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venerdì 11 ottobre 2013

Il punto di vista Ortodosso sull'unità dei Cristiani

Dell’Archimandrita Placide Deseille

Estratto dalla rivista “Vjestnik Russkogo Hristianskogo Dvizenija”, n. 147, II – 1980, pp. 21-39; trad. A.S. in “Messaggero Ortodosso”, Roma, agosto-settembre 1986, n. 8-9, pp. 1-26.

1. Il concetto patristico dell’unità

Quando nel 1949 al congresso di Amsterdam fu costituito il Consiglio Ecumenico delle Chiese, l’arciprete G. Florovskij caratterizzò con le seguenti parole la posizione del teologo ortodosso in mezzo ai suoi colleghi che professavano un’altra fede: “Il teologo ortodosso può e deve rappresentare non solo l’attuale ‘Oriente’, quanto piuttosto l’antica cattolicità… Va da sé che l’antichità ha valore per quanto in essa ci fu d’integrale e di universale e non solo per la sua antichità. Nell’economia dell’ecumenismo l’ortodossia rappresenta il momento patristico”[1]. Naturalmente quest’integrità e sintesi di varie concezioni, proprie del rapporto delle prime generazioni cristiane nei confronti del Mistero della Chiesa, debbono essere adattate alle nuove necessità ed a situazioni senza precedenti. Tuttavia, fondandosi solo su di esse e cercando di non alterare nulla in esse, la Chiesa del nostro tempo troverà la via di una vivente fedeltà alla Tradizione.

Nella prospettiva dell’antica Chiesa il Mistero della Salvezza si presenta fondamentalmente come un’opera di riunificazione. In un testo scritto nello spirito e sotto l’influenza di san Basilio il Grande, si legge: “A questo si riduce tutta l’economia del Salvatore: riunificare la natura umana con se stessa e con Lui e farla finita con la sua rovinosa divisione per ristabilire l’unità iniziale”[2]. Quest’opera, realizzata una volta sola e per sempre con la morte e con la resurrezione del Signore, diventa nel tempo e nello spazio eredità di ogni persona umana per opera della celebrazione dell’Eucaristia. Poiché ogni Cristiano, morto al peccato e risorto con il Cristo per una nuova vita nel Battesimo, misteriosamente s’identifica con il Corpo del Cristo glorificato per opera del Santo Spirito, che lo riempie di sé, quando si comunica con il Corpo eucaristico, ne consegue che tutti i Cristiani diventano “compartecipi” del Corpo di Cristo[3]. Per quanto riguarda l’uomo, il “carbone ardente” del Corpo di Dio lo toglie dalla sua limitatezza individuale e, in modo paradossale, gli dà la pienezza della vita personale, grazie alla rinuncia di ingrandire la propria individualità, in comunione fraterna sul modello della Santissima Trinità.

Questo fondamento eucaristico dell’ecclesiologia è esposto splendidamente da san Cirillo d’Alessandria (†444) nel passo seguente del suo commento all’Evangelo di Giovanni: “Affinché noi si tenda all’unità con Dio e fra di noi ed affinché ci si unisca tra noi, sebbene ci manifestiamo diversi nell’anima e nel corpo, il Figlio Unigenito applicò un mezzo da lui scoperto nella sua propria sapienza e dal consiglio del Padre. Realmente, avendo santificato i fedeli con il mistero della Comunione in lui stesso, in un solo Corpo, il suo proprio, egli ci ha reso compartecipi di lui stesso e di noi stessi con gli altri. Chi può dividere e staccare da questa unione corporale coloro i quali sono legati al Cristo al punto che diventano una sola cosa con lui grazie a questo unico e santo Corpo? Giacché, se noi ci comunichiamo con questo unico pane, costituiamo un solo Corpo. Infatti il Cristo non può dividersi. Perciò la Chiesa si chiama anche il Corpo di Cristo e noi membra secondo il pensiero di Paolo[4]… Lo stesso Spirito, unico ed indivisibile, unisce le anime di tutti, senza alcun riguardo alle differenze di ciascuno, e fa che costituiscano un solo essere in Lui solo… Perciò Paolo dice: Sopportando l’un l’altro con l’amore, cerchiamo di conservare l’unità dello Spirito nel vincolo della pace. Un unico Corpo, un unico Spirito (…), un Dio e Padre di tutti che è sopra di tutti, attraverso tutti ed in tutti noi[5]”[6].

In questa prospettiva la Chiesa è innanzi tutto una Chiesa locale, cioè un gruppo di Cristiani, che si riuniscono in un solo luogo attorno al loro legittimo vescovo per celebrare l’Eucaristia. Una tale Chiesa non è una parte della Chiesa universale; ognuna realizza la pienezza del mistero della Chiesa e si identifica con la Chiesa universale; questa ultima è presente in tutta la sua pienezza in ogni luogo, in quanto nella sua fede essa rimane pienamente fedele a ciò che è stato tramandato dagli Apostoli[7]. Così si spiega che concetti quali “intercomunione” o “ospitalità eucaristica” fossero ignoti all’antica Chiesa, che in essi non avrebbe potuto vedere alcun senso. Essa conosceva solo la comunione o il rifiuto della stessa. Agli occhi dei Cristiani di quell’epoca ogni membro di una Chiesa locale, ad esempio in caso di viaggio, partecipava all’Eucaristia di un’altra Chiesa locale. Con ciò stesso testimoniava di riconoscere questa Chiesa identica alla sua ed alla Chiesa universale. Naturalmente potevano sussistere tra le Chiese differenze di opinioni, di usi o tradizioni su quei punti riguardo ai quali non s’era realizzato un consenso unanime e che erano ritenuti di secondaria importanza. Queste differenze non avevano alcun significato e soltanto “confermavano il consenso sulla fede” secondo l’espressione di sant’Ireneo di Lione[8]. Nessuna mancanza seria poteva obiettivamente essere di danno ad una Chiesa completamente fedele alla Tradizione Apostolica. Riferendosi proprio ad una questione di questo genere da lui ritenuta importante, ma non riguardante la fede in sé (l’invalidità del Battesimo degli eretici) san Cipriano di Cartagine (†258) disse: “Non giudicheremo nessuno per differenze d’opinione”[9].

Senza dubbio in tutte le fasi della storia della Chiesa sussistettero gruppi rigoristi, che impedivano la comunione con le altre Chiese per motivi secondari. Ma, come dimostra lo storico Socrate (†440 ca) in occasione dello scisma novaziano, coloro che vi aderivano normalmente cominciavano subito a dividersi tra loro e formare nuovi piccoli gruppi dimostrando in tal modo che per loro gli interessi di gruppo avevano maggior importanza dell’amore per l’unità della Chiesa[10].

