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mercoledì 18 marzo 2015

La Comunione quaresimale, il digiuno e la Liturgia dei Doni presantificati

Di P. Alexander Schmemann, da “La Grande Quaresima”

1. I due significati della Comunione

Di tutte le regole liturgiche concernenti la Quaresima, una assume una grande importanza poiché, essendo peculiare all’Ortodossia, la sua comprensione costituisce per molti versi una chiave di lettura di tutta la tradizione liturgica. È la regola che vieta la celebrazione della Divina Liturgia nei giorni feriali della Quaresima. Le rubriche sono chiare: in nessuna circostanza si può celebrare la Divina Liturgia dal lunedì al venerdì durante la Quaresima; unica eccezione, la festa dell’Annunciazione, qualora cada in uno di questi giorni. Al mercoledì e al venerdì, tuttavia, è prescritta, alla sera, una Liturgia di comunione detta Liturgia dei Presantificati.

Il significato di questa regola è stato così radicalmente dimenticato che in molte parrocchie, specialmente in quelle per lungo tempo esposte alle influenze occidentali e latine, essa è semplicemente disattesa; la pratica prettamente latina delle liturgie quotidiane, “private” o “commemorative”, prosegue durante tutta la Quaresima. Ma quand’anche si rispetti questa regola, non si fa nessuno sforzo per andare al di là di un’osservanza formale delle “rubriche” e comprendere il loro significato spirituale, la “logica” profonda della Quaresima. È importante quindi, che spieghiamo in modo più dettagliato il senso di questa regola che trascende l’ambito della Quaresima per rischiarare l’intera tradizione liturgica dell’Ortodossia.

In termini molto generali, abbiamo qui l’espressione e l’applicazione di un principio liturgico fondamentale: l’incompatibilità dell’Eucaristia con il digiuno. Ma per comprendere il senso di questo principio, bisogna cominciare non dal digiuno bensì dall’Eucaristia. Nella tradizione ortodossa, profondamente diversa in questo dalla teologia e dalla pratica eucaristica del Cattolicesimo occidentale, l’Eucaristia ha sempre conservato il suo carattere festivo, gioioso. Essa è innanzitutto il sacramento della venuta di Cristo e della sua presenza in mezzo ai discepoli, e quindi la celebrazione, in senso molto reale, della sua resurrezione. La venuta e la presenza di Cristo nell’Eucaristia sono infatti, per la Chiesa, la “prova” della sua resurrezione. La gioia e il cuore ardente sperimentati dei discepoli sulla strada di Emmaus, quando Cristo si rivelò loro “nello spezzare il pane”[1], costituiscono per la Chiesa la sorgente eterna della conoscenza “esperienziale” ed “esistenziale” della resurrezione. Nessuno ha visto la resurrezione vera e propria, eppure i discepoli vi hanno creduto, non perché qualcuno l’abbia insegnato loro, ma perché essi hanno visto il Signore risorto quando, “a porte chiuse”, apparve in mezzo loro e prese parte al loro pasto.

L’Eucaristia è sempre questa venuta e presenza, questa gioia e questo “cuore bruciante”, questa conoscenza al di là della ragione, e tuttavia assoluta, del Signore risorto che si fa conoscere “nello spezzare il pane”. E così grande è questa gioia che, per la Chiesa primitiva, il giorno dell’Eucaristia non era un giorno come gli altri, ma il Giorno del Signore, un giorno già al di là del tempo, perché, nell’Eucaristia, il Regno di Dio già irrompeva. Nell’ultima Cena, Cristo stesso disse ai suoi discepoli che accordava loro il Regno, in modo che avrebbero potuto “mangiare e bere alla sua tavola nel suo Regno”. Essendo la presenza del Signore risorto, che è asceso al cielo e siede alla destra del Padre, l’Eucaristia è, di conseguenza, la partecipazione al Regno, che è “gioia e pace nello Spirito Santo”. La comunione è il “cibo di immortalità”, il “pane Celeste”, e dunque accostarsi alla tavola santa è veramente ascendere al cielo.

L’Eucaristia è così la festa della Chiesa o, meglio ancora, la Chiesa fatta festa, resa giubilo per la presenza di Cristo e anticipazione della gioia eterna del regno di Dio. Ogni volta che celebra l’Eucaristia, la Chiesa si trova “a casa propria”: in cielo. Essa ascende là dove Cristo è asceso al fine di farci “mangiare e bere alla sua tavola nel suo Regno”. Si comprende allora perché l’Eucaristia è incompatibile con il digiuno: perché il digiuno è l’espressione principale della Chiesa ancora in condizione di pellegrinaggio, tuttora in cammino verso il Regno dei cieli. E “i figli del Regno”, dice Cristo, “non possono digiunare finché lo sposo è con loro”[2].

Ma perché allora, ci si può chiedere, la comunione viene distribuita anche durante i giorni di digiuno, nella Liturgia dei Presantificati? Non si contraddice il principio appena enunciato? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo ora prendere in considerazione il secondo aspetto della comprensione ortodossa della comunione: il significato di sorgente e di forza atte a sostenere il nostro sforzo spirituale. Se, come abbiamo visto, la santa comunione è il punto d’arrivo di tutti i nostri sforzi, la meta che cerchiamo di raggiungere, la gioia suprema della nostra vita cristiana, essa è anche necessariamente la sorgente e il principio dello stesso nostro sforzo spirituale, il dono divino che ci permette di conoscere, di desiderare e di tendere verso una “più perfetta comunione nel giorno senza sera” del Regno di Dio.

