Fate ogni cosa per la gloria di Dio (1Cor. 10, 31)

Lo scopo finale della musica non deve essere altro che la gloria di Dio e il sollievo dell'anima (Johann Sebastian Bach)

sabato 13 aprile 2013

Gregorio Magno e la Chiesa universale

Da: http://digilander.libero.it/ortodossia/Gregorio.htm

Papa Gregorio Magno, vescovo di Roma dal 590 al 604, visse in un periodo particolarmente tormentato. Senza lasciarsi intimorire dai pericoli che allora potevano venirgli dai "nefandissimi" longobardi, provvide alle necessità spirituali e materiali del suo popolo, in una Roma che era divenuta l'ombra di se stessa. Il suo interesse e la sua cura si spinsero anche oltre i confini del Patriarcato romano. Ebbe scambi epistolari con uomini politici ed ecclesiastici d'ogni dove. Tra gli altri, spiccano anche i Patriarchi che, rivestiti della sua stessa dignità, governavano la Chiesa nelle regioni che cadevano sotto la loro responsabilità.

Riportiamo due lettere attraverso le quali si può osservare l'interesse del papa verso l'ecumene ecclesiastico. Attraverso queste lettere si riscontra il "primato nell'amore della Chiesa di Roma". Tale primato, infatti, non era una prerogativa personale del papa ma veniva attribuito alla Chiesa di Roma in quanto tale. Il papa, a sua volta, non rispondeva a titolo personale ma era la voce della Chiesa che presiedeva. Da queste righe si può osservare il profondo senso ecclesiale di San Gregorio: solo la Chiesa è universale. Il titolo di universale che, al tempo di Gregorio, qualcuno comincia ad attribuire a se stesso non nasce, dunque, dal Vangelo ma dall'orgoglio. Se un vescovo (qualsiasi vescovo, non solo quello di Costantinopoli al quale allude Gregorio) si dice universale, significa che tutti gli altri non sono più i pastori e i capi del gregge loro affidato. San Gregorio inorridisce all'idea d'un vescovo "universale", fosse pure il papa di Roma. La sua reazione si spiega se si pensa che il modo di vivere la Chiesa nel primo millennio cristiano, era molto diverso da quanto poi s'impose in Occidente a causa di contingenti ragioni storiche. "Si allontanino da noi le parole che gonfiano la vanità, che feriscono la carità", esorta San Gregorio.

Auguriamo di vero cuore che tali esortazioni tornino ad essere recepite e vissute. Solo così l'Occidente potrà pensare di realizzare una vera unione nella Cristianità. Per far ciò è naturalmente necessaria una coraggiosa iniziativa: sconfessare la concezione di Chiesa-piramide che, nonostante qualche piccolo correttivo, continua ad essere vissuta. Ci vuole molto coraggio perché si tratta di ammettere che il concetto ecclesiastico piramidale non è d'origine divina ma di provenienza unicamente umana.

Per la retta dottrina esposta da Gregorio in queste lettere, per il restante suo ortodosso insegnamento e la sua santa vita, l'Ortodossia lo considera un grande santo del Cristianesimo indiviso e ne celebra la memoria liturgica (il 12/25 marzo n.d.r.).

*.*.*.*

599, maggio.

Gregorio

a Eusebio di Tessalonica, Urbico di Durazzo, Andrea di Nicopoli, Giovanni di Corinto, Giovanni della Prima Giustiniana, Giovanni di Creta, Giovanni di Larissa, Giovanni di Scutari.

[…]

Sappia perciò la fraternità vostra che Giovanni, defunto vescovo della città di Costantinopoli, contro Dio, contro la pace della Chiesa, disprezzando tutti e offendendo i vescovi, oltrepassò i limiti dell'umiltà e della sua misura e in un sinodo si appropriò indebitamente del titolo superbo e pestifero di ecumenico, cioè universale. Il nostro predecessore Pelagio di santa memoria, avendo saputo ciò, annullò con vigorosissima severità tutti gli atti di quel sinodo, ad eccezione di quanto in esso era stato fatto per la causa di Gregorio vescovo di Antiochia di veneranda memoria, rimproverando con severissima riprensione Giovanni, perché si astenesse dall'usare questo appellativo nuovo e temerario, al punto che proibì al suo diacono presso di lui, se egli non si fosse corretto di un così grande delitto, di avanzare processionalmente con lui. Noi, seguendo in tutto il suo zelo per la rettitudine, osserviamo, con la protezione di Dio, senza rifiuto alcuno, le sue disposizioni, perché è giusto che segua con passo sicuro la retta via del suo predecessore colui che il tribunale del giudice eterno attende al rendiconto dal medesimo posto. Su questa faccenda, perché non sembrasse che noi omettessimo qualcosa di ciò che attiene alla pace della Chiesa, affrontammo con i nostri scritti una volta e due il medesimo santissimo Giovanni, pregandolo che, tolto di mezzo il superbo appellativo, piegasse l'orgoglio del suo cuore alla umiltà che il maestro e Signore nostro ci ha insegnato. Ma poiché abbiamo saputo che egli non si è curato della cosa, non abbiamo desistito dal dare, per desiderio di concordia, gli stessi avvertimenti anche al beatissimo fratello e corepiscopo nostro Ciriaco, suo successore. Siccome però in questo avvicinarsi, come vediamo, della fine del mondo, il nemico del genere umano, nel farsi precorrere, ha predisposto questo, che proprio i vescovi che dovrebbero, vivendo nel bene e nell'umiltà, opporsi a lui, li abbia, per questo appellativo superbo, come suoi precursori. Vi esorto perciò e vi consiglio che nessuno di voi accetti mai questo vocabolo, nessuno consenta ad esso, nessuno lo scriva, nessuno lo ammetta dove fosse scritto e vi aggiunga la sua sottoscrizione, ma ciascuno, come si addice a ministri di Dio onnipotente, si conservi intatto da una infezione avvelenata di tal genere e non presti luogo in sé all'astuto insidiatore, poiché questo, come abbiamo detto, è fatto in offesa e a divisione di tutta la Chiesa e a disprezzo di tutti voi. Infatti se uno solo, com'egli si crede, è universale, resta che voi non siete "vescovi" (episcopi).

