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martedì 7 maggio 2013

Il canto greco-bizantino

Adattato da http://www.parodos.it/musica_canto_greco.htm

Il canto greco-bizantino è sopravvissuto per secoli sostanzialmente inalterato, tramandato con la consapevolezza del suo enorme valore, quasi paradigmatico. Legato soprattutto alla sfera religiosa, non abbiamo testimonianza scritta del repertorio profano. Ma molti manoscritti riportano, tramite la scrittura neumatica, quel canto sacro definito "eco dell'armonia e della bellezza di Dio", fratello del canto gregoriano occidentale.

Il canto greco-bizantino e la sua influenza sulla musica medievale occidentale

La "pace" tra Chiesa e Impero romano favorì la costruzione di innumerevoli chiese e basiliche su tutto il territorio imperiale, con conseguente sviluppo del cerimoniale e aumento dei centri di produzione culturale; in particolare, la creazione delle circoscrizioni ecclesiastiche presiedute dai metropoliti (Alessandria, Antiochia, Bisanzio) pose le premesse per l'autonomia di tre forti centri di irradiazione culturale, sempre più indipendenti tra loro e da Roma: tutto ciò diede vita allo sviluppo di peculiari tradizioni nel canto liturgico e nel cerimoniale stesso. Il secolo IV vide inoltre numerose e importanti innovazioni per quanto riguarda il calendario ecclesiastico, con l'istituzione di nuove feste, sovrapposte alle antiche celebrazioni pagane ancora diffuse nelle campagne; si stabilì il criterio per decidere ogni anno la data della Pasqua; si svilupparono nuovi culti per i martiri; ecc..., nonché il consolidarsi della pratica di fissare per iscritto formulari di preghiere, ordinamenti di letture e il testo dei canti. Iniziano poi a delinearsi con maggiore precisione i due cicli nei quali saranno distribuite le ufficiature liturgiche: il Proprio temporale (per le feste del Signore e le domeniche) ed il Proprio santorale (per le feste dei santi). Si costruisce quindi un repertorio stabile di preghiere, letture e canti (alcuni dei quali rimarranno sostanzialmente intatti fino ad oggi, come i testi dell'Ordinarium missae - ovvero il Kyrie eleison, il Gloria, il Sanctus), legato in maniera indissolubile alla pratica musicale.

Riassumendo, nei primi secoli del Cristianesimo la relativa autonomia delle comunità favorì il libero sviluppo delle liturgie locali, ed il loro graduale coagularsi intorno a nuclei regionali (differenziati anche dall'uso di lingue diverse); la molteplicità di riti della liturgia d'Oriente costituì parallelamente anche una molteplicità di tradizioni meliche, in alcuni casi trasmesse fino a noi unicamente per via orale. Tuttavia la struttura musicale complessiva è sostanzialmente omogenea - le varie liturgie sono del resto varianti di un unico culto.

Ma quale fu il genere musicale in uso per secoli nell'ambito liturgico-musicale della Cristianità d'Oriente e Occidente? Nonostante le diverse e spesso imprecise o restrittive denominazioni usate in passato (tra cui quella di canto gregoriano, che oggi ha un significato più preciso e tecnico ed è relativo esclusivamente all'Occidente), gli studiosi hanno raggiunto un accordo definendolo canto piano , mettendo in rilievo alcuni elementi comuni alle tradizioni orientali e occidentali:

- il carattere monodico (esiste un'unica linea melodica, cantata da una o anche più persone, ma senza polifonia) ed esclusivamente vocale;
- il ristretto numero di gradi della scala musicale;
- l'indivisibilità dell'unità di tempo (ovvero, non esistono "battute" in cui le note si possano suddividere con criterio matematico relativo alla loro durata), il che dà l'impressione di una grande e inalterata calma e gravità, proprio come solitamente avviene nell'ascoltare il canto gregoriano;
- la mancanza di accompagnamento strumentale;
- il massimo sfruttamento di vocalità e cantabilità per esprimere con semplicità e naturalezza la preghiera liturgica.

All'interno della definizione molto ampia di "canto piano" hanno preso vita diversi filoni musicali (analogamente ai dialetti di un'unica lingua), ognuno legato ad un proprio rito liturgico: in Oriente troviamo il canto greco-bizantino (che merita una più attenta considerazione sia perché si sviluppò proprio a Costantinopoli, sia perché nella sua storia secolare intrecciò con Roma e l'Occidente cristiano una fitta trama di legami e rapporti), l'armeno, l'assiro-caldaico, e altri; in Occidente, il canto gregoriano, il romano antico, l'ambrosiano, l'ispano-mozarabico, il gallicano, il beneventano, l'aquileiese, ecc.

