La Chiesa ortodossa. Storia – Disciplina – Culto, Bologna, PDUL – Edizioni Studio Domenicano, 1996, p. 187.

[13] E. Morini, La Chiesa ortodossa cit., p. 171-2.

[14] Disponibile in italiano sul sito internet dell’Esarcato: «http://www.esarcato.it/archivio_testi/theologica/teologia_ortodossa_occidentale.pdf».

[15] Alexander Schmemann, Sacrement et symbole, in Pour la vie du monde, Presses Saint-Serge – Institut de théologie orthodoxe, Paris, 2007, p. 147-8.

[16] Le chemin de ma vie. Mémoires du Métropolite Euloge rédigés d’après ses récits par T. Manoukhina, trad. P. Tchesnakoff, Presses Saint-Serge – Institut de théologie orthodoxe, Paris, 2005, p. 366-7.

[17] Ibid., p. 367.

2 commenti:

  1. A differenza da quanto capito e indicato da un appassionato ma frettoloso lettore, si ripresenta qui un testo già pubblicato nel 2010 nella raccolta delle relazioni presentate al Convegno "Il Patriarcato Ecumenico fra testimonianza e martirio" (Bologna, 27 marzo 2009)

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  2. E' vero. Il malinteso è frutto della mia distrazione nell'omissione del link diretto all'articolo.

    A mia discolpa posso dire che, avendomi l'autore inviato direttamente via mail il testo in formato doc, mi è proprio sfuggito di inserire l'indicazione del link.

    Lo faccio qui ed ora, scusandomi con tutti i lettori, particolarmente con quello appassionato ma frettoloso.

    http://www.esarcato.it/archivio_testi/ecclesiologica/02_Sopravvivenza_della_tradizione_ortodossa_russa.pdf

    M.

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