Inoltre ci è pervenuta notizia che la vostra fraternità è stata convocata nella città di Costantinopoli. E quantunque il piissimo nostro imperatore non permetterebbe che si compia lì ciò che è illecito, tuttavia, perché uomini perversi, carpita l'occasione del vostro raduno, non vadano in cerca del posto per introdurre insidiosamente questo nome contrario ai canoni e pensino di radunare un sinodo per un altro motivo, al fine di introdurre in esso questo nome con astute macchinazioni, quantunque senza l'autorità della sede apostolica e senza il suo consenso, ciò che è stato compiuto non ha nessuna forza vincolante, nondimeno al cospetto di Dio onnipotente vi scongiuro e vi esorto che non si ottenga ivi l'assenso di nessuno di voi, per qualunque atto di persuasione, qualunque lusinga, qualunque ricompensa, qualunque minaccia. Ma, pensando al giudice eterno, comportatevi in modo giovevole per la salvezza e unanime contro le malvagie intenzioni e, sorretti dalla costanza e dall'autorità apostolica, allontanate il predone e il lupo che assale e non cedete contro chi inferocisca per lo scisma della Chiesa e non permettete che, per qualunque insidiosa insinuazione, si celebri su tale argomento un sinodo che non dovrebbe chiamarsi neppure sinodo. Vi avvertiamo inoltre che, se per caso non sarà compiuto nulla per ricordare questo vocabolo perverso, ma il sinodo è radunato per un altro motivo, siate del tutto attenti, circospetti, vigilanti e solleciti che non si approvi ivi nulla di pregiudizievole e di illecito contro luoghi e persone e contro i canoni. Ma se si deve trattare di qualche cosa che riesca di utilità, l'argomento di cui si discute assuma un tale aspetto che non sovverta nessun antica decisione. Vi esortiamo quindi di nuovo al cospetto di Dio e dei suoi santi che osserviate queste norme con sommo zelo e con tutto l'impegno della vostra mente. Se qualcuno, infatti ciò che non crediamo trascurerà in qualche aspetto la presente lettera, sappia di essere escluso dalla pace con san Pietro, principe degli apostoli. La vostra fraternità, perciò, agisca in modo che, quando verrà nel giudizio, il pastore dei pastori non possa essere considerato colpevole per il posto di governo che ha accettato.

Il comune figlio, latore della presente, portandomi la lettera della vostra santità, malato mi ha trovato e malato mi ha lasciato. Per questo motivo è capitato che alla abbondante fonte della vostra beatitudine ha potuto far riscontro a stento la poca acqua trasudata della mia breve epistola. E stato un dono del cielo che, sottoposto come sono ai dolori fisici, ricevessi uno scritto della vostra soavissima santità, che mi allietasse moltissimo, informandomi sulla dottrina della Chiesa di Alessandria, sulla conversione degli eretici, sulla concordia dei fedeli, in modo tale che questa gioia del cuore mi attutisse la grande asprezza della malattia. Veramente godiamo sempre di una gioia nuova di fronte al bene che fate, ma che operiate perfettamente non lo reputiamo un fatto nuovo. Che, infatti, cresca il popolo della santa Chiesa, che si moltiplichino le messi spirituali nei granai del cielo, è grazia di Dio onnipotente, la quale fluisce largamente nella vostra beatitudine: non ne abbiamo mai dubitato. Ringraziamo quindi Dio onnipotente, perché vediamo realizzato in voi ciò che sta scritto: Dove abbondano le messi, ivi si manifesta la forza dei buoi. Se infatti il bue non avesse affondato l'aratro di una robusta lingua nella terra dei cuori dei fedeli, non sarebbe sorta assolutamente tanta messe di fedeli.