Noi vediamo come fosse importante, allorché si manifestavano divergenze tra le Chiese, soppesarle attentamente. Se si trattava di questioni di non grande importanza o di tradizioni, sebbene diverse ma autentiche, la conservazione o il ristabilimento della comunione era necessario né una delle parti poteva pretendere di costringere l’altra ad aderire al suo punto di vista minacciando la rottura della comunione. Se invece si trattava di questioni riguardanti la sostanza della Fede e la Tradizione apostolica, finché sussistevano divergenze, la divisione assumeva un carattere doloroso, ma era anche un’esigenza assolutamente necessaria non solo per amore della verità, ma anche per un autentico amore verso Dio ed il prossimo. Agli occhi dei Padri il contenuto della Fede era indivisibile. Non si poteva discutere su “punti essenziali”, “kerigmatici” ed argomenti di minore importanza, “Come sulle monete degli imperatori, se si modifica anche poco ciò che vi è impresso, tutta la moneta diventa falsa, così anche colui che ammette che la sua fede sia danneggiata anche in minima parte, la respinge completamente e si mette su un sentiero inclinato. Dov’è colui che mi accusava di amare le polemiche a causa dei nostri contrasti con gli eretici? Dove sono ora coloro che non ammettevano alcuna differenza tra noi e loro e ritenevano che tutto si riducesse a questioni di amor proprio? Che ascoltino Paolo il quale annuncia che si distrugge l’Evangelo con l’introduzione di novità di ogni genere, anche se di poco conto[11]”[12].

Conformemente a questo punto di vista, che è rimasto quello della Chiesa Ortodossa, la Chiesa universale è composta da tutte le Chiese locali che si trovano in comunione tra loro. Essa, ci dicono i Padri, è l’unica arca della salvezza, data da Dio agli uomini per offrire loro la possibilità di evitare condanne; è l’unica fidanzata del Cristo, è la madre spirituale, la quale sola per mezzo del Battesimo può generare i figli ad una nuova vita e renderli figli adottivi di Dio. Essendo il Corpo del Cristo, essa è l’unico luogo in cui gli uomini realmente si uniscono a Dio e tra loro grazie all’opera santificante dello Spirito. Significa ciò che nessun uomo può salvarsi ed essere santificato al di fuori della appartenenza formale alla Chiesa visibile? Nei Padri si trovano accenni che indicano che essi conoscono la libertà del Santo Spirito riguardo ai suoi doni e che Egli può comunicarli al di fuori delle vie normali della salvezza là dove trova una corrispondente disposizione del cuore. “Molti tra coloro che sono fuori di noi, ci appartengono, coloro il cui carattere anticipa la fede ed ai quali manca solo il nome, in quanto sono in possesso della realtà stessa”[13], scrive san Gregorio il Teologo (†390). Egli non ha alcuna incertezza nell’includere nel numero di tali persone il proprio padre. E di sua sorella scrive: “Tutta la sua vita fu una purificazione ed un perfezionamento”[14]. Tuttavia i Padri non conoscono la dottrina di un’appartenenza invisibile alla Chiesa, la quale di per sé è visibile. Su ciò non ci sono precise indicazioni nelle fonti storiche.

La comunione tra le Chiese locali si manifesta sul piano sacramentale, nella chirotonia (ordinazione n.d.r.) collegiale dei vescovi ed allorché si tratta di decidere su questioni di fede e disciplina, nei concili dei vescovi. Questi concili possono essere locali ed ecumenici. L’autentico concilio è un’assemblea di vescovi, fedeli al Santo Spirito, che con la loro autorità proclamano la vera fede della Chiesa, per cui l’unico riconoscimento di questa autenticità, dal punto di vista ortodosso, è il successivo accoglimento delle decisioni di un concilio da parte di tutta la Chiesa[15]. Nei rapporti regionali o in un ambito ecumenico alcune cattedre vescovili ricevettero nella storia della Chiesa un primato (arcivescovati, patriarcati). Questa struttura della Chiesa si manifesta come realtà talmente generale e stabile nel tempo e nello spazio, che non la si può ritenere un fenomeno causale e puramente umano. In essa si deve vedere la guida del Santo Spirito, cioè un elemento della Tradizione. Tuttavia il concetto di primato, come fu accolto da tutto l’insieme della Chiesa, non indicò mai nulla al di fuori di un primato tra pari. Coloro che godevano del primato non potevano estendere la loro autorità al di là dei confini della propria diocesi oltre a quella misura in cui veniva loro riconosciuta dagli altri vescovi, per cui si fondava su una dipendenza reciproca. Assai presto i papi di Roma cominciarono a pretendere una giurisdizione di un particolare carattere ecclesiologico, cioè in base ad un diritto divino su tutta la Chiesa universale. Tuttavia questa giurisdizione fu riconosciuta a loro solo gradualmente ed esclusivamente entro i limiti abbastanza ristretti, nei quali si realizzava l’immediata autorità dei papi, cioè nel patriarcato romano. Ma fino alla divisione del secolo XI il papa aveva di fronte a sé quattro altri patriarchi, che su queste questioni tenevano un atteggiamento completamente diverso.

2. La Chiesa ortodossa ed il movimento ecumenico

Al di fuori di alcune alterazioni, dovute a circostanze storiche ed ai peccati umani, l’ecclesiologia ortodossa è rimasta fondamentalmente quella della Chiesa antica. La Chiesa ortodossa ha la consapevolezza di essere la continuazione dell’antica Chiesa senza la minima interruzione ed ha anche la consapevolezza di essere la Chiesa di Dio. Le altre confessioni cristiane possono essere da essa considerate soltanto come membra staccatesi dall’unità ecclesiale, che essa conserva in tutta la sua pienezza. Come principio il contenuto della Tradizione è quello che antecedentemente al periodo delle divisioni tutti i Cristiani ritenevano essere proprio della successione apostolica sia per quanto riguarda la fede che la vita ecclesiale. Dal punto di vista ortodosso l’unità tra i gruppi cristiani divisi tra loro si può conseguire solo con il ritorno alla comune ed universale tradizione della Chiesa, a quello cioè che era accolto come dogma di fede si trasformava in vita come comune fondamento della Chiesa perché accolto “semper, ubique et ab omnibus” nel corso del millennio che precedette la divisione con l’Occidente, senza aggiungere né togliere alcunché a questa Tradizione[16]. Entrando nella pienezza della Tradizione ogni comunità, con ciò stesso, risulterebbe in unità con la Chiesa universale.