Perché il Regno, benché sia già venuto, benché venga nella Chiesa, deve ancora trovare tuttavia il suo compimento della sua consumazione alla fine dei tempi, quando Dio riempirà ogni cosa di sé. Noi lo sappiamo e vi partecipiamo come una primizia: partecipiamo ora al Regno che ancora deve venire. Noi vediamo e gustiamo in anticipo la sua gloria e la sua felicità, ma siamo ancora sulla terra, perciò l’intera nostra esistenza terrena è un lungo e spesso doloroso viaggio verso l’ultimo Giorno del Signore.

In questo viaggio abbiamo bisogno di aiuto e di sostegno di forza e di conforto, perché il “principe di questo mondo” non si è ancora arreso; al contrario, sapendosi sconfitto da Cristo, ingaggia un’ultima violenta battaglia contro Dio per strappargli il maggior numero possibile di uomini. Così aspra è questa lotta, così potenti le “porte dell’Ade”, che Cristo stesso ci parla di “via stretta” e ci dice che pochi sono capaci di seguirla. In questa lotta, il nostro principale sostegno è proprio il Corpo e il Sangue di Cristo, questo “nutrimento essenziale” che ci mantiene spiritualmente in vita e, malgrado tutte le tentazioni e tutti pericoli, ci fa discepoli di Cristo. Per questo, dopo aver partecipato alla santa comunione, noi preghiamo: “che questi doni siano per me guarigione dell’anima e del corpo, respingano ogni avversario, illuminino gli occhi del mio cuore, siano la pace delle mie facoltà spirituali, mi diano una fede di cui non debba arrossire, un amore senza finzione, la pienezza della sapienza, mi concedano di osservare i tuoi comandamenti, di accogliere la tua grazia divina e di ottenere il tuo Regno... non consumarmi, o mio creatore! Penetra invece nelle mie membra, nelle mie vene, nel mio cuore... possa ogni cosa cattiva, ogni passione carnale fuggire da me come da un fuoco, quando io divento il tuo tabernacolo attraverso la comunione...

Se la Quaresima e il digiuno significano l’intensificarsi di questa lotta, è perché, secondo il Vangelo, noi siamo allora faccia a faccia con il maligno e tutta la sua potenza. È allora, quindi, che noi abbiamo un bisogno speciale dell’aiuto della forza di questo fuoco divino; da qui la comunione speciale della Quaresima, ricevuta attraverso i Doni Presantificati, cioè i doni consacrati nella Liturgia eucaristica della domenica precedente e conservati sull’altare per essere distribuiti al mercoledì e al venerdì sera. Non vi è celebrazione dell’Eucaristia nei giorni di digiuno, perché la celebrazione è un continuo movimento di gioia; ma vi è la presenza continua dei frutti dell’Eucaristia nella Chiesa. Come il Cristo “visibile” è asceso al cielo, eppure resta invisibilmente presente nel mondo; come la Pasqua viene celebrata una volta all’anno, eppure i suoi raggi illuminano l’intera vita della Chiesa; come il Regno di Dio deve ancora venire, eppure è in mezzo noi, così avviene anche per l’Eucaristia. In quanto sacramento e celebrazione del Regno, in quanto festa della Chiesa, essa è incompatibile con il digiuno e non viene celebrata durante la Quaresima; ma in quanto grazia e potenza del Regno operanti nel mondo, in quanto elargizione del “nutrimento essenziale”, in quanto arma della nostra lotta spirituale, essa è al centro stesso del digiuno, è veramente la manna del cielo che ci tiene in vita nel nostro viaggio attraverso il deserto della Quaresima.

2. I due significati del digiuno

A questo punto sorge un’altra domanda: se l’Eucaristia è incompatibile con il digiuno, perché dunque la sua celebrazione è ancora prescritta nei sabati e nelle domeniche di Quaresima, e questo senza “rompere” il digiuno? I canoni della Chiesa sembrano qui contraddirsi[3]: mentre alcuni vietano di digiunare di domenica, altri vietano di rompere il digiuno in uno qualsiasi dei quaranta giorni. Questa contraddizione, tuttavia, è solo apparente, perché le due norme, che sembrano escludersi a vicenda, si riferiscono in realtà a due diversi significati del termine “digiuno”. Comprendere questo è importante, perché qui scopriamo la “filosofia” ortodossa del digiuno, essenziale a tutto il nostro sforzo spirituale.

Vi sono in effetti due modi di digiunare, entrambi radicati nella Scrittura e nella Tradizione, e che corrispondono a due bisogni distinti, a due stati dell’uomo. Il primo, lo si può chiamare digiuno totale, perché consiste in una astinenza totale dal cibo e dalla bevanda. Il secondo, lo si può definire digiuno ascetico, perché consiste soprattutto nell’astinenza da certi cibi e in una sostanziale riduzione del regime alimentare. Il digiuno totale, per sua stessa natura, è di breve durata ed abitualmente limitato a una giornata o anche solo a una parte di essa. Fin dalle origini del cristianesimo, esso fu compreso come uno stato di preparazione e di attesa: lo stato di concentrazione spirituale su ciò che sta per venire. La fame fisica corrisponde qui all’attesa spirituale del compimento, alla “apertura” di tutto l’essere umano alla gioia che si avvicina.