Il canto greco-bizantino

Contrariamente al nome, esso non nacque a Bisanzio, ma fu derivato da Antiochia, in particolare dal rito siriaco diffuso nel Ponto e nella Cappadocia e poi portato sulle rive del Bosforo da numerosi missionari (soprattutto nel corso del IV secolo e dopo il Concilio di Calcedonia, nel 451, in cui Costantinopoli fu riconosciuta sede di un patriarcato); la tradizione della Grecia classica sembra non aver influito più di tanto, almeno sullo stile musicale, mentre si riscontra il perpetuarsi di numerosi termini appartenenti alla teoria antica.

Rispetto ai repertori occidentali, in cui la lingua latina è sovrana incontrastata, il canto greco-bizantino vide un pluralismo linguistico molto diversificato a seconda delle zone in cui si officiava il rito: oltre al greco si contano infatti armeno, siriaco, arabo, paleo-slavo, georgiano, ecc... Altra differenza con la tradizione occidentale (che adottò soprattutto i salmi): Oriente fin dal IV secolo si affiancò al canto dei salmi il canto di inni e di canoni, formati da un numero variabile di odi o strofe, fino a 9.

In origine il canto greco dovette essere una semplice cantillazione (ovvero una sorta di declamazione su note fisse) destinata ad ampliare i testi liturgici - testi tratti, a partire dal III secolo, soprattutto dalla Bibbia e dalle opere patristiche; l'evoluzione dei canti andò sempre più verso una liturgia di celebrazione piuttosto che di tipo monastico, in particolare per l'influenza esercitata dalle pratiche musicali in uso a Gerusalemme e ad Antiochia: ne sono testimoni le acclamazioni, dette Laudes regiae , con cui si accoglieva l'ingresso in chiesa dell'imperatore e del patriarca.

Il compositore era lo stesso poeta (melodos) che in alcuni casi poteva essere anche l'esecutore dei proprio inni. Ciriaco, Romano il Melode, Anastasio sono tra i compositori più importanti dei secoli V e VI; nel VII troviamo Andrea di Creta, Sofronio di Gerusalemme, Germano di Costantinopoli; nell'VIII, Giovanni Damasceno e i due Cosma di Saba; nel IX, Teodoro Studita, Casia e Giuseppe l'Innografo.

Analogamente a quanto accade in Occidente, le prime testimonianze sistematiche di scrittura musicale risalgono solo al IX secolo; non si tratta ancora di scrittura musicale nel senso moderno, ovvero con note che individuino l'altezza precisa del suono su di un sistema di righi (sistema diastematico ), né era presente un insieme di simboli per rappresentare la durata di ciascun suono; si trattava della cosiddetta notazione ecfonetica, usata nella declamazione e costituita da simboli che avevano la funzione di indicare sommariamente l'intonazione - per esempio, un simbolo come / poteva indicare che in quel punto la voce del lettore doveva diventare più acuta, ma non sappiamo né di quanto né per quanto tempo. I primi segni grafici che indicassero gli intervalli risalgono al XII secolo; in seguito (XIII sec. circa) vennero introdotti anche segni per l'interpretazione ritmica. L'unica testimonianza di notazione musicale anteriore al IX secolo è rappresentata dall'Inno cristiano di Ossirinco (papiro 1786), databile tra III e IV secolo, e che costituisce l'anello di congiunzione tra l'antica musica greca e quella di Bisanzio; tuttavia la notazione non è quella che troveremo nel IX secolo, ma appartiene ancora a quella in uso nella Grecia classica.

Come mai la notazione musicale è così tardiva rispetto alla diffusione del canto greco-bizantino? Innanzitutto il repertorio non doveva essere così vasto da non poter essere memorizzato con facilità (almeno fino al regno di Giustiniano, nel VI secolo); in secondo luogo (ed è un fatto comune anche alla tradizione occidentale) era proprio la memorizzazione da parte di cantori, lettori, monaci, della stessa assemblea a rendere "superflua" la messa per iscritto dei brani; quando questi divennero più numerosi (già nel VI secolo, ma soprattutto sul finire della crisi iconoclasta), si avvertì invece la necessità di inserire segni per rammentare sommariamente l'andamento della melodia a cantori che la conoscevano già. Per questo motivo la simbologia ritmica ed una diastemazia più precisa tardarono tanto ad essere adottate.