Pertanto, in accordo con questa ecclesiologia patristica ed ortodossa, l’unità visibile della Chiesa è stata data da Dio e rimarrà immutabile sino alla seconda venuta del Signore. Se non si considerano circoli ecumenici cattolici, nel movimento ecumenico prevale un’ecclesiologia d’origine protestante, che parte da premesse completamente diverse. La sua fondamentale convinzione consiste nel fatto che non è concessa l’unità visibile della Chiesa, che bisogna sperare di raggiungerla e che si deve costruirla nell’obbedienza unanime al Santo Spirito. Nessuna Chiesa empirica può identificarsi con la Chiesa di Dio. Quest’ultima ha una reale unità, tuttavia invisibile per le divisioni di fatto. Il fine del movimento ecumenico consiste nel manifestare gradualmente questa unità invisibile per mezzo di un’unità visibile, che contiene la fede comune e le verità ritenute fondamentali e che pratica l’intercomunione sacramentale e riconosce il sacerdozio. In questa concezione le differenze istituzionali e dogmatiche possono essere molto profonde.

È evidente che questa concezione può apparire agli Ortodossi solo come una somma di eresie per cui non si può parlare di alcun cedimento di fronte ad essa. In quanto il Consiglio Ecumenico delle Chiese fu fondato da persone, le quali, con tutta la loro buona volontà, non potevano rinunciare alle loro premesse religiose, i delegati ortodossi debbono inevitabilmente sentirsi in una posizione falsa. Questa situazione s’è un po’ schiarita dopo la sessione del comitato centrale riunitosi a Toronto nel 1950. in questa circostanza fu precisato che “l’appartenenza al Consiglio Ecumenico delle Chiese non presuppone che ogni Chiesa debba considerare le altre come Chiese nel pieno significato della parola”. Tuttavia proprio la struttura del C. E. C. costringe inevitabilmente le Chiese ortodosse a figurarvi come “confessioni” o “denominazioni” tra le altre. In questa situazione si può evitare ogni confusione solo se si confermano chiaramente le proprie convinzioni e la propria autonomia.

Nondimeno, già dalla fondazione del C. E. C. l’arciprete Georgij Florovskij, nel testo sopra citato, giustificò la partecipazione ortodossa e ne definì l’unico significato accettabile. “Io ritengo che questa partecipazione sia non solo lecita o possibile per gli Ortodossi, ma anzi vedo in essa l’obbligo immediato della vera Chiesa che incessantemente testimonia dappertutto, nelle sinagoghe, davanti agli imperatori ed i principi. Come crederanno se non ascolteranno? E come ascolteranno se non si predicherà? Queste parole apostoliche sono in questo caso pienamente adatte. Vedo la partecipazione ortodossa al movimento ecumenico nella linea dell’attività missionaria. La Chiesa ortodossa è chiamata a partecipare allo scambio ecumenico di opinioni, poiché essa sa di essere la custode della fede apostolica e della Tradizione in tutta la loro integrità e pienezza, per cui essa è la vera Chiesa; poiché essa possiede, e lo sa, il tesoro della Grazia per mezzo dell’ininterrotto sacerdozio e la successione apostolica, perché, infine, essa in tal modo pretende di occupare un posto particolare tra il Cristianesimo diviso. L’Ortodossia è la verità cattolica, la verità per tutto il mondo, per tutti i tempi e per tutti i popoli. Ecco, per queste ragioni la Chiesa ortodossa è chiamata ed è obbligata a testimoniare la verità del Cristo sempre e dappertutto, davanti a tutto il mondo”[17].

Nel 1970 il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa d’America pubblicò la celebre “Lettera sull’unità dei Cristiani e l’ecumenismo”[18]. Il suo scopo consisteva nel “formulare di nuovo la posizione che fu sempre quella della Chiesa ortodossa e che, sfortunatamente, addirittura alcuni tra i nostri fratelli ortodossi non sanno o hanno dimenticato”. Il Sinodo dichiara: “Cari ed amati fratelli e sorelle è nostro dovere, in quanto vescovi della Chiesa e custodi della fede apostolica, confessare che la Chiesa ortodossa è l’unica Chiesa del Cristo… Questa premessa fondamentale della Chiesa ortodossa è stata sempre il fondamento dei rappresentanti ortodossi nel movimento ecumenico”. La lettera successivamente mette in guardia da tre pericoli, che minacciano il movimento ecumenico e possono provocare la crisi: il relativismo, che respinge lo stesso principio dell’unicità della Chiesa e del valore assoluto della sua Tradizione; il secolarismo, secondo il quale l’unità consiste nell’edificazione di un nuovo mondo migliore per mezzo dell’attività politica, sociale ed economica; ed i mezzi falsi per inseguire l’unità. Su quest’ultimo punto vi si legge: “Noi respingiamo categoricamente l’uso della comunione eucaristica e dell’intercomunione, intesi come mezzi per realizzare l’unità cristiana. In accordo con la fede ortodossa, i sacramenti e la vita liturgica della Chiesa, e particolarmente la Santa Eucaristia, non possono essere staccati dall’essenza stessa della Chiesa e la loro stessa esistenza ha per fine di esprimere questa essenza. I sacramenti non sono simboli della pietà psicologica. Essi sono l’essenza stessa della Chiesa in quanto Regno di Dio sulla terra. Non ci può essere comunione sacramentale o concelebrazione liturgica al di fuori dell’unità della fede nell’unica Chiesa del Cristo, la quale è indivisibile”. A ciò si aggiunge: “L’ufficiatura che comprende l’attiva partecipazione del clero e dei fedeli di varie confessioni, contraddice ai canoni della Chiesa ortodossa. Siffatte ufficiature possono solo provocare confusione, causare scandali e favorire un falso concetto della fede cristiana e della natura di quell’unità che Dio ha dato agli uomini nella sua Chiesa…In conformità con la fede ortodossa una siffatta ufficiatura è, oltretutto, una falsa presentazione degli uomini davanti al trono divino”.

In occasione del venticinquesimo anniversario del C. E. C. il patriarcato ecumenico e quello di Mosca hanno inviato al comitato centrale del C. E. C. lettere nelle quali pure essi mettevano in guardia contro questo “orizzontalismo” e “secolarismo” che minacciano[19].