Ma poiché, nel bene che fate, so che partecipate alla gioia degli altri, vi rendo il contraccambio del vostro dono e vi annunzio fatti non dissimili, perché, mentre la stirpe degli Angli che abitano all'estremo angolo del mondo, rimaneva fin adesso senza fede, dedita al culto degli idoli di legno e di pietra, con l'aiuto della vostra preghiera mi son dato cura di inviare ad essa, per impulso divino, un monaco del mio monastero per la predicazione. Egli, consacrato, con il mio assenso, vescovo dai vescovi delle Germanie, con gli aiuti di questi è arrivato al predetto popolo all'estremità del mondo e già adesso ci è arrivata una lettera che parla della sua opera salvifica, poiché tanto lui come coloro che sono stati inviati con lui, brillano per tanti miracoli in mezzo a quella gente, che pare stiano imitando i miracoli degli apostoli nei prodigi che compiono. Nella solennità della nascita del Signore, quella che è passata di questa prima indizione, più di diecimila Angli sono stati battezzati, come ci ha annunziato quel nostro fratello e coepiscopo. Ve l'ho detto, perché conosceste cosa fate in mezzo al popolo alessandrino con la predicazione, e ai confini del mondo con la preghiera. Le vostre preghiere infatti arrivano dove non siete, mentre le vostre sante opere appaiono dove vi trovate.

Godo inoltre di essere stato larghissimamente soddisfatto dalla vostra beatitudine circa la persona dell'eretico Eudossio, del cui errore non ho trovato nulla in latino. Mi avete esibito veramente testimonianze di uomini fortissimi come Basilio, Gregorio, Epifanio e constato che è stato chiaramente sopraffatto colui contro il quale i nostri eroi hanno lanciato tanti dardi.

Quanto agli errori poi che sono sorti ora nella Chiesa di Costantinopoli, mi avete detto tutto con molta dottrina: mi avete risposto come era conveniente che fosse il giudizio di una Sede così importante. Ringraziamo Dio onnipotente perché ci sono ancora nell'arca divina le tavole dell'alleanza. Che cosa è infatti il cuore di un sacerdote se non l'arca dell'alleanza, nella quale, poiché ivi esercita la sua forza la dottrina dello spirito, sono riposte senza dubbio le tavole della legge.

*.*.*.*

598, luglio.

Gregorio

a Eulogio Patriarca e vescovo d'Alessandria.

La vostra beatitudine si è data cura di indicarmi che essa non scrive più, rivolgendosi ad alcuni, appellativi superbi, che nacquero dalla radice della vanità e mi parla usando l'espressione: "Come avete comandato". Questa parola di comando vi chiedo di tenerla lontana dal mio udito, perché so chi sono io e chi siete voi: per il posto che occupate mi siete fratello, per la condotta mi siete padre. Non ho comandato, ma ho cercato di indicare ciò che mi sembrava utile. Non riscontro però che la vostra beatitudine abbia voluto ritenere alla perfezione proprio ciò che ho presentato alla vostra memoria. Infatti vi ho detto che né con me né con alcun altro dovete scrivere qualcosa di simile ed ecco che nella intestazione della lettera che avete indirizzata a me che ve lo proibivo, vi siete curato di imprimere l'appellativo superbo chiamandomi Papa universale. Vi prego, la santità a me dolcissima non lo faccia ancora, perché si sottrae a uno ciò che si attribuisce a un altro più di quanto la ragione esige. Io infatti non cerco una grandezza fatta di parole, ma una grandezza morale. Né stimo essere onore quello per cui so che i miei fratelli perdono l'onore loro dovuto. Il mio onore è l'onore della Chiesa universale. Il mio onore è il solido vigore dei miei fratelli. Allora veramente sono onorato, quando non si nega l'onore dovuto a ciascuno di essi. Se infatti la santità vostra mi chiama Papa universale, nega di essere ciò che in me proclama di universale. Ma questo sia lungi da noi. Si allontanino da noi le parole che gonfiano la vanità, che feriscono la carità.

Certo, la vostra santità conosce bene che nel santo Concilio di Calcedonia e dopo dai Padri che seguirono, quest'appellativo fu attribuito ai nostri predecessori. Tuttavia, nessuno di essi volle servirsi di questa denominazione, affinché, mentre in questo mondo amavano l'onore dovuto a tutti i vescovi, custodissero presso Dio onnipotente, il proprio onore. Quindi, mentre vi porgo i dovuti saluti, vi chiedo che nelle vostre sante preghiere vi degniate di ricordarvi di me, perché sia assolto, per la vostra intercessione, dai vincoli dei miei peccati che non riesco a cancellare con i miei meriti.

Nessun commento:

Posta un commento