Perciò, nella tradizione liturgica della Chiesa, troviamo questo digiuno totale come preparazione ultima e conclusiva a una grande festa, a un evento spirituale decisivo. Lo troviamo, per esempio, alla vigilia di Natale e dell’Epifania; ma, soprattutto, questo è il digiuno eucaristico, modo essenziale della nostra preparazione al banchetto messianico, alla tavola di Cristo nel suo Regno. L’Eucaristia è sempre preceduta da questo digiuno totale, che può variare nella sua durata, ma che, per la Chiesa, costituisce una condizione necessaria per accedere alla santa comunione. Molta gente fraintende questa regola: non vi vede nient’altro che una prescrizione arcaica e si domanda perché mai sia necessario avere lo stomaco vuoto per ricevere il sacramento. Ridotta ad una dimensione così fisica, così grossolanamente “fisiologica”, vista come pura disciplina, questa regola perde naturalmente il suo significato. Così, non c’è da meravigliarsi che il Cattolicesimo romano, il quale da tempo ha sostituito la concezione spirituale del digiuno con una giuridica e disciplinare, abbia abolito, ai giorni nostri, il digiuno “eucaristico”.

Nella sua vera accezione, però, il digiuno totale è la principale espressione di quel ritmo di preparazione e di compimento di cui vive la Chiesa, perché essa è, a un tempo, attesa di Cristo in “questo mondo” e ingresso di questo mondo nel “mondo a venire”. Nella Chiesa primitiva questo digiuno totale aveva un nome preso in prestito dal lessico militare: si chiamava statio e indicava una guarnigione in stato di allarme e di mobilitazione. La Chiesa “sta in guardia”, attende lo Sposo, e lo attende nella vigilanza e nella gioia. Così, il digiuno totale non è soltanto un digiuno di membri della Chiesa; è la Chiesa stessa in quanto digiuno, in quanto attesa di Cristo che viene a lei nell’Eucaristia e che verrà nella gloria alla fine dei tempi.

Del tutto differenti sono le connotazioni spirituali del secondo tipo di digiuno, che abbiamo definito come ascetico. Qui, lo scopo del digiuno è quello di liberare l’uomo dalla spericolata tirannia della carne, dalla resa dello spirito al corpo e ai suoi appetiti, che è il tragico risultato del peccato e della caduta originale dell’uomo. Solamente attraverso uno sforzo lento e paziente l’uomo scopre di “non vivere di solo pane” e ristabilisce in sé il primato dello spirito. Si tratta, necessariamente e per sua stessa natura, di uno sforzo lungo sostenuto. Il fattore tempo è essenziale, perché ci vuole tempo per sradicare e guarire la malattia comune e universale che gli uomini hanno finito per considerare come loro stato “normale”.

L’arte del digiuno ascetico è stata affinata e perfezionata all’interno della tradizione monastica e quindi è stata accettata dalla Chiesa intera. È l’applicazione all’uomo delle parole di Cristo secondo cui le potenze demoniache che asserviscono l’uomo non possono essere vinte se non con “la preghiera e il digiuno”. Si fonda sull’esempio di Cristo stesso, il quale digiunò quaranta giorni, incontrò Satana faccia a faccia e in questo scontro annullò la sottomissione dell’uomo al “solo pane”, inaugurando così la sua liberazione. La Chiesa ha riservato quattro periodi per questo digiuno ascetico: i tempi che precedono la Pasqua, il Natale, la festa dei Santi Pietro e Paolo e la Dormizione della Madre di Dio. Quattro volte all’anno essa ci invita a purificarci e a liberarci dal dominio della carne mediante la santa terapia del digiuno. E ogni volta il successo della terapia dipende proprio dall’applicazione di certe regole basilari, fra le quali la più importante è la “non interruzione” del digiuno, la sua continuità nel tempo.

È questa distinzione fra i due tipi di digiuno che ci aiuta a comprendere l’apparente contraddizione fra i canoni che regolano il digiuno. Il canone che vieta il digiuno di domenica significa letteralmente che in questo senso il digiuno è “rotto” innanzitutto dall’Eucaristia stessa, che porta a compimento l’attesa e, essendo il punto di arrivo di ogni digiuno, ne è anche la fine. Significa che la domenica, il Giorno del Signore, trascende la Quaresima, come trascende il tempo. Significa in altri termini che la domenica, il Giorno del Regno, non appartiene a quel tempo caratterizzato dalla dimensione di pellegrinaggio, richiamata con forza dalla Quaresima. La domenica resta così un giorno non di digiuno, bensì di gioia spirituale. Tuttavia, se l’Eucaristia rompe il digiuno totale, essa non rompe il digiuno “ascetico” che, come abbiamo già spiegato, richiede per sua stessa natura la continuità dello sforzo. Questo vuol dire che le norme alimentari che regolano il digiuno ascetico restano in vigore nelle domeniche di Quaresima. In concreto, carne e grassi sono proibiti, ma unicamente a motivo del carattere “psicosomatico” del digiuno ascetico, perché la Chiesa sa che se si vuole “domare” il corpo, bisogna sottometterlo a una lunga e paziente disciplina di astinenza.