Naturalmente è difficile determinare quale peso abbia avuto la testimonianza ortodossa nel C. E. C. Testi quali il documento sul Battesimo, sull’Eucaristia e sul Sacerdozio (Lima, 1982) testimoniano una nuova consapevolezza dei dati della Tradizione apostolica. Verosimilmente il contributo ortodosso a questo documento è estraneo. Alcuni pensieri contenuti in questo testo presentano un grande interesse e se essi fossero accolti con maggiore o minore unanimità da quelle confessioni alle quali il testo si rivolge, ciò sarebbe un grande passo innanzi. Tuttavia bisogna dire con assoluta chiarezza che la Chiesa ortodossa può riconoscere in questo documento solo una parziale e limitata espressione della Tradizione ecclesiale, di cui essa stessa vive. Essa non potrebbe accogliere alcune premesse che accompagnano questo testo senza staccarsi da questa tradizione.

D’altra parte la necessità di essere testimoni di questa Tradizione dovrebbe spingere gli stessi ortodossi ad una più piena fedeltà ad essa. Se quanto in essa vi è di fondamentale è pienamente conservato dalla Chiesa, tuttavia l’autentica Tradizione o è ignorata in molti punti o è alterata. Citiamo a mo’ di esempio, il danno che causano gli atteggiamenti nazionalistici e gli interessi particolari nella diaspora. Naturalmente queste alterazioni spesso sono conseguenze di difficoltà particolari e di condizioni storiche (ad es. la rivoluzione russa o i secoli di dominio turco in Grecia e nei Balcani) e per la loro guarigione sono necessarie molta pazienza e prudenza. Tuttavia in primo luogo ci si deve dare cura di conservare l’unità ortodossa e non rinnovare iniziative quali la sfortunata riforma del calendario. Nessuna riforma, nessun mutamento, sia pur giustificato teoricamente, che non possono essere accolti unanimemente o quasi unanimemente dal popolo ortodosso, non procede dallo Spirito di Dio. Attualmente il Patriarcato ecumenico presta molta attenzione a questo aspetto della situazione.

3. Il dialogo con la Chiesa romano-cattolica

Il dialogo, iniziato dalla Chiesa ortodossa con quella romano-cattolica, ha un carattere completamente diverso da quello che essa può condurre con le confessioni nate dalla Riforma. Effettivamente sia la Chiesa romana che quella ortodossa professano che la Chiesa del Cristo è soltanto una e che questa visibile unità è stata già realizzata. Nella maggior parte della dogmatica le loro posizioni sono identiche, anche se presentano una luce particolare, il che in parte dipende dall’influenza generale di quei punti in cui divergono. Questa armonia tra le due Chiese, che è sottolineata in primo luogo nel loro dialogo, dovrebbe avere un peso enorme nel movimento ecumenico. Da un punto di vista numerico esse rappresentano attualmente la maggioranza dei Cristiani e, ciò è di particolare importanza, esse testimoniano in tal modo quale fosse l’unanime fede dei Cristiani prima che cominciassero le divisioni tra loro. Purtroppo la forza di questa testimonianza perde molto peso a causa della cattiva distribuzione nel C. E. C. (al quale la Chiesa romano-cattolica non partecipa per ragioni ben comprensibili).

Tuttavia queste Chiese da più di 900 anni non sono in comunione l’una con l’altra e ciascuna, da parte sua, ha la consapevolezza di essere l’unica Chiesa di Dio. Il riavvicinamento iniziatosi con gli incontri del papa Paolo VI con il Patriarca Atenagora nel 1967 e che nel 1979 ha assunto forma di un dialogo teologico, ha per suo fine il superamento di questa contraddizione, il ristabilimento della comunione sacramentale tra queste due Chiese e il graduale riconoscimento reciproco di Chiese sorelle, cioè di gruppi di Chiese locali che hanno ognuna le proprie tradizioni, ma che costituiscono assieme l’unica Chiesa di Dio.

Questo progetto ecumenico fu formulato dal cardinale Willebrands con le seguenti parole: “Le nostre Chiese, avendo ricevuto una sola fede, per vie e modi diversi hanno sviluppato quest’eredità cristiana. L’eredità trasmessa dagli Apostoli fu accolta diversamente e fu interpretata diversamente dall’inizio stesso della Chiesa a causa delle differenze spirituali e delle condizioni di vita[20]. Queste differenze ed evoluzioni s’incontrano in tutte le sfere della vita della Chiesa, nella tradizione liturgica e spirituale, nella disciplina, nella maniera di esprimersi e nella struttura della concezione dei misteri della fede… In queste prospettive deve svolgersi il nostro lavoro per raggiungere la completa comunione nella fede pur rispettando la necessaria molteplicità e varietà nell’espressione dell’infinita ricchezza di Dio e dei suoi doni”[21].

Tuttavia la realizzazione di questo programma urta con concrete non piccole difficoltà. Il Patriarca Demetrio senza alcuna incertezza parla di “seri problemi teologici, che concernono i punti fondamentali della fede cristiana”[22], che ancora impediscono la comunione completa tra le due Chiese. Quali sono queste difficoltà e con quali mezzi si può sperare di superarle?

Le più gravi difficoltà sono nell’ambito dell’ecclesiologia e della dottrina sulla Trinità. Su questi due punti di capitale importanza la Chiesa latina ha ammesso uno sviluppo della dottrina, che non fu mai accettato dalle altre Chiese che lo considerano un’alterazione della Tradizione apostolica.

L’ecclesiologia romana vede nel primato del Papa di Roma il principio fondamentale dell’unità della Chiesa. Esprimendosi con piena libertà davanti all’assemblea dei cardinali, Paolo VI nel suo discorso concistoriale del 24 maggio 1976 senz’alcuna incertezza dichiarò: “Non essere in comunione con il successore di Pietro significa mettersi fuori della Chiesa”. Una simile concezione è il risultato di quella evoluzione che si delineava a Roma in ogni modo già nel IV secolo, ma che, come abbiamo già detto, non fu mai accettata dalle Chiese non latine. Questa evoluzione dell’ecclesiologia contribuì senza dubbio all’estraniarsi della Chiesa latina da un lato e delle altre Chiese dall’altro. Così si formò l’atmosfera che rese inevitabile la rottura dell’XI secolo.

