Fate ogni cosa per la gloria di Dio (1Cor. 10, 31)

Lo scopo finale della musica non deve essere altro che la gloria di Dio e il sollievo dell'anima (Johann Sebastian Bach)

giovedì 12 settembre 2013

Dalle Omelie di San Giovanni Crisostomo

Sulla Prima Lettera ai Corinti

Il calice della benedizione è comunione con il sangue di Cristo.

[…] Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? Che dici, o beato Paolo? Volendo far vergognare l’ascoltatore, ricordando i venerandi misteri, chiami calice di benedizione quel tremendo e terribile calice? Sì, giacché ciò che si dice non è cosa di poco conto. E quando dico benedizione, intendo mostrare tutto il tesoro della magnanimità di Dio, ricordando tutti i suoi grandi doni. Anche noi, infatti, considerando nel calice tutti gli ineffabili benefici di Dio e tutti i beni di cui godiamo, lo offriamo ed entriamo in comunione con lui ringraziando Dio di aver liberato dall’errore il genere umano, di aver avvicinato quelli che erano lontani e di aver costituito suoi fratelli ed eredi quelli che nel mondo erano atei e senza più alcuna speranza. E così noi ci accostiamo alla sacra mensa, dando grazie al Signore per essi e per tutti gli altri.

Come fate, o Corinzi, a non vedere che vi comportate esattamente in maniera opposta? Da una parte, infatti, benedite Dio che vi ha liberati dagli idoli; dall’altra invece correte di nuovo alle loro mense? Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? L’Apostolo si è espresso in maniera assai fedele e terribile. Egli vuol significare questo: Ciò che è nel calice è ciò che fluì dal costato di Cristo, del quale siamo partecipi, Paolo lo ha chiamato calice della benedizione, perché, tenendolo tra le mani, ammirati e stupefatti per un così ineffabile dono, lo esaltiamo con il canto e lo benediciamo perché il Signore lo ha versato affinché noi non restassimo nell’errore. Ma Cristo non solo lo ha effuso, ma lo ha anche offerto per tutti noi. Perciò il Signore dice: Se vuoi il sangue, non imporporare l’altare degli idoli col sangue di vittime irrazionali, imporpora il mio altare col mio stesso sangue. Ora, dimmi, cosa vi può essere di più tremendo e nel contempo di più amabile di questo?

Con l’Eucaristia entriamo in comunione e in unione con il corpo di Cristo.

Anche gli amanti si comportano così. Infatti, quando vedono che le persone che essi amano, desiderano le cose degli altri e disprezzano le proprie, donando queste, cercano di persuaderle a rigettare quelle degli altri. Ora, mentre gli amanti manifestano questa loro munificenza con il denaro, i vestiti, i possessi, ma nessuno di essi lo fa con il proprio sangue; Cristo, al contrario, proprio con il sangue ha manifestato la sua sollecitudine e il suo amore per noi. Nella Legge antica, poiché allora gli uomini erano più imperfetti, il Signore ha acconsentito di ricevere il sangue che offrivano agli idoli per sottrarli da questi, offrendo così un’altra prova del suo ineffabile amore; qui, invece, ha trasformato la funzione sacerdotale in qualcosa di gran lunga più terribile e straordinaria: mutato il sacrificio, ha ordinato che venisse offerto lui stesso al posto dell’uccisione di animali.

E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Perché non ha detto: partecipazione? Perché ha voluto significare molto di più, nel senso che ha inteso manifestare una grande unione. Noi facciamo comunione non solo quando partecipiamo e riceviamo, ma anche quando siamo uniti. Infatti come il corpo umano è unito a Cristo, così anche noi siamo uniti a lui per mezzo di questo pane. Perché allora ha aggiunto: che noi spezziamo? Questo si può vedere realizzato nell’Eucaristia, ma in nessun modo nella croce; anzi al contrario, infatti dice: non ne spezzeranno alcun osso. Ma ciò che non ha permesso la croce, lo permette per te nell’oblazione e acconsente di essere spezzato per saziare tutti.

Ha detto poi: comunione con il corpo, [volendo significare che] ciò che si comunica, [il pane], è cosa diversa da quello di cui ci si comunica, [il corpo di Cristo], mettendo così in risalto anche questa differenza, che poteva apparire di poco conto. Infatti, dopo aver detto: comunione con il corpo, ha inteso di nuovo dire qualcosa di più vicino; ecco perché ha aggiunto: Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. È come se l’Apostolo dicesse: Ma perché dico comunione? Noi siamo quello stesso corpo!

