Fate ogni cosa per la gloria di Dio (1Cor. 10, 31)

Lo scopo finale della musica non deve essere altro che la gloria di Dio e il sollievo dell'anima (Johann Sebastian Bach)

mercoledì 18 settembre 2013

Medioevo e Rinascimento - La scienza bizantina e latina (la nascita di una scienza europea): LA MUSICA

Da: Treccani

di Christian Meyer

1. Osservazioni di carattere generale

La musica, come scienza e rappresentazione del mondo, attingeva i suoi concetti più importanti alla fonte delle costruzioni astratte del De institutione musica di Boezio (480 ca.-524/525), di alcuni brani dei Commentarii in Somnium Scipionis di Macrobio e infine delle enciclopedie di Marziano Capella (prima metà del V sec.), Cassiodoro (490 ca.-580 ca.), e Isidoro di Siviglia (560-636 ca.). Mentre l'impegno dei lettori altomedievali era diretto fondamentalmente alla spiegazione del testo di Boezio, la produzione teorica del periodo tra il IX e il XII sec. sviluppava, avvalendosi degli strumenti matematici ereditati dalla Tarda Antichità, un apparato concettuale inteso a imporre un ordinamento razionale alla pratica musicale. Ciò facendo, la teoria della musica dell'Alto Medioevo si caratterizzò principalmente per il tentativo di razionalizzare l'altezza del suono imperniato sulla costruzione dei sistemi acustici. I numerosi trattati dedicati alla divisione del monocordo, alla misura delle canne dell'organo o anche alla costruzione dei carillon si collocavano in una prospettiva pratico-teorica; la costruzione geometrica della scala dei suoni su un corpo sonoro, proposta in questi trattati, tendeva sempre, in definitiva, a mettere in evidenza le strutture interne al sistema acustico stesso. Questa dimensione pratico-teorica del discorso musicale fu poi rinnovata nel corso della seconda metà del XIII sec. con la comparsa di nuovi paradigmi scientifici e lo sviluppo di nuove tecniche musicali, tra cui, in particolare, la notazione dei valori di durata e la crescente complessità del canto polifonico.

Come testimoniano diverse fonti, il De institutione musica di Boezio continuò a essere il testo di riferimento a cui la disciplina musicale attingeva i suoi concetti più importanti, in particolare negli ambienti universitari francesi del XIII secolo. I primi due libri del trattato di Boezio si diffusero sotto forma di un compendio destinato a dare un fondamento alla teoria delle consonanze. Giacomo di Liegi osservava che, durante il periodo in cui aveva studiato alla Sorbona (verso il 1275), il lettore commentava solamente i primi due libri di Boezio (Speculum musicae, II, 1, vi, 8). Nel suo Tractatus de musica, redatto tra il 1271/1274 e il 1289, il frate predicatore Gerolamo di Moravia, attivo a Parigi nel convento della rue Saint-Jacques, inserì ampi brani del De institutione musica come introduzione teorica alla pratica musicale. La Musica speculativa (1323) di Giovanni de Muris, che conobbe una notevole diffusione, esponeva un riassunto in forma assiomatica del De institutione musica. Con quest'opera l'insegnamento di Boezio entrò a far parte in maniera stabile dell'istruzione scientifica impartita nella Facoltà delle arti, e in particolare del curriculum studiorum delle nuove università della Germania e dell'Europa centrale. La prima edizione del De institutione musica, pubblicata a Venezia nel 1492, nell'ambito dell'edizione delle opere complete di Boezio, testimonia infine della tarda ricezione di questo trattato.

Anche se Boezio continuò a essere l'auctoritas indiscussa cui si richiamavano i teorici della musica, questi ultimi non rimasero indifferenti alle innovazioni intellettuali del XIII sec.: Giovanni de Muris, Giacomo di Liegi, Marchetto da Padova, e molti altri, conoscevano Aristotele e ne citavano volentieri la Metafisica a proposito delle modalità della conoscenza, il De anima riguardo al suono, la Fisica circa il tempo, il De caelo per la questione della musica mundana, la Politica o l'Ethica Nicomachea sui problemi della socializzazione della pratica musicale. Accanto alle opere di Aristotele tradotte in latino, le sezioni XI e XIX dei Problemata pseudoaristotelici erano gli unici testi greci antichi che trattavano della teoria della musica dei quali si possedesse una versione latina (la più antica fu eseguita tra il 1258 e il 1266 nell'Italia meridionale da Bartolomeo da Messina). Tuttavia, nonostante il loro interesse per l'acustica (propagazione del suono, acustica degli strumenti a corda e così via) e, più in generale, per la pratica musicale (sistema acustico, qualità etiche, ecc.), sembra che questi testi non abbiano attratto l'attenzione degli autori di musica, con l'eccezione di Engelberto di Admont che, nel suo De musica, redatto anteriormente al 1320, citò a più riprese alcuni brani della sezione XIX dei Problemata.