In molti monasteri per esempio, i monaci non mangiano mai la carne; ma questo non vuol dire che essi digiunano a Pasqua o nelle altre grandi feste. Si può dire che un certo grado di digiuno ascetico appartiene alla vita cristiana in quanto tale e dovrebbe essere osservato dai cristiani. Ma la Pasqua concepita quasi come un obbligo di mangiare e bere all’eccesso (concezione così comune!) è una triste e orrenda caricatura del vero spirito della Pasqua! È davvero tragico che in alcune chiese la gente desideri così poco partecipare alla santa Comunione a Pasqua e che probabilmente le belle parole del sermone Pasquale di San Giovanni Crisostomo: “la tavola è pronta, banchettate tutti sontuosamente! Il vitello è ingrassato, nessuno se ne vada via affamato!” siano state comprese come se si riferissero esclusivamente al ricco contenuto dei cesti di Pasqua.

La festa è una realtà spirituale e per essere celebrata convenientemente necessita tanto di sobrietà e di raccoglimento spirituale che di digiuno. Bisogna comprendere chiaramente, quindi, che non vi è alcuna contraddizione fra l’insistenza della Chiesa a mantenere l’astinenza da certi alimenti nelle domeniche di Quaresima e la sua condanna del digiuno nel giorno dell’Eucaristia. È anche chiaro che soltanto seguendo entrambe le regole, cioè conservando simultaneamente il ritmo eucaristico della preparazione del compimento e lo sforzo sostenuto dei “quaranta giorni che salvano l’anima”, noi possiamo veramente conseguire gli obiettivi spirituali della Quaresima. Tutto questo ci conduce ora alla Liturgia dei Presantificati, che occupa un posto particolare nella celebrazione quaresimale.

3. La Comunione della sera

La caratteristica prima ed essenziale della Liturgia dei Presantificati è quella di essere un ufficio della sera. Dal punto di vista formale, essa si presenta come un ufficio di Comunione che segue i Vespri. Sull’origine di questa particolare liturgia si possono avanzare due ipotesi: secondo la prima, sebbene il sinodo di Laodicea (seconda metà del IV secolo) avesse ammesso l’“offerta del pane” durante la Quaresima soltanto al sabato e alla domenica, tuttavia il ricordo della promessa di Gesù: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni”[4], oltre alla pratica diffusa di conservare il pane consacrato per la Comunione di ammalati e moribondi, avrebbero spinto la gerarchia a cedere alle pressioni dei fedeli. All’inizio del VII secolo, almeno nelle parti essenziali, la Liturgia dei Presantificati è documentata nel Chronikon Paschale, e più tardi anche nel Codex Barberinus (il più antico manoscritto di un Efchològhion greco, risalente all’VIII-IX secolo).

Nella seconda ipotesi, la pratica sarebbe stata introdotta da San Gregorio Dialogo, cioè papa Gregorio I Magno (590-604), venerato come santo anche in Oriente (12 marzo). Per quanto Bisanzio abbia probabilmente attribuito a Gregorio questa liturgia solo nel X secolo, la tradizione vuole che sia stato lui a suggerire, durante il suo pluriennale soggiorno a Costantinopoli come apocrisario pontificio, di celebrare il rito con elementi precedentemente consacrati per ovviare alla locale mancanza di una qualsiasi liturgia nei giorni feriali della Quaresima. D’altronde, una Liturgia dei “Presantificati” è attestata nel Sacramentarium Gelasianum, composto intorno al 750 nella regione di Parigi il cui uso risalirebbe al VII secolo, verosimilmente derivato dall’Oriente.

Ai primi stadi del suo sviluppo era sprovvista della solennità che riveste oggi, cosicché era ancora più manifesta la sua relazione con l’ufficio quotidiano della sera. La prima domanda che si pone, perciò, concerne il carattere vespertino della Liturgia. Sappiamo già che l’Eucaristia, nella tradizione ortodossa, è sempre e sempre preceduta da un periodo di digiuno totale. Questo principio generale spiega il fatto che l’Eucaristia, a differenza di tutti gli altri servizi liturgici, non abbia un’ora fissa che le sia propria, poiché il tempo della celebrazione dipende soprattutto dalla natura del giorno in cui dev’essere celebrata.

Così, per una festa grande il Typikon prescrive l’Eucaristia di mattina presto, perché la vigilia adempie la funzione di digiuno o preparazione. Per una festa minore, senza vigilia, l’Eucaristia viene spostata a una più tarda, di modo che, almeno in teoria, in un giorno feriale essa dovrebbe aver luogo a mezzogiorno. Infine, nei giorni in cui è prescritto un digiuno stretto o totale per tutta la giornata, la santa Comunione, che è “rottura” del digiuno, si riceve alla sera. Il significato di tutte queste rubriche, che oggi purtroppo sono completamente dimenticata e trascurate, è molto semplice: dato che l’Eucaristia è sempre il termine della preparazione, il compimento dell’attesa, il tempo della sua celebrazione (kairòs) è in relazione alla durata del digiuno totale.