Nel XIX secolo il I concilio Vaticano definitivamente consolidò questa teoria che già si era evoluta, definendo il primato per diritto divino della giurisdizione papale sulla Chiesa universale e l’infallibilità papale nella definizione dei dogmi. La Chiesa ortodossa riconoscerebbe al papa senza difficoltà, qualora si ricostituisse l’unità, la funzione di “primus inter pares”, che era accettata generalmente nell’antica Chiesa. Ma essa non accetterà il dogma del I concilio Vaticano, che ha un significato del tutto diverso. Poco tempo dopo la sua elezione il Patriarca Demetrio dichiarò: “Nella veste di Patriarca ecumenico desideriamo sottolineare che nel futuro tutti gli incontri panortodossi e pancattolici, tutti i dialoghi e tutte le consultazioni dovranno avere per fondamento i seguenti principi:

1. La suprema autorità nella Chiesa santa, cattolica (sobornaja) ed apostolica spetta ad un concilio ecumenico comprendente tutta la Chiesa.

2. Nessuno di noi, vescovi della Chiesa cattolica (sobornaja) ha ricevuto autorità, privilegi e diritti, attribuitigli secondo i canoni, ad alcuna giurisdizione sulla Chiesa, senza la volontà e l’accordo canonico dell’altra”[23].

La dottrina romano-cattolica sulla Santissima Trinità in gran parte deriva dall’insegnamento del Beato Agostino (†430), il quale nel corso di alcuni secoli, divenne la principale autorità patristica nella Chiesa latina. Ma Agostino, pur essendo un geniale pensatore, si dimostrò in quest’ambito un innovatore, così che si può dire che “lo storico della dogmatica, il quale dopo le opere dei Padri del IV secolo passa a quelle di Agostino, constata che la linea di rottura nella sintesi della dottrina trinitaria non passa tra Agostino e noi, ma tra lui ed i suoi immediati predecessori”[24]. La Chiesa ortodossa, che ha un atteggiamento più negativo riguardo alla stessa idea dello sviluppo dei dogmi, non ne nega tuttavia la possibilità. Ma criterio dell’autenticità di questo sviluppo può essere solo il suo accoglimento da parte della Chiesa universale. Mai, alcuna opinione di un singolo Dottore o la Tradizione di una Chiesa locale può acquistare una simile autorità. Ma in questo caso ci troviamo di nuovo davanti ad un’evoluzione tipica dell’Occidente latino, che nell’XI secolo portò Roma alla introduzione del “Filioque” nel Simbolo Niceno-Costantinopolitano e qualche tempo dopo, nei concili medioevali, alla definizione secondo cui il Santo Spirito procede dal Padre e dal Figlio come da un solo principio. Questa definizione fu accompagnata dai seguenti anatemi, non ancora abrogati: “La santa Chiesa Romana condanna, respinge ed anatematizza chiunque abbia un’opinione diversa o opposta e lo dichiara estraneo al Corpo di Cristo, cioè alla Chiesa”[25].

Come il primato romano, così pure il “Filioque” può essere interpretato da un punto di vista ortodosso, come è testimoniato da san Massimo il Confessore (†666). Ciò permise, al prezzo di un’ambiguità, di conservare la comunione con Roma per alcuni secoli senza tenere conto della diffusione di questa dottrina nella Chiesa latina. Tuttavia il “Filioque” fu definito dalla Chiesa romana come un dogma di fede non nel significato di questa interpretazione. All’opposto i concili medioevali lo definiscono in maniera assolutamente non ambigua nell’accezione che fu sempre considerata non accettabile ai rappresentanti della Chiesa ortodossa. Come il santo patriarca Fozio, i patriarchi di Costantinopoli, Antiochia e Gerusalemme nell’Enciclica del 1848 chiamano eresia questa dottrina. E recentemente il patriarca Demetrio I, nell’enciclica del 1981, dichiarò che il “Filioque” è “assolutamente inaccettabile e deve essere respinto”[26].

È evidente quanto siano gravi le difficoltà. Almeno su due importantissimi punti dottrinali la Chiesa ortodossa respinge, in quanto in contraddizione con la Tradizione, la dottrina che la Chiesa romano-cattolica ha solennemente definito come fondamentale verità di fede.

È possibile una via d’uscita da tali contrasti? Il primo tentativo, fatto da alcuni ecumenisti cattolici, consiste nel non considerare ecumenici i concili occidentali, tenutisi dopo la divisione delle due Chiese e considerare le loro decisioni, anche quelle dogmatiche, tradizioni proprie della Chiesa latina e non obbligatorie per le altre Chiese. In tal modo potrebbe essere ristabilita la pienezza della comunione senza che siano imposti agli Ortodossi i dogmi del I concilio Vaticano, il “Filioque” ed altre tradizioni puramente latine. Con tali premesse la via dell’unità, verosimilmente, sarebbe assai facilitata. Ma questa premessa è stata energicamente respinta dal Cardinale Josef Ratzinger, il quale la ritiene inaccettabile dal punto di vista cattolico. E realmente ciò significherebbe che la Chiesa romana rinuncia al suo convincimento che dall’XI secolo essa si considera Chiesa universale, ed in pratica riconoscerebbe d’essersi sbagliata proclamando come verità di fede ciò che in realtà non è che una parziale tradizione. “Ciò che si presentava come verità, risulterebbe un semplice uso. La pretesa della verità sarebbe dichiarata un abuso”[27].

Secondo il padre I. Congar in realtà non sarebbe necessario che una delle parti cessasse di ritenere dogma ciò che la sua tradizione ha definito come tale; “nell’atmosfera attuale e secondo la grazia” risulterebbe “possibile riconoscere l’equivalenza e l’unità delle intenzioni e con ciò stesso anche del senso e delle affermazioni, in una parola l’-omonoia- dei diversi procedimenti ed espressioni”[28], che tuttavia sono in reciproca contraddizione. Tuttavia è dubbio che un siffatto pluralismo dogmatico, che relativizza pericolosamente la professione di fede ed è strano sulla bocca dei teologi di tradizione tomistica, possa essere accettato da entrambe le Chiese.