Che cos’è infatti il pane? È il corpo di Cristo. Cosa diventano quelli che lo ricevono? Corpo di Cristo; ma non molto corpi, bensì un sol corpo. Infatti, come il pane è un tutt’uno, pur essendo costituito di molti grani, e questi pur non vedendosi comunque si trovano in esso, sì che la loro differenza scompare in ragione della loro reciproca perfetta fusione; alla stessa maniera anche noi siamo uniti reciprocamente e insieme a Cristo. Non si verifica quindi che uno si nutre di un corpo e un altro di un corpo diverso, ma tutti ci nutriamo dello stesso e medesimo corpo. Perciò Paolo ha aggiunto:tutti infatti partecipiamo dell’unico pane. Ora, se tutti mangiamo lo stesso pane e tutti diventiamo una medesima cosa, perché non manifestiamo lo stesso amore, diventando una cosa sola?

E intanto questo si realizzava al tempo dei nostri antenati, quando la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola. Oggi non è più così; anzi, è il contrario. Tra tutti vi sono molte e varie guerre e inferiamo in maniera più crudele delle bestie gli uni sui membri degli altri. Sicché, mentre Cristo ti ha unito a lui, anche se da lui stavi tanto disgiunto; tu invece non ti degni neppure di unirti al tuo fratello, cosa che dovresti fare molto accuratamente; anzi, lo allontani da te, pur avendo ricevuto dal Signore la vita e un così grande amore. Del resto, Egli non ha donato soltanto il suo corpo; ma, poiché la prima natura della carne, fatta dalla terra, era già morta a causa del peccato ed era stata privata della vita, il Signore vi ha immesso, per così dire, un’altra pasta e un altro lievito: la sua carne. Questa, che era della stessa natura, l’ha concessa a tutti, libera dal peccato e piena di vita, affinché, nutriti da essa e deposta la precedente che era morta, mediante questa sacra mensa fossimo uniti tutti in una vita immortale.

Guardate Israele secondo la carne. Quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare? Ancora una volta l’Apostolo esprime lo stesso concetto partendo dalla Legge antica. Infatti, poiché [i Corinzi] sono abbastanza incapaci di comprendere la grandezza delle cose dette, li persuade facendo ricorso a cose antiche e ordinarie per essi. Perciò di proposito dice: secondo la carne, dal momento che essi sono secondo lo spirito. È come se dicesse loro: Anche attraverso cose abbastanza ordinarie vi si insegna che coloro che mangiano le vittime sacrificali sono in comunione con l’altare. Vedi allora come Paolo mostra che quelli che sembrano essere perfetti, invece non hanno una perfetta conoscenza delle cose, se non sanno neppure che spesso molti contraggono mediante queste cose una certa comunione e amicizia con i demòni, a causa di una sorta di abitudine che finisce per attrarli a poco a poco? Infatti, se tra gli uomini l’essere uniti mediante il sale e la condivisione della stessa mensa è occasione e simbolo di amicizia, la stessa cosa può succedere tra i demòni. Ma, ti prego, pensa al motivo per cui Paolo non ha fatto riferimento ai Giudei che fanno comunione con Dio, ma ha detto soltanto: sono in comunione con l’altare. [Si è espresso così], perché mentre ciò che si metteva sull’altare veniva bruciato, qui invece nel corpo di Cristo non succede così. E perché? Perché è in comunione con il corpo di Cristo. Noi non siamo in comunione con l’altare, ma con lo stesso corpo di Cristo. Poi, dopo aver detto: siamo in comunione con l’altare, temendo che il suo discorso sembri cadere sulla reale esistenza degli idoli, sul potere che essi avrebbero e sul danno che potrebbero arrecare, vedi come risolve la questione: Che la carne immolata agli idoli, dice, è qualche cosa? O che un idolo è qualche cosa?

Chi si accosta degnamente all’Eucaristia, è come un’aquila che vola verso l’alto.