Quest’ultimo o prende la forma di un ufficio di vigilia che dura tutta la notte, oppure si deve osservare individualmente. E poiché, durante la Quaresima, il mercoledì e il venerdì sono giorni di astinenza totale, l’ufficio di Comunione, che è il compimento di quel digiuno, si celebra la sera. Lo stesso criterio si applica alle vigilie di Natale e dell’Epifania, che sono pure giorni di digiuno totale, nei quali, di conseguenza, l’Eucaristia viene celebrata dopo i Vespri.

Se però la vigilia di queste feste cade di sabato o di domenica, che nella tradizione ortodossa sono giorni eucaristici, l’astinenza “totale” è anticipata al venerdì. Altro esempio: se l’Annunciazione cade in un giorno feriale della Quaresima, la celebrazione dell’Eucaristia è prescritta dopo i Vespri. Queste norme, che a molti sembrano arcaiche e inadeguate al giorno d’oggi, rivelano di fatto il principio fondamentale della spiritualità liturgica ortodossa: l’Eucaristia è sempre il punto di arrivo di una preparazione e il compimento di una attesa; i giorni di astinenza e di digiuno totale, essendo l’espressione più intensa della Chiesa in attesa, sono “coronati” dalla Comunione della sera.

Al mercoledì e al venerdì di Quaresima, la Chiesa prescrive l’astinenza completa degli alimenti fino al tramonto. Questi giorni, perciò, sono i più indicati per la Comunione quaresimale, che, come abbiamo visto sopra, è uno dei mezzi o “armi” essenziali per la lotta spirituale di Quaresima. Giorni di intensificato sforzo spirituale e fisico, essi sono illuminati dall’attesa della Comunione imminente al Corpo al Sangue di Cristo, e questa attesa ci sostiene nel nostro sforzo, sia spirituale che fisico: ne fa uno sforzo proiettato sulla gioia della Comunione della sera: “Sollevo i miei occhi verso i monti, da dove mi viene l’aiuto!”[5].

È allora, alla luce di questo incontro imminente con Cristo, come si fa serio e grave il giorno che devo passare nelle mie occupazioni abituali! Come prendono un significato nuovo le cose più banali insignificanti che riempiono la mia esistenza quotidiana e alle quali ho fatto una tale abitudine da non dedicarvi più alcuna attenzione! Ogni parola detta, ogni azione compiuta, ogni pensiero che mi passa per la mente diventa importante, unico, irreversibile; e ognuno di essi viene a trovarsi o “in linea” o in opposizione alla mia attesa di Cristo. Il tempo stesso, che di solito “sprechiamo” così facilmente, rivela qui suo vero significato: il tempo della salvezza o della dannazione. L’intera nostra vita diventa ciò che ne ha fatto Cristo con la sua venuta in questo mondo: un’ascensione verso di lui oppure una fuga lontano da lui, nella tenebra e nella distruzione.

In realtà, in nessun altro luogo il vero significato del digiuno della Quaresima è meglio o più compiutamente rivelato che nei giorni della Comunione vespertina; il significato non solo della Quaresima, bensì della Chiesa e della vita cristiana nella loro totalità. In Cristo, la vita tutta intera, tutto il tempo, la storia, il cosmo stesso sono diventati attesa, preparazione, speranza, ascensione. Cristo è venuto; il Regno di Dio deve ancora venire! In “questo mondo” noi possiamo solo anticipare la gloria e la gioia del Regno; eppure, in quanto Chiesa, noi lasciamo in spirito questo mondo e ci incontriamo alla tavola del Signore, dove nel segreto del nostro cuore contempliamo la sua luce increata e il suo splendore.

Questa anticipazione ci è data, però, affinché noi desideriamo e amiamo il Regno e aspiriamo a una più perfetta comunione con Dio, nel “giorno senza sera” che si fa più vicino. E ogni volta, dopo avere per gustato “la pace e la gioia del Regno”, noi ritorniamo in questo mondo e ci ritroviamo sulla strada lunga, stretta e difficile. Dalla festa noi facciamo ritorno alla vita di digiuno, alla preparazione e all’attesa. Attendiamo la sera di questo mondo, che ci fa partecipi della "luce radiosa della santa gloria di Dio”, del principio che non avrà fine.

4. Schema della funzione

Nella Chiesa primitiva, quando i cristiani erano molto pochi e di provata fede, esisteva l’uso di distribuire i fedeli, alla fine dell’Eucaristia domenicale, i Doni Consacrati, affinché ciascuno potesse fare la Comunione e casa propria, ogni giorno; l’Eucaristia comunitaria e gioiosa del Giorno del Signore veniva così “estesa” alla totalità del tempo della vita. Questa pratica, però, cessò col crescere del numero dei fedeli all’interno della Chiesa e con la trasformazione del cristianesimo in religione di massa, fenomeni che inevitabilmente attenuarono l’intensità spirituale caratteristica delle prime generazioni cristiane, costringendo le autorità della Chiesa a prendere delle misure contro un possibile abuso dei Santi Doni.

In Occidente, questo portò alla comparsa dell’Eucaristia quotidiana, che è uno dei tratti caratteristici della tradizione liturgica e della pietà dell’Occidente, ma che è anche all’origine di un cambiamento importante nella comprensione stessa dell’Eucaristia. Una volta privata del suo carattere “festivo”, la celebrazione eucaristica cessava di essere la festa della Chiesa e diventava parte integrante del ciclo quotidiano; si apriva così la porta alle cosiddette messe “private”, che, a loro volta, alterarono sempre di più tutti gli altri elementi liturgici.