In compenso gli autori di musica erano probabilmente al corrente della divisione generale della musica stabilita da al-Fārābī, che era loro pervenuta grazie alla traduzione fattane verso il 1250 da Vincenzo di Beauvais nel suo Speculum doctrinale, e che rappresenta tutto ciò che il Medioevo poté conoscere della teoria musicale araba. I contatti con la cultura scientifica araba sono documentati da rarissime tracce materiali; il caso più significativo è quello dell'uso, negli scritti di un autore inglese della fine del XIII sec. (l'Anonimo IV), dei termini elmuahym e elmuarifa che nella geometria araba designavano, rispettivamente, il rombo e il romboide. In ogni caso, i tópoi della filosofia aristotelica della Natura, menzionati dai teorici della musica, non produssero una ricostruzione sistematica dell'apparato scientifico del musicista.

Si cercherebbe dunque invano, negli scritti sulla musica della fine del XIII sec. e dei secoli successivi, una formulazione coerente delle recenti esperienze scientifiche. Queste ultime dirigevano comunque in profondità le strategie del discorso sulla musica e sull'attitudine dei musicisti a concettualizzare - ma anche a fertilizzare - nuovi campi della pratica musicale, e in particolare quello della musica polifonica. Alla fine del XIII sec., l'autorità dell'aristotelismo favorì così, in primo luogo, un approccio alla musica decisamente 'naturalistico', attento ai problemi della produzione del suono e alle condizioni necessarie alla sua propagazione. In questo modo essa contribuì alla presenza di un referente fisico e concreto nelle speculazioni sull'aritmetica musicale. Il riferimento alla filosofia della Natura rinnovò poi, in modo significativo, il concetto di durata e di temporalità; esso condusse infine a ridefinire, sulle rovine dell'antico quadrivium delle sette arti liberali, la posizione della musica tra le altre discipline del sapere.

2. Il suono e l'ascolto

Le risposte elaborate dagli eruditi del Medioevo, sotto l'influenza della scienza e degli scritti arabi, alle difficili questioni sollevate dalla natura del suono, dalla sua diffusione nell'aria e dai meccanismi dell'ascolto, non sembrano aver inciso profondamente sulla teoria della musica; del resto, esse non hanno lasciato quasi traccia nei trattati sulla musica e potrebbero, al contrario, essere persino all'origine del rinnovato interesse per i modelli speculativi del De institutione musica di Boezio. Nel corso della seconda metà del XIII sec., il riferimento all'esperienza sensibile dell'ascolto fu introdotto nella formulazione delle categorie fondamentali della classificazione delle 'consonanze' (consonantiae), un aggregato cioè di due suoni emessi simultaneamente.

Giovanni di Garlandia distingueva le 'consonanze' in 'concordanti' e 'discordanti' (concordantiae - discordantiae). Anche se le suddivisioni più ricercate (quelle tra concordanze e discordanze perfette, imperfette e medie) sembra siano state concepite in base al modello razionale dei numeri dell''anima' del 'mondo'…, le categorie fondamentali si riferivano esplicitamente alla percezione sensibile. Così, la distinzione tra concordanze e discordanze fu stabilita in base alla categoria sensibile e, in definitiva, estetica, della compatibilità oppure dell'incompatibilità dei suoni all'ascolto. Allo stesso modo, si riteneva che la perfezione di una concordanza (l'unisono e l'ottava) dipendesse principalmente dall'incapacità da parte dell'udito di distinguere i due suoni consonanti. Il grado di fusione di questi intervalli, che era il criterio della loro perfezione, veniva meno nel caso delle terze maggiori e minori, considerate concordanze imperfette.