Sapendo anche queste cose, o carissimi, preoccupiamoci dei nostri fratelli e cerchiamo di conservare l’unione con essi. Infatti, a questo ci induce quel tremendo e terribile sacrificio, quando ci ordina di accostarci ad esso soprattutto vivendo in grande concordia e in fervente carità. In questo modo, divenuti come aquile, possiamo volare fino allo stesso cielo. L’Evangelista dice: Dovunque sarà il cadavere, là si raduneranno le aquile, chiamando cadavere un corpo morto. Infatti, se Egli non fosse morto, noi non saremmo risorti. Dice aquile, volendo mostrare che colui che si accosta a tale corpo, deve elevarsi, non avere nulla in comune con la terra e non deve discendere per arrestarsi al suolo; ma deve costantemente volare in alto, guardando al sole di giustizia e tenendo aguzzi gli occhi della mente. Infatti, questa mensa appartiene alle aquile e non ai corvi. Infatti, coloro che ora ricevono il Signore degnamente, saliranno incontro a Lui che discende dal cielo; così come quelli che si cibano di Lui indegnamente, soffriranno i più tremendi castighi.

L’Eucaristia dev’essere celebrata degnamente.

1. E mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio. È necessario innanzitutto esporre anche la causa dell’attuale accusa, in modo che si comprenderanno più facilmente le cose che bisogna dire. Qual è dunque questa causa? Come quei tremila, che all’inizio erano diventati credenti, mangiavano da una stessa mensa e possedevano tutto in comune , così soleva accadere anche quando Paolo dava queste istruzioni; anche se non proprio in maniera identica, comunque l’usanza persisteva come diretta emanazione da quella prima comunione di vita, che si è trasmessa fino ai posteri. Infatti, poiché capitava che alcuni erano poveri ed altri ricchi, non sempre si mettevano a disposizione i propri beni, ma solo in determinati giorni si apparecchiavano banchetti comuni, come era ragionevole. Terminata infatti la riunione, dopo la comunione dei sacri misteri, si riunivano tutti in un comune banchetto: i ricchi che portavano i cibi da mangiare, i poveri e gli indigenti che, non avendo niente, erano invitati dai ricchi; insomma mangiavano tutti insieme.

Ma con il passare del tempo quest’usanza venne meno. La causa fu la scissione che si generò tra i fedeli, unendosi chi con questo e chi con quello, e dicendo: Io sono di Tizio, tu sei di Caio. Paolo, volendo correggere una tale cosa, all’inizio della lettera dice: Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa” L’Apostolo poneva se stesso in primo piano, non perché i Corinzi parteggiassero per lui, cosa che peraltro egli non avrebbe tollerato, ma perché voleva sradicare lo sviluppo di tali scissioni fin dalle radici, mostrando che se uno si fosse unito a lui, separandosi così dal comune corpo, ciò sarebbe stato assurdo e grandemente iniquo. Ora, se egli considera iniquo l’atteggiamento assunto nei suoi riguardi, a maggior ragione lo considera tale nei riguardi di quelli che gli sono inferiori. Perciò, sia perché quest’usanza è scomparsa – un’usanza bellissima e utilissima, in quanto era causa di reciproca carità, di conforto della povertà, di moderazione delle ricchezze, occasione di grandissima scuola e di insegnamento dell’umiltà; e sia perché Paolo si rende conto della perdita di tanti vantaggiosi beni, a ragione adopera un linguaggio duro, dicendo: E mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi…

2. […] Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Vedi come l’Apostolo istruisce i Corinzi, facendoli vergognare e ricorrendo ad un linguaggio narrativo? In altri termini, egli dice: Diverso è dunque il modo di radunarsi insieme; esso appartiene infatti all’ordine della carità e dell’amore fraterno. Certamente uno solo è il luogo che vi accoglie tutti e nel quale siete uniti insieme; tuttavia la mensa [eucaristica] non è affatto simile ad un semplice radunarsi insieme. Paolo non ha detto: Quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare in comune, né un incontrarsi l’un l’altro a tavola. Li riprende in maniera più dura e più severa, e dicendo: non è più un mangiare la cena del Signore, vuole che essi ripristino [la celebrazione dell’Eucaristia] nella stessa ora serotina nella quale Cristo ha trasmesso i suoi tremendi misteri. L’Apostolo, quindi, chiama cena il pranzo, perché la cena [del Signore] trova riuniti insieme tutti i commensali. La differenza tra ricchi e poveri non è come quella che intercorre tra maestro e discepoli, ma è di gran lunga più grande. Ma perché dico tra maestro e discepoli? Pensa invece alla differenza che intercorre tra il maestro e il traditore! Infatti il Signore, quando sedette a tavola con i discepoli, non scacciò Giuda, ma condivise con lui il sale e lo rese partecipe dei divini misteri.