In Oriente, tuttavia, non si abbandonò mai la comprensione iniziale dell’Eucaristia, la sua natura escatologica, incentrata sul Regno, gioiosa; e ancora oggi, in teoria almeno, la Divina Liturgia non è una semplice parte del ciclo quotidiano. La sua celebrazione è sempre una festa, il giorno in cui la si celebra assume sempre una connotazione spirituale di Giorno del Signore. Come abbiamo più volte sottolineato, essa è incompatibile con il digiuno e non viene celebrata nei giorni feriali di Quaresima. Così, una volta cessata la Comunione quotidiana a casa propria, in Oriente non la si sostituì con la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia, ma si diede vita a una nuova forma di Comunione con i Doni conservati dalla domenica, giorno della celebrazione “festiva”.

È molto probabile che all’inizio questa Liturgia dei Presantificati non fosse limitata alla grande Quaresima, ma fosse comune a tutti periodi di digiuno della Chiesa. Ma quando il numero delle feste, maggiori e minori, aumentò e rese la celebrazione dell’Eucaristia molto più frequente, la Liturgia dei Presantificati divenne un elemento caratteristico della liturgia della grande Quaresima e a poco a poco raggiunse, sotto l’influsso dello spirito liturgico quaresimale, quella bellezza e quella solennità uniche, che ne fanno il culmine spirituale della Liturgia quaresimale.

L’ufficio divino, preceduto dalla celebrazione dell’Ora Nona, che presenta alcune particolarità nel tempo quaresimale, inizia con i grandi Vespri, la cui dossologia d’apertura è “eucaristica”: “Benedetto sia il Regno del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo...”, e pone l’intera celebrazione nella prospettiva del Regno, che è la prospettiva spirituale della Quaresima e del digiuno. Il salmo della sera (salmo 103) viene cantato come al solito ed è seguito dalla Grande Ektenia e dalla diciottesima parte (o kathisma) del salterio, divisa in tre parti inframmezzate dalla Piccola Ektenia. Questo kathisma è prescritto per ogni giorno feriale della Quaresima. Comprende salmi 119-133, detti “canti delle ascensioni”. Venivano cantati sui gradini del tempio di Gerusalemme come canto processionale, canto del popolo radunato per il culto, che si prepara ad incontrare suo Dio.

Mentre si cantano questi salmi, il celebrante prende l’Agnello consacrato, conservato dalla domenica precedente, e lo pone sul diskos, quindi incensa l’altare. Poi, dopo aver portato il diskos dall’altare alla Protesi, egli versa del vino nel calice e copre i doni, come si usa fare prima della liturgia di San Giovanni Crisostomo. È da notare che tutto questo viene compiuto senza che il sacerdote dica una parola. Questa rubrica sottolinea il carattere pragmatico di questi gesti, perché tutte le preghiere eucaristiche sono state dette durante la liturgia della domenica.

La parte più antica del servizio vespertino è probabilmente il lucernarium (in latino “accensione delle luci”) con il canto dei “salmi delle luci”[6]. La porta regale si apre all’Ingresso Vespertino dei celebranti con il turibolo o con il libro dei Vangeli. Dopo l’entrata e l’inno della sera “Luce radiosa...”, vengono lette le due letture dell’Antico Testamento prescritte. Un rito particolare accompagna la lettura: esso ci riporta al tempo in cui la Quaresima era ancora incentrata sulla preparazione dei catecumeni al battesimo. Mentre viene fatta la lettura tratta dalla Genesi, si pone un cero acceso sull’evangeliario che è sopra l’altare e, finita la lettura, il sacerdote prende il cero e il turibolo e con essi benedice l’assemblea proclamando: “La luce di Cristo illumina tutti”. Il cero è il simbolo liturgico di Cristo, luce del mondo.

Il fatto che venga posto sul Vangelo durante la lettura dell’Antico Testamento significa che tutte le profezie trovano il loro compimento in Cristo, il quale ha aperto la mente dei suoi discepoli “perché potessero comprendere le Scritture”. L’Antico Testamento conduce a Cristo, così come la Quaresima conduce all’illuminazione battesimale. La luce del battesimo, integrando i catecumeni in Cristo, aprirà loro la mente alla comprensione dell’insegnamento di Cristo. Dopo la seconda lettura tratta dall’Antico Testamento, le rubriche prescrivono il canto di cinque versetti del salmo 140, cominciando dal versetto 2: “La mia preghiera salga a te come incenso...”. Dato che questo salmo è già stato cantato al suo momento abituale, prima dell’entrata, ci si può chiedere perché mai si cantino una seconda volta gli stessi versetti. Si può dedurre, da certe indicazioni, che questa pratica risalga ai primi stadi dello sviluppo della Liturgia dei Presantificati.

È probabile che al tempo in cui questa liturgia non aveva ancora assunto tutta la solennità e la complessità che riveste oggi, ma consisteva semplicemente nella distribuzione della Comunione ai Vespri, questi versetti venissero cantati come inno di Comunione. Oggi, comunque, essi formano una magnifica introduzione, di carattere penitenziale, alla seconda parte della funzione liturgica: la Liturgia dei Presantificati vera e propria.