All'inizio del XIV sec., Giovanni de Muris stabilì la preminenza del suono sul numero, capovolgendone così l'antico rapporto di subordinazione. Secondo lui, poiché la musica tratta del suono in rapporto ai numeri o all'inverso, e dal momento che il suono deve essere generato prima di poterlo 'numerare', l'analisi dei meccanismi della sua produzione occupava una posizione prioritaria (Notitia artis musicae, II, 1; Musica speculativa). Giovanni de Muris sostituì in questo modo una teoria della musica basata sul postulato di entità numeriche di carattere metafisico con una prospettiva naturalistica in cui la teoria della musica era subordinata alla filosofia della Natura. Questa inversione era imperniata sulla teoria del suono ripresa dal De anima (II, 7-8) in cui si affermava che il suono può prodursi soltanto alle tre seguenti condizioni: un percuziente (percutiens), un percosso (percussum) e infine un mezzo nel quale l'effetto possa propagarsi (medium percutiendi). Questo mezzo è in primo luogo l'aria e il suono è considerato una vibrazione dell'aria provocata dall'urto dell'agente percussore sull'oggetto sonoro.

L'elemento determinante rimaneva il movimento, sia quello all'origine dell'urto sia, soprattutto, i movimenti dell'oggetto sonoro stesso e probabilmente quelli da esso propagati nell'aria. Giovanni de Muris non si dilungava però sui meccanismi inerenti alla produzione del suono; gli bastava definire il concetto di movimento per riallacciarsi alle teorie di Boezio e reintrodurre così l'argomento del numero attraverso quello della quantità dei movimenti che, secondo la fisica boeziana, erano all'origine dell'acutezza o della gravità del suono. Così "la musica è fatta di suoni proporzionali secondo il numero di movimenti in essi racchiusi" (Notitia artis musicae, I, 2).

A prescindere dalla sua ricezione in Giovanni de Muris, tuttavia, la fisica aristotelica del suono e i molteplici problemi da essa posti non hanno lasciato quasi traccia nella teoria della musica, e la posizione assegnatale da Giovanni de Muris condusse, al contrario, a una restaurazione dell'autorità di Boezio. Oramai, le speculazioni numeriche sulle proporzioni tra i suoni - verificate, del resto, sul monocordo - trovavano il loro fondamento nella filosofia della Natura. L'apparato matematico elaborato da Boezio acquistava in questo modo una nuova dignità offrendo un modello matematico alla fisica del suono.

3. La musica e il tempo

Se lo studio della natura materiale, fisica, del suono non ha destato l'interesse degli eruditi occidentali dell'Alto Medioevo neanche la questione dell'organizzazione temporale della musica sembra aver attratto la loro attenzione. I testi relativi all'organizzazione della durata rimasero molto rari, e furono generalmente dominati dai paradigmi dell'insegnamento della grammatica. Solamente lo studio dei piedi della metrica e delle loro combinazioni di brevi e di lunghe consentiva allora di articolare in un sistema di concetti l'organizzazione della durata. Questo modello, di cui il De musica di Agostino offriva una delle descrizioni più esaustive, fu concisamente menzionato da Guido d'Arezzo (992-1050) nei capp. XV e XVI del Micrologus.
È probabilmente nello spirito della teoria del numerose canere formulata dall'autore della Musica enchiriadis (trattato anonimo redatto verso la fine del IX sec.), ma anche nell'elenco dei piedi della metrica contenuto nel De musica (II, viii, 15), che deve essere collocata la comparsa dei modi, cosiddetti 'ritmici', che regolarono la notazione musicale nel XIII secolo. Sembra, più precisamente, che questi modi siano stati ideati in base al modello dei sei modi semplici ai quali Alessandro di Villedieu (noto anche come Alexander de Villadei, m. 1240 ca.), nel suo Doctrinale (1199), aveva ridotto un lungo elenco di 124 piedi ereditati dalla metrica classica.