Chi si accosta all’Eucaristia deve necessariamente avere una coscienza pura.

In verità Paolo non ha comandato così, ma sa per certo che uno solo è il momento opportuno per accostarsi all’Eucaristia e per comunicarsi, quando cioè si ha una coscienza pura. Infatti, se quando siamo febbricitanti e fortemente incatarrati ci asteniamo dal sederci a tavola, che è una cosa sensibile, per paura di morire; molto meno dobbiamo partecipare di questa sacra mensa, [che è spirituale], quando nell’animo abbiamo cattive concupiscenze, che sono più gravi della febbre. E quando dico cattive concupiscenze, mi riferisco ai desideri della carne, a quelli della ricchezza, dell’ira; in una parola, a tutte le cattive e assurde passioni. Al contrario, è necessario che colui che si accosta a questo sacrificio, spogliatosi di tutte queste concupiscenze, lo faccia con animo puro; che non si senta costretto, a causa della festa, a ricevere l’Eucaristia con una pigra e cattiva disposizione spirituale; allo stesso modo non deve proibire a se stesso di accostarsi [al sacro banchetto] semplicemente perché non è giorno di festa, quando invece è interiormente preparato e compunto. Il giorno di festa, infatti, è il momento propizio per compiere opere buone, è l’espressione del proprio zelo spirituale ed è l’occasione opportuna per manifestare l’accurata condotta della propria esistenza. Se vivi con queste disposizioni interiori, allora potrai sempre celebrare il giorno della festa e potrai sempre accostarti [alla mensa divina]. È per questo motivo che l’Apostolo dice: Ciascuno, pertanto, esamini se stesso, e poi si comunichi. Egli dunque non ordina che uno esamini l’altro, ma ciascuno se stesso, esprimendo un giudizio personale ed un’approvazione che non ha bisogno di testimoni. Perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. Cosa dici? La causa di tanti beni, la mensa che genera la vita, diventa essa stessa condanna? Non per sua natura, dice Paolo, ma per volontà di colui che vi si accosta. Infatti, come la venuta del Signore, che ci ha portato grandi ed ineffabili doni, costituisce una condanna più grave per coloro che non lo hanno accolto; così anche i misteri diventano viatico per un severo castigo per quelli che li ricevono indegnamente.

Comunicarsi indegnamente significa «mangiare e bere la propria condanna».

Ma perché, dici, mangia e beve la propria condanna? Perché non riconosce il corpo del Signore. In altri termini, [chi si comunica indegnamente] non vaglia, non esamina come si conviene la grandezza dei beni proposti e non riflette sull’eccellenza dei doni. Infatti, se tu imparerai a conoscere bene chi è colui che ti è posto dinanzi, e, sapendo chi è, a chi egli si dona, allora non avrai bisogno di nessun’altra parola di esortazione, ma ciò ti sarà sufficiente per mantenerti completamente sobrio, a meno che la tua condizione spirituale non sia del tutto disastrosa. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Qui l’Apostolo non adduce esempi tratti da altre situazioni, come ha fatto sulle vittime immolate agli idoli, narrando storie antiche e gli stessi castighi ricevuti [dai padri] nel deserto, ma tratti dagli stessi Corinzi, cosa che per altro rende più duro il suo discorso. Dicendo: mangia e beve la propria condanna;e: è reo, per non sembrare di parlare tanto per parlare, vi aggiunge dei fatti e li chiama a testimoni. Ciò infatti li colpisce più di una minaccia, in quanto questa è presentata come già operante in atto. E non contento di questo, successivamente Paolo introduce il discorso della geenna e lo rende degno di fede. In questo modo egli incute terrore nei due sensi, e risponde agli interrogativi che da ogni parte gli si pongono. Infatti, poiché molti si chiedono tra loro da dove mai provengono le morti immature e le lunghe malattie, l’Apostolo risponde che molte cose inaspettate capitano a causa dei peccati.

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