Questa seconda parte comincia con la litania per i catecumeni, cioè un insieme di preghiere e suppliche particolari, fatte per coloro che si preparano al battesimo. A “metà-Quaresima” (il mercoledì della quarta settimana), si aggiungono preghiere e suppliche speciali per i photizomenoi “quelli che sono pronti per l’illuminazione”. Ancora una volta vengono sottolineati l’origine e il carattere primitivo della Quaresima come preparazione al battesimo e alla Pasqua. Dopo che sono stati congedati i catecumeni, due preghiere introducono la “Liturgia dei fedeli”. Nella prima, chiediamo la purificazione della nostra anima, del nostro corpo, dei nostri sensi: “I nostri occhi non abbiano parte al minimo sguardo cattivo, le nostre orecchie siano inaccessibili a ogni parola oziosa, la nostra lingua sia preservata da ogni linguaggio sconveniente; purifica le nostre labbra che ti lodano, o Signore, fa’ che le nostre mani si astengano dalle opere malvagie e compiano solo quelle a te gradite, fortifica tutte le nostre membra e la nostra mente con la tua grazia...

La seconda preghiera ci prepara all’entrata dei Doni consacrati: “Ecco, il suo Corpo immacolato e il suo Sangue che dà la vita fanno il loro ingresso nell’ora presente, stanno per essere deposti su questo mistico altare, scortati dall’invisibile moltitudine delle schiere celesti. Concedi a noi di comunicare ad essi in modo irreprensibile, così che, con gli occhi dell’intelletto illuminati, noi possiamo diventare figli della luce e dei giorno, per il dono del tuo Cristo...

Viene quindi il momento più solenne di tutta la celebrazione: il trasferimento dei Santi Doni sull’altare. Apparentemente questa entrata è simile al “Grande Ingresso” della liturgia eucaristica, ma il suo significato liturgico e spirituale è naturalmente del tutto differente. Durante la liturgia propriamente eucaristica, c’è, a questo punto, la processione dell’offertorio: la Chiesa offre se stessa, offre la propria vita, la vita dei suoi membri e, di fatto, quella dell’intera creazione quale sacrificio a Dio, quale ri-attualizzazione dell’unico, pieno e perfetto sacrificio di Cristo. Facendo memoria di Cristo, essa fa memoria di tutti coloro la cui vita egli ha assunto per la loro redenzione e salvezza. Nella Liturgia dei Presantificati, non c’è né offerta, né sacrificio, né Eucaristia, né consacrazione, ma è il mistero della presenza di Cristo nella Chiesa che lì viene rivelato e manifestato!

È bene notare a questo punto che la tradizione liturgica ortodossa, differendo in questo dalla pratica latina, non conosce l’adorazione dei doni eucaristici al di fuori della Comunione. Ma la conservazione dei Santi Doni quale “santa riserva”, utilizzata per la Comunione dei malati e in altri casi urgenti, è una tradizione solidamente fondata e mai messa in discussione nella Chiesa Ortodossa. Già abbiamo accennato che nella Chiesa primitiva esisteva addirittura la pratica di “auto-comunicarsi” in forma privata, a casa propria. Si ha così la permanente presenza dei Santi Doni e l’assenza della loro adorazione.

Mantenendo simultaneamente questi due aspetti, la Chiesa Ortodossa ha evitato il pericoloso razionalismo sacramentale dell’Occidente. Mossi dal desiderio di affermare, contro il Protestantesimo, l’oggettività della “presenza reale” di Cristo nei doni eucaristici, i latini hanno, in realtà, separato l’adorazione dalla Comunione. Così facendo, essi hanno aperto la porta a una pericolosa deviazione spirituale dalla reale finalità dell’eucaristia e, di fatto, della Chiesa stessa. Perché lo scopo della Chiesa e dei suoi sacramenti non è quello di “sacralizzare” delle porzioni e degli elementi di materia e, rendendoli sacri o santi, di opporli a quelli profani. Il suo scopo è invece quello di fare della vita dell’uomo una comunione con Dio, una conoscenza di Dio, un’ascesa verso il Regno di Dio; i doni eucaristici sono i mezzi di questa comunione, il nutrimento di questa vita nuova, ma non sono un fine in se stessi. Perché il Regno di Dio “non consiste in cibo o bevanda, ma è gioia e pace nello Spirito Santo”.

Come, in questo mondo, il cibo non adempie la sua funzione se non quando è consumato e quindi trasformato in vita, allo stesso modo la nuova vita del mondo a venire ci è data mediante la partecipazione al “cibo d’immortalità”. Di conseguenza. la Chiesa Ortodossa evita ogni adorazione del sacramento al di fuori della Comunione, perché in questo consiste la sola vera adorazione: che dopo aver partecipato al Corpo e Sangue di Cristo, noi “agiamo in questo mondo come egli ha fatto”. Quanto ai Protestanti, essi tendono, per timore di una qualche connotazione “magica”, a “spiritualizzare” il sacramento al punto da negare la presenza del Corpo e del Sangue di Cristo al di fuori dell’atto della Comunione.