Il modello metrico si affermò in particolare in una certa tradizione inglese che potrebbe essere correttamente definita agostiniana e che fu illustrata, tra gli altri, da Roberto Kilwardby. Nel De ortu et divisione philosophiae (redatto verso il 1250) quest'ultimo spiegava in effetti che il discorso (oratio), come quantità, è subordinato alla musica (ad harmonicum) perché i suoni (soni) che compongono le sillabe organizzate in piedi e in metri obbediscono alla legge del numero. Allo stesso modo, Giovanni di Garlandia definiva i valori di durata che costituiscono i modi ritmici, in rapporto ai tempi dei grammatici (così il valore di durata della breve, recta brevis, corrispondeva a un tempo, quello della lunga, recta longa, a due tempi). Questo legame tra musica-harmonia e ars metrica era inoltre illustrato in modo paradigmatico nella Summa de speculatione musice di Walter Odington (redatta tra il 1298 e il 1316), che affrontava esplicitamente la questione del rapporto esistente tra la musica e il tempo dal punto di vista metrico.

Nel corso della seconda metà del XIII sec., sotto la crescente influenza degli scritti di Aristotele, e in particolare della Fisica e dei Libri naturales, la nozione di tempo, con tutte le sue implicazioni fisiche, divenne un oggetto di riflessione per i musicisti e fece così la sua comparsa nella teoria della musica. Questo interesse è, per la prima volta, chiaramente leggibile nel De modo cantandi et formandi notas et pausas cantus planus, inserito da Gerolamo di Moravia nel cap. XXV del suo Tractatus de musica. In questa opera si definiva 'musica misurabile' (mensurabilis) quella in cui il valore di tutte le note è riducibile a un modello razionale. Per spiegare la specificità del 'tempo musicale' (tempus harmonicum), l'autore si richiamava chiaramente alla teoria aristotelica del tempo fisico (Physica, IV, 11), intendendolo cioè come un numero del movimento secondo il prima e il poi.

Per Gerolamo di Moravia, o per la sua fonte, l'analogia con il tempo fisico fondava una concezione del tempo musicale come successione di tre istanti - prima, presente, poi - definiti minima della percezione uditiva. La concezione aristotelica del tempo esposta in quest'opera autorizzava un approccio dinamico al tema della durata e fondava il concetto decisamente moderno di divisibilità del tempo. Alla durata minima e indivisibile dei grammatici - il tempo della 'breve' - si contrapponeva la durata suddivisibile della brevis. La sistematizzazione di stampo aristotelico della suddivisibilità della breve e l'assimilazione dell'unità del modo ritmico al tempo non era estranea alla comparsa - o almeno alla maturazione concettuale e grafica - della nozione di pulsazione (il tactus) come elemento regolatore per eccellenza della polifonia. L'analogia tra tempo fisico e tempo musicale favoriva inoltre la matematizzazione della durata; mentre il silenzio eludeva il controllo della metrica, il paradigma del tempo naturale consentiva oramai di quantificarne la durata in base al modello del suono e di postulare l'equivalenza 'aritmetica' del suono e del silenzio.

L'abbandono del paradigma grammaticale a vantaggio di un approccio naturalistico al suono autorizzava così l'introduzione di modelli matematici nell'organizzazione della durata. Questa razionalizzazione della dimensione temporale era strettamente connessa al formalismo che caratterizzava la produzione musicale del secolo dell'Ars nova. Bisogna infine notare che questo periodo coincise approssimativamente con l'introduzione dell'orologio meccanico, il cui sistema di bloccaggio-sbloccaggio divideva il tempo in intervalli distinti e consentiva così di misurare l'estensione della durata.

4. Classificazioni e definizioni della musica

L'influenza della filosofia della Natura di Aristotele indusse a considerare il suono, tradizionalmente associato alla definizione della disciplina musicale, nella sua realtà fisica. Così, la musica non trattava più de numero relato ad sonum, secondo la formulazione probabilmente enunciata da Giovanni di Garlandia (Musica plana) verso il 1250, ma de sono relato ad numeros, come affermava Giovanni de Muris (Notitia artis musicae, I, 1) negli anni Venti del XIV secolo. Lo studio della musica era oramai, in linea di principio, associato al suono considerato nella sua materialità fisica, nella sua gravità oppure acutezza e nella sua temporalità: il suono era divenuto un oggetto suscettibile di valutazione e di manipolazione matematica, sia sotto il profilo dell'altezza sia sotto quello della durata.