Un’altra via si propone nel testo elaborato nella cornice del dialogo tra Cattolici e Protestanti, che potrebbe risultare particolarmente accettabile nell’ambito del dialogo tra Cattolici ed Ortodossi. Questo documento si fonda sulla teoria dello sviluppo del dogma, particolarmente apprezzato dalla Chiesa romana: “Le Chiese, il cui contenuto della fede è espresso in una formulazione più ampia, non debbono a priori considerare che le altre Chiese, le quali meno esplicitamente esprimono la loro tradizione di fede, consapevolmente o per un calcolo non onesto distruggano i fondamenti della pienezza della tradizione cristiana. Esse debbono mostrare fiducia riguardo a ciò che si presuppone ed a ciò che è frutto dell’esperienza. Evidentemente a loro volta le Chiese, che esprimono brevemente la loro dottrina e la loro vita sacramentale, debbono astenersi dall’accusare a priori le altre Chiese, che fanno uso di una formulazione della fede e di un rituale più ampio, di macchiare la purezza della fede per mezzo di aggiunte casuali o parassite. Esse debbono non respingere, ma lasciare aperto il problema… Dopo la riconciliazione esse cresceranno assieme nella pienezza della verità”[29]. In tal modo si potrebbe ritenere che non professando il “Filioque” o l’infallibilità ed il primato del papa per diritto divino, la Chiesa ortodossa non contraddirebbe ai dogmi romani, ma si troverebbe in uno stadio meno evoluto della fede. Il cardinale Ratzinger sembra favorevole ad una soluzione di questo genere. “Per la comunione con gli Ortodossi la Chiesa romana non deve necessariamente insistere sui dogmi da essa accettati nel secondo millennio. Si può ritenere che le Chiese orientali siano rimaste nella tradizione del primo millennio, la quale per sé è legittima e, intesa rettamente, non contiene contraddizioni con una evoluzione posteriore. Quest’ultima ha solo precisato ciò che per principio già esisteva all’epoca della Chiesa unita. Io ho preso parte a tali tentativi di discussione”[30]. Ma un siffatto progetto troverebbe una aspra opposizione da parte Ortodossa. In realtà, entrare nella comunione sacramentale con una Chiesa, che professa questo o quel dogma, significa accettare questo dogma, anche se non si esige che lo si professi esplicitamente. Inoltre accetterebbero le Chiese ortodosse di essere trattate come non mature dal punto di vista della fede?

La Chiesa Ortodossa e la vita ecclesiale (cerkovnost’) della Chiesa Romano-Cattolica

Perché il dialogo sia chiaro, sarà bene precisare che nella Chiesa ortodossa il concetto di vita ecclesiale riguardo alle altre comunità cristiane, che non sono con essa in comunione, è diverso da quello della Chiesa romana. Per i Romano-Cattolici la vita ecclesiale delle Chiese divise da quella romana è reale, ma non completa. Essa è reale nel senso che i sacramenti, in particolare il Battesimo, celebrati in esse sono pienamente validi. In particolare la Chiesa ortodossa, per i Romano-Cattolici, è in possesso della maggior parte dei mezzi della salvezza istituiti dal Cristo. Ad essa manca quel fondamentale mezzo della salvezza che è il primato universale della giurisdizione del Papa, fondamento e complemento dell’ecclesiologia romana. Siccome la vita ecclesiale delle Chiese ortodosse in tal modo non è completa e queste Chiese non danno ai loro figli la pienezza dei mezzi istituiti dal Cristo per la salvezza, questo fatto giustifica, dal punto di vista romano-cattolico, la formazione nei paesi ortodossi delle Chiese uniate e di una gerarchia latina. Nondimeno, in quanto la maggioranza degli Ortodossi, in rapporto alla loro particolare situazione storico-culturale, si trova in condizione d’ignoranza (o di non comprensione) del dogma romano del primato e degli altri dogmi stabiliti dopo il distacco della Chiesa romana, per cui questa ignoranza è involontaria e di conseguenza non colpevole, tale assenza in essi dei mezzi di salvezza non li priva tuttavia della grazia dello Spirito Santo, sebbene, dal punto di vista romano-cattolico, produca loro una quantità di mali.

In relazione a questa concezione la Chiesa romana basa i suoi sforzi ecumenici fondamentalmente sul reciproco riconoscimento della validità del Battesimo ricevuto da tutti i Cristiani. Il Battesimo si riconosce sempre e pienamente valido anche nei gruppi eretici o scismatici a condizione che il rito con cui è amministrato sia in accordo con l’intenzione della Chiesa (anche se colui che amministra il Battesimo non è battezzato o sia non credente). Da ciò deriva, secondo la classica teologia romana, che ogni battezzato giuridicamente è sottoposto alla giurisdizione del Papa. I teologi romano-cattolici a noi contemporanei esprimono questa stessa dottrina, ma in termini più flessibili. Essi sostengono che il Battesimo, ricevuto in una comunità non unita a Roma, avvia il battezzato alla pienezza dell’unità visibile della Chiesa e fa nascere in lui la dinamica che muove in questa direzione. La pienezza dell’unità visibile presuppone di fatto il riconoscimento della giurisdizione universale del Papa.

D’altra parte, nei suoi rapporti con la Chiesa ortodossa, la Chiesa romana ha la tendenza di minimizzare la gravità delle differenze che la dividono dall’ortodossia. Esse sono interpretate come manifestazioni diverse della fede, che non distruggono la “fondamentale appartenenza al suo cuore”, oppure si considerano come formule che corrispondono a diversi stadi del “progresso dottrinale”, come è stato già detto.

La posizione della Chiesa ortodossa su questo punto è diversa. Essa sostanzialmente è rimasta quella dell’antica tradizione che il p. I. Congar caratterizza con le seguenti parole: “L’antico Cristianesimo rifiutava sempre il nome di ‘Chiesa’ nei riguardi delle comunità che s’erano staccate dall’unica Chiesa visibile, che è anche ‘cattolica’, cioè autentica ed ortodossa, quella che il Simbolo niceno-costantinopolitano chiama una, santa, cattolica (sobornaja) ed apostolica. Perciò le comunità, che si sono staccate dall’unità, ricevevano varie denominazioni, con esclusione del termine ‘Chiesa’, a meno che questo termine si usasse nel suo significato empirico di assemblea…”[31].

Bisogna dire che la Chiesa ortodossa riconosce alle comunità eterodosse solo una vita ecclesiale “potenziale”, la quale si attualizza solo attraverso il reale ingresso di queste comunità nella sua comunione. Questa vita ecclesiale potenziale si misura secondo la quantità degli elementi della tradizione autentica, che si sono conservati materialmente in queste comunità, senza considerare le maggiori o minori alterazioni di quella che era stata la comune fede e tradizione. Nei rapporti con la Chiesa Romana tali elementi di una potenziale vita ecclesiale sono i dogmi, i quali sono rimasti comuni (sebbene non sempre siano interpretati nello stesso modo), la struttura episcopale della Chiesa, la successione apostolica storicamente conservata e la dottrina dei sette sacramenti.

