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sabato 14 dicembre 2013

San Serafino di Sarov: una vita di santità

Tratto da Igor Smolitsch, Santità e preghiera, ed. Gribaudi
 
Alla fine del XVIII secolo, un monaco andò a stabilirsi in un isba nel mezzo delle impenetrabili foreste che accerchiavano l'eremo di Sarov. Aveva circa quarant'anni, era di statura alta e imponente. Sebbene avesse passato lunghi anni nell'ascesi più rigorosa, aveva conservato un volto fresco e gradevole. Gli occhi blu, dallo sguardo profondo, erano nascosti da fitte sopracciglia. Una lunga capigliatura bionda gli cadeva sulle spalle e una folta barba gli circondava la faccia. Tutto denotava in lui un grande vigore fisico e intellettuale.
La sua isba si trovava nel cuore di un bosco di pini, ai piedi di una collina, sul bordo della Sarovka. Era costruita con tronchi messi insieme e contava un solo locale rischiarato da due piccole lucerne; l'unico mobile era una stufa. Ci volevano più di due ore all'eremita per raggiungere il monastero, per uno stretto sentiero che aveva dovuto aprirsi attraverso le macchie di conifere. In inverno la tempesta e il grande silenzio bianco lo tagliavano dal mondo esterno.
 
Con pazienza e assiduità l'eremita spese le sue energie per salire, tappa dopo tappa, le rudi vette dell'ascesi cristiana. Come un nuovo Simeone lo Stilita, per tre anni passò quasi tutto il suo tempo, più di mille giorni e notti, in preghiera, inginocchiato su un grosso sasso preso dal ruscello. Con le braccia levate al cielo, mormorava incessantemente con le labbra e dal fondo dell'anima: “Signore, abbi pietà di me, peccatore!
Questo eremita era lo ieromonaco Serafim, il cavaliere di Dio. “Dialoga con gli angeli”, è la “forza della Chiesa e la gioia dei credenti”: con queste parole la Chiesa ortodossa celebra colui che resta la figura più perfetta, la più radiosa della santità russa.
 
Serafim, il cui vero nome era Prochor, nacque il 19 luglio 1759 a Kursk. Su di lui vegliava la provvidenza: a sette anni cadde dall'alto di un campanile e non si fece alcun male. Tre mesi più tardi fu colpito da una grave malattia; vide allora in sogno la Madre di Dio che gli prometteva la guarigione. Non amava affatto mescolarsi ai giochi dei ragazzi della sua età e preferiva restare solo e dedicarsi alla lettura della Scrittura e delle vite dei santi. Anche l'ufficio divino lo attirava in modo del tutto particolare.
 
Proveniente da una famiglia di commercianti, non provava però alcun gusto per gli affari; tuttavia, nella sua vita di starets, durante i colloqui gli capitava spesso di utilizzarne il vocabolario per meglio far cogliere ai suoi discepoli il suo pensiero. Non conservò altre tracce della sua breve iniziazione commerciale. All'età di 18 anni lasciò sua madre e si recò in pellegrinaggio a Kiev, in quell'epoca frequentata ogni anno da migliaia di fedeli che visitavano gli eremiti, gli abitanti delle grotte. In una delle più piccole viveva lo starets Dositeo che possedeva il dono della profezia. Prochor lo implorò di benedire la sua vocazione monastica.
 
“Figlio mio, gli disse lo starets, va' al monastero di Sarov e non ripartirne più. Quel luogo sarà la tua salvezza. Lì, con la grazia di Dio, concluderai il tuo pellegrinaggio terreno. Sforzati solo di restare sempre unito a Dio ripetendo senza sosta questa preghiera: Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore. Sii sempre fedele a questo esercizio e resta vigilante. Quando cammini, quando ti siedi, al lavoro, in chiesa, in ogni momento, questa preghiera resti viva nelle tue labbra e nel tuo cuore. Vi troverai la pace; essa ti darà la purezza dell'anima e del corpo. E lo Spirito santo, che è la fonte della salvezza, sarà su di te e ti custodirà sul cammino della santità”.
 
Dopo un'ultima preghiera davanti alle reliquie dei santi dei monasteri di Kiev, il giovane Prochor si mise immediatamente in viaggio per Sarov, dove avrebbe rivelato agli occhi del mondo “la meraviglia delle meraviglie” di un'autentica vita cristiana.
I monaci del recente eremo di Sarov vivevano nell'obbedienza di una regola molto stretta, sotto la guida di eremiti stimati quali lo starets Nazario, detto “il candido”, e lo starets Josif.
Al termine di otto anni di noviziato, sotto la guida dello starets Josif, Prochor ricevette l'abito monastico e poco dopo fu ordinato ierodiacono. Il Padre Pacomio, abate del monastero, avendo potuto apprezzare la sua fede ardente e “serafica”, al momento della sua professione gli diede il nome di Serafim.
 