Questa inversione - operata, a quanto sembra, in alcuni ambienti parigini della seconda metà del XIII sec. - è riscontrabile nella posizione assegnata alla musica da Tommaso d'Aquino (1225/1226-1274) fin dagli anni 1257-1258. Nell'ambito delle scienze matematiche egli distingueva quelle che trattavano della quantità in assoluto (la geometria e l'aritmetica) da quelle che applicavano i principî matematici alle cose della Natura; queste ultime, rappresentate dalla musica e dall'astronomia, erano definite scienze medie. L'oggetto fisico del suono costituiva così la materia della scienza musicale, mentre l'apparato matematico ne rappresentava la dimensione formale. La musica dunque non trattava dei suoni in quanto tali (e sotto questo aspetto non era una scienza naturale), ma dei suoni in quanto obbedienti a determinate proporzioni (v. Super Boetium De Trinitate, quaest. 5, art. 3; Sententia super Physicam, II, 3).

Questa concezione si consolidò tra il 1267 e il 1268 per opera di Ruggero Bacone (1214 ca.-1294), per il quale la scienza della musica trattava solamente del suono fisico, e ciò favorì la scomparsa della musica delle sfere, musica mundana, dall'orizzonte della scienza della musica. Allo stesso modo Giacomo di Liegi (Speculum musicae, I, 8: "A quale parte della filosofia la musica è sottoposta"), ispirandosi a un altro modello aristotelico (esposto nella Metafisica), rinnovava, ampliandola, la classificazione della musica posta da Boezio. Egli distingueva una musica coelestis o divina, assente in Boezio, assimilata alla metafisica (pròte philosophía o theologikè); una musica mundana e humana il cui argomento era della stessa natura di quello della fisica; infine, la musica instrumentalis (sonora) che rientrava allo stesso tempo nel campo della fisica e in quello della matematica.

Nella seconda metà del XIII sec., il tentativo di ridefinire la scienza della musica si manifestò in modo originale nel Tractatus de musica del frate predicatore parigino Gerolamo di Moravia, la cui prefazione terminava con una lunga citazione non letterale del prologo della Summa theologiae. Nel menzionare la definizione di Tommaso d'Aquino, Gerolamo di Moravia sostituiva "gli elementi dell'arte musicale che concernono principalmente il compito dei cantori", esposti nel Tractatus, a quelli che, nella Summa, si riferivano alla sacra doctrina. A questo riferimento plagiario faceva eco, qualche brano più avanti, una definizione del 'soggetto' della musica ricalcata, con la stessa tecnica, su un altro brano della Summa theologiae (I, 1, 7). Il calco, in questo caso, esprimeva il proposito di organizzare la scienza della musica sul modello della scienza sacra sostituendo al suo soggetto, Dio, il suono discreto, il suono cioè nella sua materialità fisica, ma basato sui numeri.

Così, la divisione della musica enunciata da al-Fārābī, ampiamente divulgata da Vincenzo di Beauvais e ripresa successivamente da Gerolamo di Moravia, ha probabilmente favorito la comparsa, nel corso della seconda metà del XIII sec., della distinzione tra teoria e pratica. Seguendo l'esempio di Aristide Quintiliano, al-Fārābī distingueva due tipi di sapere musicale, una conoscenza attiva, o pratica, della musica e una conoscenza speculativa; tramite la prima il musicista produce, con strumenti naturali o artificiali, suoni che obbediscono alle leggi dell'acustica, mentre la seconda conoscenza concerne i fondamenti razionali dei suoni prodotti dalla voce o dagli strumenti non da un punto di vista materiale ma in assoluto.

Giovanni de Muris divise la sua Notitia artis musicae in due libri, il primo dei quali (musica theorica) trattava del suono, della sua matematizzazione e della struttura della scala dei suoni, mentre il secondo (musica practica) prendeva in esame il tempo, i principî della sua rappresentazione e quindi la notazione misurata. Nel prologo di questo trattato, attraverso una lunga citazione composita dalla Metafisica (I, 1), si spiegavano le relazioni tra teoria e pratica. Giovanni de Muris contrapponeva la scienza e l'arte alla conoscenza empirica, e formulava, con una forza fino ad allora sconosciuta nella teoria della musica, la distinzione tra la dimensione universale dell'ars e la singolarità dell'esperienza empirica, ma anche la loro interdipendenza. Le relazioni tra la scienza, l'ars e l'esperienza da una parte, e la teoria e la pratica dall'altra rimanevano tuttavia complesse.