Affinché questa vita ecclesiale materiale e potenziale divenga di nuovo reale ed efficace, condizione ne è la completa professione della fede ortodossa, senza aggiunte o omissioni, ed il ritorno alle autentiche tradizioni della Chiesa nella pratica dei sacramenti e della disciplina. Questa fedeltà alla tradizione non presuppone una rigida uniformità tra le Chiese locali, ma esige che ogni grave dissenso sia presentato ad un giudizio conciliare, affinché tutte le Chiese locali reciprocamente riconoscano una nell’altra la Chiesa del Cristo. Perciò ognuna di esse deve essere pronta a rinunciare a ciò che ad essa sembra legittimo ed utile, se ciò rischia di essere pietra di scandalo alle altre Chiese che professano la stessa fede ortodossa.

Se ci rivolgiamo alle fonti canoniche (ad esempio al “Pidalion”, raccolta canonica ufficiale delle Chiese greche), importante conseguenza di questo concetto ortodosso della vita ecclesiale risulta il non riconoscimento dei sacramenti ricevuti nelle comunità eterodosse. Secondo il diritto e la severità dei canoni ai membri di queste comunità, che entrano a far parte della Chiesa, deve essere amministrato il Battesimo. Tuttavia se questo fu amministrato secondo le regole nelle precedenti comunità, che si attengono a questo riguardo ad un principio teologico, può essere sufficiente, sulla base dell’economia pastorale, limitarsi a completare ed a confermare questo Battesimo con l’unzione con il Chrisma o addirittura con qualche altro rito di accoglimento nella Chiesa. Quest’ultima è effettivamente il “Sacramento dei Sacramenti” e può completare ogni difetto.

Fondamento per questo atteggiamento è il 46° canone apostolico, che dice: “Ordiniamo di deporre il vescovo o il presbitero che accolgono il Battesimo o il Sacrificio degli eretici”. Questi canoni apostolici, confermati dal VI Concilio ecumenico (seconda sessione, il Trullano), costituiscono la base dei canoni ortodossi. La prassi dell’economia nei casi in cui si dimostra desiderabile, si fonda sul I canone di san Basilio il Grande.

La dottrina ortodossa a questo riguardo è molto ben nota ai teologi romano-cattolici. Così, ad esempio, scrive padre I. Congar: “I teologi ortodossi, ad eccezione di alcuni,… sono rimasti fermi alla comune affermazione che i Sacramenti esistono realmente nell’unica Chiesa… Quest’atteggiamento… è evidentemente vicino alla posizione comune e riflette il fondamento tradizionale del pensiero ortodosso”[32]. Il padre Wenger, altro specialista cattolico nei problemi ecumenici, scrive: “La Chiesa ortodossa, come regola generale, considera non valido ogni Sacramento ricevuto fuori dell’Ortodossia… Per questa severità dei canoni (conforme all’akrivìa) ogni sacramento ricevuto fuori della Chiesa, non è valido… La differenza tra la severità e l’economia si trova già nelle regole di san Basilio sul Battesimo. La teologia ortodossa rimane ferma tenacemente su questi principi”[33].

È assolutamente irreale vedere, come fa mons. Dumont, “diverse esperienze sacramentali” che presuppongono “diverse teologie” nel fatto che le Chiese ortodosse accolgono gli eretici a volte con il Battesimo, altre volte amministrando loro l’unzione con il Chrisma o infine esigendo da loro la professione di fede[34]. In realtà l’akrivìa e l’economia non sono assolutamente in contrasto tra loro ed i vari riti canonici d’accoglimento nella Chiesa si praticano sia contemporaneamente, sia coerentemente dalle medesime Chiese locali e spesso dalle stesse persone.

È vero, già nel III secolo i papi di Roma assunsero una posizione antitetica, che fu confermata dal beato Agostino con il peso della sua autorità teologica in Occidente. Questa divergenza non portò alla rottura della comunione. San Cipriano di Cartagine, come s’è già visto, insiste sul mantenimento della comunione a prescindere da questa divergenza. Perciò si possono trovare anche teologi ortodossi i quali professano la dottrina romana ed agostiniana sull’efficacia dei sacramenti degli eterodossi. Ma sarebbe assolutamente inutile aspettarsi che nella Chiesa ortodossa si verifichi uno “sviluppo” che permetta di riconoscere definitivamente confermato il riconoscimento dei sacramenti degli eterodossi. Il fatto che nel corso di tutta la storia della chiesa non ci sia stata unanimità a questo proposito, rende questo sviluppo del tutto “ipotetico”; esso sarebbe oggetto di una revisione e potrebbe considerarsi solo come un’opinione personale di un certo numero di teologi e gerarchi o come una tendenza dominante in questi o quei circoli, in una o in un’altra epoca.

Per il proseguimento del dialogo questo fatto è meno carico di conseguenze di quanto possano temere gli ecumenisti cattolici. In realtà, se fosse ristabilita l’unanimità della fede, questo problema per sé verrebbe meno. Ma finché non c’è unanimità, la comunione sacramentale rimane impossibile.

Da quanto s’è detto si deve concludere che come punto di partenza per il dialogo non si può prendere il “reciproco riconoscimento del solo Battesimo” e che ai teologi ortodossi, che coerentemente professano la dottrina della propria Chiesa, è impossibile porre la propria firma sotto la raccomandazione del documento “Battesimo, Eucaristia e Sacerdozio”[35]. Scopo fondamentale del dialogo è l’unanimità sulla fede ed il suo basilare argomento dal punto di vista ortodosso consiste nell’approfondimento della dottrina.

Anche limitandoci agli esempi citati, si può comprendere che all’opera di avvicinamento si oppongono gravi difficoltà, le quali, può darsi, non si notano a prima vista. Tuttavia è utile chiarire il vero stato di cose e vedere chiaramente i problemi, purché ciò si faccia nello spirito della carità, senza passioni ed al di fuori di ogni polemica lasciandosi guidare solo dall’amore per la verità e per un’autentica unità.

Di fronte alla difficoltà del compito sarebbe ingannevole e pericoloso lasciarsi attrarre da sogni affascinanti e da decisioni rese facili, che appena nascondono le autentiche difficoltà. Ancor più pericolosa è la tentazione di evitare queste difficoltà, relativizzare il valore delle decisioni di fede e dello stesso istituto della Chiesa. In quest’ambito possediamo un tesoro che non ha prezzo, per il quale migliaia di martiri hanno dato la loro vita. Dio possiamo conoscerlo solo attraverso le parole trasfigurate che ci porta la Tradizione e che ci comunicano ciò che il Figlio Unigenito ha ritenuto svelarci dei secreti del Padre e, secondo la sua volontà, possiamo unirci al Cristo solo attraverso la Chiesa e nella Chiesa, la quale è il suo Corpo.