Qui, di nuovo, la Chiesa Ortodossa, con la pratica della riserva dei Santi Doni, ristabilisce il vero equilibrio. I doni sono dati per la Comunione. ma la realtà della comunione dipende dalla realtà dei Doni. La Chiesa non specula sul modo della presenza di Cristo nei Doni. Essa vieta il loro uso per qualsiasi altro scopo che non sia la Comunione. Essa non rivela, per così dire, la loro presenza al di fuori della Comunione, ma crede fermamente che, come il Regno che deve ancora venire è “già in mezzo a noi”, e come Cristo asceso al cielo e assiso alla destra del Padre è tuttavia anche con noi sino alla fine del mondo, così anche il cibo d’immortalità, mezzo di comunione con Cristo e con il suo Regno, è sempre presente nella Chiesa.

Questa “divagazione” teologica ci riporta alla Liturgia dei Presantificati e all’“epifania” dei Doni consacrati che ne è il culmine solenne. Questa “grande entrata” ha preso sviluppo dalla necessità di trasferire i Doni consacrati, che all’inizio non erano conservati sull’altare, ma in un luogo apposito, talora addirittura fuori della chiesa. Questo trasferimento doveva assumere naturalmente una grande solennità, perché è l’espressione liturgica della venuta di Cristo, il termine di un lungo giorno di digiuno, di preghiera e di attesa, la venuta dell’aiuto, del conforto e della gioia tanto attesi: “Ora le potenze del cielo celebrano insieme con noi, invisibilmente. Ecco infatti avanzarsi il Re della gloria! Ecco, è introdotto, già tutto compiuto, il sacrificio mistico. Con fede e amore avviciniamoci per poter diventare partecipi della vita eterna. Alleluia! Alleluia! Alleluia!

I Santi Doni vengono posti sull’altare e allora, mentre ci prepariamo alla Comunione, noi chiediamo che “le nostre anime e i nostri corpi siano consacrati con una santificazione indelebile; che partecipando con una coscienza pura, con un volto senza vergogna, con un cuore illuminato, a questi doni divini e da essi vivificati, noi possiamo essere uniti a Cristo stesso... che ha detto: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui...; che possiamo diventare il tempio del Santo e adorabile Spirito, liberati da ogni astuzia del Maligno... e possiamo ottenere i beni a noi promessi, insieme con tutti i santi...

La porta regale viene chiusa, ma la cortina viene tirata solo a metà, perché si tratta di una liturgia incompleta senza una vera anafora. Segue poi la preghiera del Signore, che è sempre il nostro ultimo atto di preparazione alla Comunione perché, essendo la preghiera propria di Cristo, significa che noi facciamo nostri i sentimenti di Cristo, facciamo nostra la sua preghiera al Padre, la sua volontà, il suo desiderio, la sua vita. Quindi ha inizio la Comunione, mentre l’assemblea canta l’inno di Comunione: “Gustate e vedete quanto è buono il Signore!”. Nel Vima si comunicano i celebranti, davanti all’iconostasi i fedeli. Il vino che s’impiega non è consacrato, ma riceve la consacrazione perché vi si immergono le particole consacrate, sicché il comunicando partecipa effettivamente al corpo e al sangue del Signore.

Infine, terminata la liturgia, siamo invitati ad “andare in pace”. L’ultima preghiera riassume il significato di questo ufficio divino, di questa Comunione della sera, della sua relazione con il nostro sforzo quaresimale: “O Signore onnipotente, che hai creato tutto l’universo con sapienza, tu che nella tua ineffabile provvidenza e nella tua immensa bontà ci hai guidati a questi santissimi giorni perché siano purificati il nostro corpo e la nostra anima, siano domate le passioni carnali e cresca la speranza della risurrezione; tu che durante i quaranta giorni consegnasti nelle mani del tuo servo Mosè le tavole della Legge..., concedi anche a noi, o Dio unico, di combattere la buona battaglia, di portare a termine la corsa del digiuno, di conservare integra la fede, di mettere sotto i nostri piedi le teste dei serpenti invisibili, di riportare vittoria sul peccato e di giungere senza biasimo ad adorare la santa risurrezione...

A questo punto, fuori può anche far buio, e la notte in cui dobbiamo entrare e nella quale dobbiamo vivere e lottare e perseverare può essere ancora lunga. Ma la luce che abbiamo visto ora la illumina. Il Regno, di cui niente sembra rivelare la presenza in questo mondo, ci è stato dato “in segreto”; la sua gioia e la sua pace ci accompagnano, mentre siamo pronti a continuare la “corsa del digiuno”.


[1] Lc. 24, 13-35

[2] Mt. 9, 15

[3] Canone Apostolico 67: “Se un membro del clero digiuna di domenica o di sabato, eccezion fatta per il solo Grande Sabato, sia deposto. Se si tratta di un laico, sia scomunicato” - Concilio trullano, canone 56: “Abbiamo altresì appreso che presso gli Armeni e in altre regioni i sabati e le domeniche della santa Quaresima certuni mangiano uova e formaggio. Ci è sembrato bene, perciò decretare che la Chiesa di Dio, nel mondo intero, segua attentamente un’unica procedura: essa osserverà il digiuno...”.

[4] Mt. 28, 20

[5] Sal. 120, 1

[6] Sal. 140, 141, 129, 116

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