Il primo libro dell'opera doveva il suo status teorico al carattere scientifico della dimostrazione del sistema acustico e alla validità universale dei principî alla base di questo sistema (la stessa materia fu oggetto, nella Musica speculativa, di una descrizione in forma rigorosamente assiomatica). Il secondo libro, definito 'un libro di pratica', era anche, e soprattutto, il libro dell'ars propriamente detta, nella misura in cui Giovanni de Muris si proponeva di ordinarvi, in base a principî razionali (nel caso specifico la fisica della durata e la sua matematizzazione), le pratiche, empiriche e divergenti, della scrittura musicale.

La distinzione operata da Giovanni de Muris tra musica theorica e musica practica rimase, fino alla fine del XV sec., il quadro intellettuale di tutti gli studi sulla musica dalle ambizioni enciclopediche. Essa fu applicata in modo esemplare nello Speculum musicae di Giacomo di Liegi (compilato prima del 1330), nei Quatuor principalia musicae redatti in Inghilterra nel corso del secondo quarto del XIV sec., e soprattutto nella Declaratio musicae disciplinae redatta a Padova verso il 1430 da Ugolino di Orvieto.

5. La musica e i suoi effetti

La questione dell'éthos dei modi è stata un tópos classico della teoria del canto piano. La toponimia greca (vale a dire dorico, lidio e frigio), adattata ai toni ecclesiastici, fin dall'XI sec. aveva favorito la ricezione della tradizione antica delle caratteristiche etniche dei toni, espressa nella definizione formulata da Boezio che, a sua volta, parafrasava Platone: "Un temperamento voluttuoso si diletta dei modi (modus) più lascivi, e ascoltandoli, si turba fino a perdere la ragione. In compenso, uno spirito più rigido s'indurirà ascoltando melodie più energiche e impetuose. È questa la ragione per cui ai modi musicali sono attribuiti nomi di etnie, come, per esempio, il modo lidio o frigio" (De institutione musica, I, 1, ed. Friedlein, p. 180).

Guido d'Arezzo (Micrologus, XIV) - che non utilizzava questa nomenclatura - adattò questo tópos nell'osservare che gli ascoltatori più esperti riconoscono le caratteristiche dei diversi toni, così come un uomo che ha viaggiato distingue facilmente un greco da uno spagnolo o un italiano da un tedesco. Su questa analogia presente nell'opera di Guido d'Arezzo si basava il principio dell'éthos dei modi, secondo cui la diversità dei toni corrispondeva a quella degli stati d'animo. Così come i sapori e gli odori potevano esercitare una certa influenza sulla salute dell'anima e del corpo, la musica poteva modificare gli stati d'animo e i comportamenti.

Nel complesso, la tradizione medievale si attenne strettamente a questi tópoi. L'Ethica Nicomachea o la Politica (Libro VIII) di Aristotele, così come alcuni dei Problemata pseudo-aristotelici, malgrado l'interesse suscitato per altri riguardi, non ebbero, in questo campo, nessuna influenza sul discorso musicale. A prescindere da questi testi, nonostante l'interesse rivolto nel XIV e nel XV sec. alla musica activa e alla sua utilità, alla fine del Medioevo i teorici non svilupparono nessuna ricerca sperimentale sugli effetti psichici e fisici della musica, così come non tentarono di dare una spiegazione razionale a questi fenomeni. A margine della musica, sia teorica che pratica, la 'musicografia' medievale accumulò soltanto un catalogo di immagini pittoresche, autorevoli ed esemplari, riprese dalla Bibbia o dagli scritti di autori antichi. Ci si potrebbe chiedere il motivo dell'oblio storico di tale questione; esso, probabilmente, dipende dal fatto che, in definitiva, il soggetto dell'ars musica non era il cantore o il musicista che si applica alla pratica musicale, ma la ragione del musicus.

La scienza della musica rimase così sostanzialmente estranea alle innovazioni intellettuali e ai dibattiti che animarono la comunità scientifica del XIII e del XIV secolo. A prescindere dall'evidente apporto della cultura scientifica aristotelica alla razionalizzazione della durata, l'impenetrabilità della musica speculativa, derivata dall'insegnamento di Boezio, è esemplare. L'interpretazione scolastica di Aristotele, invece di consentire nuove aperture, rafforzò, al contrario, la preminenza del sistema aritmetico-acustico pitagorico, prevalente nella teoria della musica fin dall'età carolingia.