[1] G. Florovskij, “Sguardo sull’Assemblea di Amsterdam”, in “Irénikon” 22 – 1949, p. 10-11, in francese.

[2] Pseudo Basilio, “Norme monastiche”, 18, P.G. 31, 1385 A.

[3] L’espressione russa “sotelesnik”, in greco “synsomos”, “che costituisce un solo corpo”, è presa da Efesini 3, 6 e spesso s’incontra nei testi dei Padri a cominciare da sant’Atanasio. La dottrina dei Padri greci sulla Chiesa-Corpo di Cristo corrisponde abbastanza esattamente con quella dell’Apostolo Paolo, come l’interpreta l’esegesi contemporanea: si tratta del corpo del Cristo glorificato, reale e personale, che è il “centro e la linea diretta del mondo cristiano. Proprio perché l’unione mistica identifica tutti noi con questo stesso corpo, noi possiamo essere uniti tra noi”. (L. Cerfeaux, “La Théologie de l’Eglise suivant Saint Paul”, Paris 1965, p. 236 ; cfr. p. 287 con la nota 4).

[4] Cfr. 1 Corinti 12, 27.

[5] Matteo 4, 2-67.

[6] San Cirillo di Alessandria, Interpretazione di Giovanni 11, 11, P. G. 74, 560 A-561 B.

[7] Questa concezione della Chiesa fu di nuovo in parte esposta dal P. Afanasiev. Ma, secondo la sua opinione, ogni Chiesa locale, celebrando l’eucaristia e con ciò stesso identificandosi con la Chiesa universale, può essere in comunione sacramentale con le altre Chiese locali, anche se divisa da loro da differenze dogmatiche. (cfr. N. Afanasiev “Una Sancta”, in “Irénikon” 36 (1963) p. 473). Questa tesi, evidentemente, non corrisponde ai dati storici ed altri teologi ortodossi hanno corretto la tesi dell’Afanasiev precisando che la Chiesa locale è realmente la Chiesa di Dio e può entrare in comunione con le altre Chiese solo se professa la fede che pienamente corrisponde alla loro. (Cfr. Metr. Massimo di Sardi, “La Chiesa universale nella Chiesa Ortodossa”, Parigi 1975, pp. 27-51 in francese).

[8] Ireneo di Lione in EUSEBIO DI CESAREA, “Storia della Chiesa”, V, 24, 13. Traduzione francese in “Sources Chrétiennes” 41, p. 70.

[9] San Cipriano di Cartagine, “Opinioni Episcopali”, cit. da sant’Agostino, “De Baptismate” VI, 7, 10.

[10] Socrate, “Storia della Chiesa”, 5, 22; P. G. 67, 645.

[11] Cfr. Galati 1, 6.

[12] San Giovanni Crisostomo, De Epistola ad Galatas 1, 6.

[13] San Gregorio Nazianzeno, Oratio 18, P. G. 35, 992 B. C.

[14] ib. 8, 20; P. G. 35, 812 C.

[15] Sul concetto ortodosso dell’autorità cfr. vescovo Kallistos Ware, “L’exercice de l’autorité dans l’Eglise orthodoxe” in “Irénikon” 54 (1981) pp. 451-471; 55 (1982) pp. 25-34.

[16] San Vincenzo di Lérins, “Commonitorium” 2: “Nella Chiesa cattolica bisogna con la massima cura ritenere vero ciò che cedettero tutti, dappertutto e sempre”.

[17] G. Florovskij, o. c., pp. 9-10.

[18] Uno splendido commento ad essa è opera del P. Emmanuel Lanne in “Irénikon” 3 96 (1973), pp. 319-335.

[19] Entrambi i testi in francese si trovano nella rivista “La Documentation catholique” 55 (1973) pp. 819-825; cfr. il commento in “Irénikon” 46 (1973) pp. 479-482.

[20] Cfr. il decreto “Unitatis Redintegratio” del II concilio Vaticano.

[21] Discorso del card. Willebrands tenuto a Patmos il 29 maggio 1980. cfr. “La Documentation catholique” 62 (1980), p. 705.

[22] Patriarca Demetrio I, Discorso tenuto il 30 novembre 1979. il testo francese in S.O.P. n. 43 (dicembre 1979), documentazione integrativa: “L’incontro di Giovanni Paolo II e Demetrio I”, p. 23.

[23] Testo in “Irénikon” 47 (1974) p. 70.

[24] E. Hendriks, Introduzione a S. Agostino, Opere di S. Agostino, “De Trinitate”, Parigi 1955, p. 22, in francese.

[25] Concilio Fiorentino, Denzinger-Schonm. 1331-1332.

[26] S.O.P. n. 59 (giugno-luglio 1981) p. 15, in francese.

[27] Cfr. “Irénikon” 56 (1983) p. 236 in francese.

[28] I. Congar, “L’autonomia e l’autorità centrale nella Chiesa”, in “Irénikon” 53 (1980) p. 311.

[29] G. M. P. Tillard, “Sulla via verso una comune professione di fede”, in “Documentation Catholique” 1980. p. 657, in francese. Il testo è la relazione di un gruppo misto di lavoro cattolico e protestante, ed è presentato da Pierre Dupré e Lukas Vischer.

[30] Card. Ratzinger in “Irénikon” 56 (1983) p 235.

[31] I. Congar, “Nota sui termini ‘Confessione’, ‘Chiesa’, e ‘Comunione’” in “Irénikon” 1950 pp. 20-21 in francese. Conformemente all’unanime insegnamento dei Padri, fondato sul “Nuovo Testamento”, la Chiesa non solo “dev’essere una”, ma essa è unica e non può essere altrimenti che una. Quest’unicità era (ai loro occhi) un attributo della Chiesa visibile, e la Chiesa visibile era concepita come un’unica struttura organica, come comunione. Secondo i Padri, le divisioni e le rotture della comunione non erano dotate d’alcuna unità spirituale ed invisibile, e le varie denominazioni non potevano costituire assieme un’unica Chiesa. La Chiesa visibile è unica … (ndr.righe illeggibili nel ciclostilato) “…que des Donatistes d’après St. Augustin”, Ottawa 1972.

[32] I. Congar, “Propos en vue d’une théologie de l’Economie” in “Irénikon” 45 (1972), pp. 180-183.

[33] A. Wenger, “L’Eglise orthodoxe et les ordinations anglicanes” in “Nouvelle Revue Théologique”, 1954, pp. 50-52.

[34] Mons. Ch. Dumont in “Istina”, 1983 p. 257 in francese.

[35] Lima, p. 15.

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