Se la tardiva stesura per iscritto della produzione musicale - ovviamente si parla unicamente di quella sacra - la musica profana, per quanto bella fosse, non era ritenuta degna di essere trascritta - rappresenta una conseguenza problematica (e fortemente limitante, per gli studiosi moderni) del processo di memorizzazione, dall'altro lato questo preservò le melodie da significativi mutamenti durante i secoli, proprio in virtù della trasmissione orale, più conservativa dei manoscritti (costosi e facilmente deperibili); le melodie, fermamente scolpite nella memoria dei cantori, venivano insegnate e poi ripetute innumerevoli volte durante i riti, come avvenne per secoli con gli altri canti monodici occidentali.

Ma per comprendere ancora meglio le cause grazie alle quali non si verificarono mutamenti sostanziali nella struttura delle composizioni greco-bizantine, è necessario tenere conto del metodo creativo dei melografi orientali e delle loro concezioni artistiche: se Dionigi l'Areopagita (o Pseudo-Dionigi) nella sua opera De coelesti hierarchia afferma che "un'eco dell'armonia e della bellezza di Dio si riflette sulla gerarchia degli esseri in cielo e da questo sulla gerarchia terrestre della Chiesa", e se la musica degli inni cantati in cielo viene trasmessa dai Serafini a coloro che possiedono l'ispirazione divina (profeti e santi), e da questi poi ai compositori di inni liturgici, allora gli inni della Chiesa non sono altro che i cantici celesti trasmessi sulla terra e resi percepibili agli uomini dagli stessi membri della gerarchia ecclesiastica. L'artista è quindi autorizzato (ma al tempo stesso "obbligato") a seguire il modello di un inno già esistente e giunto fino alla Chiesa per rivelazione divina. Da qui non solo il perpetuarsi di stilemi letterari antichissimi, o il permanere attraverso i secoli di brani che esistevano unicamente nella memoria degli uomini di Bisanzio, ma anche la prassi di comporre contaci e canoni basandosi su di una strofa iniziale detta irmo , del quale si devono ripetere la struttura metrica e sillabica, l'eventuale acrostico, ecc.

Ovviamente piccole variazioni dei brani nel tempo erano ammesse e inevitabili, come per esempio l'introduzione di note ornamentali e fioriture, soprattutto parallelamente all'accresciuto splendore dei riti; una prova di tale immutabilità strutturale risulta dall'analisi dei testi greci entrati nella liturgia beneventana (la quale fu bilingue, nelle grandi feste) e rimasti sostanzialmente intatti fino all'epoca dell'esarcato di Ravenna (VI secolo): se si confronta la versione beneventana con quella bizantina, posteriore anche di alcuni secoli, si scopre che lo schema melodico di quest'ultima rimane identico, al di sotto di ornamentazioni e abbellimenti.

Il repertorio di canti bizantini si divide stilisticamente in tre grandi filoni:

- stile hirmologico : comprende le ode e i canoni; le melodie sono brevi, più o meno incentrate sempre sugli stessi suoni, sillabiche o con al massimo due note per sillaba;
- stile sticherarico : contiene i poemi monostrofici, i tropari (cioè interpolazioni ai versetti dei salmi), e altri; si nota la presenza di melismi (ovvero brevi passaggi con più note sulla medesima sillaba), ma il testo rimane comprensibile;
- stile asmatico o melismatico : include gli alleluia , i cherubicà , i kontakia, ecc. Si tratta di canti riccamente ornati, di difficile esecuzione e molto lunghi, perciò eseguiti da un solista (psaltista); il testo è di difficile comprensione, a causa dei lunghi vocalizzi su di un'unica sillaba; compaiono solo nel XIII secolo, mentre i canti appartenenti alle prime due categorie sono attestati senza variazioni rilevanti dal IX al XIV secolo.

Notevoli mutamenti iniziarono a modificare le melodie bizantine soprattutto dopo la caduta di Costantinopoli in mano turca, nel 1453: ecco quindi spiegata la presenza di microintervalli (intervalli più piccoli del semitono), tipici della musica araba e turca, riscontrabili nei canti attuali delle chiese bizantine; probabilmente i canti dell'epoca medievale erano molto più simili ai coevi canti occidentali, per esempio il gregoriano. Tuttavia la tradizione bizantina sopravvisse nei monasteri basiliani dell'Italia meridionale e della Sicilia, e oggi il monastero greco di Grottaferrata è un centro importantissimo per lo studio e la ricostruzione dell'antico canto greco-bizantino.

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