I motivi di questa inerzia furono molti e dipendenti probabilmente dalla posizione, in fin dei conti di secondo piano, che era occupata dall'insegnamento della musica nelle università medievali. Questo fu certamente il caso di Parigi dove, fin dal 1255, il De institutione musica di Boezio non figurava più nel programma di insegnamento delle Facoltà delle arti. Anche se i commenti dei libri utilizzati nell'insegnamento della filosofia della Natura potevano richiamarsi, su questa o quella questione, agli elementi di teoria della musica, sembra che nel XIII sec. l'insegnamento dei principî musicali sia stato relegato in un corso elementare. Questo, almeno, è ciò che suggeriscono le rare testimonianze riguardanti la tradizione di insegnamento parigina. Essa comprendeva alcuni rudimenti di aritmetica boeziana, e precisamente: le cinque classi di rapporti tra i numeri (multipli, superparticolari, superpazienti e così via) e le regole pratiche di addizione e di sottrazione dei rapporti; il calcolo delle proporzioni aritmetiche delle tredici consonanze comprese tra l'unisono e l'ottava; le misure del monocordo; la notazione alfabetica delle altezze della scala dei suoni; l'analisi del sistema acustico per mezzo degli esacordi di solmisazione; uno studio sui principî delle mutazioni esacordali; infine, l'analisi secundum auditum degli intervalli. Non vi è alcun dubbio sul fatto che questo insegnamento non era destinato a formare futuri lettori di Boezio, ma a stabilire su basi razionali le conoscenze musicali pratiche necessarie ai bambini. Le questioni concernenti i principî del canto liturgico (le regole di intonazione della salmodia, il criterio di riconoscimento dei toni, ecc.) erano escluse da esso ed erano probabilmente discusse in occasione della recordatio dei canti liturgici.

L'inerzia della scienza della musica medievale e la resistenza alla cultura scientifica del suo tempo derivavano probabilmente anche dalla sua rigorosa coerenza e dalla sua autosufficienza. Il sistema eptatonico pitagorico e il grande sistema perfetto di Boezio si caratterizzavano per l'asimmetria, resa manifesta da diverse impossibilità strutturali: quella, per esempio, di dividere ciascun aspetto dell'ottava contemporaneamente secondo la proporzionalità aritmetica (quarta + quinta) e quella armonica (quinta + quarta); quella di dividere l'ottava in sei toni uguali (l'ottava è necessariamente composta da cinque toni e due semitoni disuguali); o, ancora, quella di dividere il tono (8:9) in due metà uguali, vale a dire, più in generale, di strutturare un dato intervallo in microintervalli di uguale valore. Questa asimmetria strutturale cui il Medioevo attribuiva probabilmente una certa perfezione - nel senso della perfezione legata alla ternarietà e cioè il fatto di essere necessariamente suddivisa in due metà disuguali - era, dopo tutto, perfettamente matematizzata e non presentava, dunque, nessuna fondamentale difficoltà. Inoltre, la realizzazione di questo sistema acustico sul monocordo convalidava sostanzialmente questo sistema e assicurava, d'altra parte, un fondamento razionale alla pratica musicale.

Tuttavia, quest'ultimo punto era anche il più fragile e rischiava di mettere in pericolo la coerenza dell'intero sistema. In effetti, l'adattamento del sistema acustico ad altri corpi sonori (le canne dell'organo, in particolare) supponeva una correzione delle proporzionalità. Il problema della commensurabilità delle misure acustiche del monocordo e delle canne d'organo, sottilmente discusso da Gerberto di Reims verso la fine del X sec., non fu, tuttavia, quasi mai affrontato nel Medioevo, e fu abbandonato alla perizia del fabbricante di organi. È uno dei punti oscuri della scienza della musica medievale. In compenso, l'evoluzione della polifonia e soprattutto lo sviluppo di un instrumentarium polifonico sempre più complesso provocarono nel tempo la disgregazione del sistema acustico pitagorico; sistema che, verso la fine del XV sec., con l'introduzione del temperamento a tono medio, decadde insieme all'edificio teorico che lo sosteneva. 

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