Poco prima della cerimonia Serafim fu colpito da idropisia. Vedendolo in uno stato disperato l'abate voleva chiamare il medico, ma il malato si oppose: “Mi sono messo nelle mani del Signore che è il vero medico del corpo e dell'anima e anche in quelle della sua santissima Madre. Se ne avete la benevolenza, somministrate ora a me, povero malato, la medicina celeste, nel nome del Signore”. Si era allora confessato e aveva ricevuto la santa Eucarestia. Molti anni dopo, poco prima della morte, Serafim raccontò ad un monaco la visione concessagli al momento di quella Comunione. La santissima vergine Maria gli apparve in una luce soprannaturale, con al fianco gli apostoli Pietro e Giovanni. Essa si rivolse all'apostolo Giovanni e gli disse: “Lui è della nostra razza”. Dicendo ciò pose la mano sulla testa del moribondo e l'acqua che gonfiava il suo corpo fuoriuscì da una piaga sul fianco destro, piaga di cui conservò sempre la cicatrice.
 
Dopo la guarigione, Serafim passò lunghe notti in fervente preghiera davanti alla Madre di Dio, alla quale sempre avrebbe testimoniato una devozione molto fervida. Nella sua qualità di ierodiacono, celebrava la liturgia quasi quotidianamente. Il tempo rimanente meditava nella sua cella la Sacra Scrittura e i Padri della Chiesa. Durante questi anni ebbe la grazia di una nuova visione. Si era nella Settimana Santa, un Giovedì santo, durante l'ufficio liturgico del mattino. Come d'abitudine, Padre Pacomio celebrava con Serafim. Nella sua qualità di diacono, Serafim avanzò davanti alla “porta regale” e pronunciò la formula: “Signore, salva i tuoi fedeli ed esaudiscici!” Secondo il rito, doveva contemporaneamente presentare l'Orarion all'assemblea. Ma gli fu impossibile sollevare la mano; il suo volto si irrigidì e nessuna parola uscì dalle sue labbra. Tutti capirono che aveva una visione. Due ierodiaconi lo presero per le braccia e lo portarono all'altare.
 
Per tre ore Serafim non poté pronunciare neppure una sillaba. Ritornatagli la parola, raccontò umilmente all'abate quello che gli era successo: “Quando io, povero come sono, ho detto la preghiera: ‘Signore, salva i tuoi fedeli ed esaudiscici’ e stavo per sollevare l'Orarion, ho improvvisamente scorto davanti a me una luce splendente come il sole. In questa luce ho visto nostro Signore Gesù Cristo nel suo aspetto umano, in tutto lo splendore della sua gloria, circondato da angeli ed arcangeli, cherubini, serafini, come da uno scintillante sciame di api. Il Signore si spostava nell'aria dalla porta ovest della chiesa verso la tribuna e, con le mani alzate, ha benedetto i preti e i fedeli in preghiera. Poi è entrato nell'icona a destra della “porta regale" e lì l'ho visto come trasfigurato. Io, che sono cenere e polvere, ho potuto contemplare il Signore Gesù Cristo, egli mi ha ancora benedetto e il mio cuore ha gustato in pienezza la dolcezza del suo amore”.
 
Il vescovo della diocesi, Teofilo, anch'egli asceta austero e promotore del monachesimo, aveva sentito parlare della pietà del monaco Serafim e per il bene della Chiesa lo ordinò ieromonaco il 2 settembre 1793. Dopo aver ricevuto la grazia del sacerdozio, Serafim continuò a condurre la sua vita ascetica. Alla morte del vecchio abate Pacomio, decise di lasciare il monastero e di ritirarsi nella solitudine perfetta. In un gelido giorno d'inverno, alla fine del 1794, s'incamminò per un faticoso viaggio attraverso la spessa coltre di neve e decise di cercare asilo in una piccola capanna nel cuore della foresta. Non aveva con sé nient'altro che le Sacre Scritture e i vasi sacri per la Liturgia.
 
Molto presto i fedeli, sia per curiosità che per bisogno di consigli, cominciarono a disturbare la sua solitudine. Vennero anche numerose donne a importunarlo con i più svariati problemi; Serafim, distratto dall'obiettivo prefissosi a causa di questi indesiderati visitatori, pregò Dio con tutta l'anima di benedire i suoi disegni e, se tale era la sua volontà, di restituire il silenzio al suo romitaggio. Chiese un segno dal cielo: che i rami dei pini si piegassero e chiudessero completamente il sentiero, così da nascondere la sua casetta...
 
Quando arrivarono le feste di Natale, ritornò alla chiesa dell'eremo per gli uffici; poi, dopo aver ricevuto la santa Eucarestia, riprese la strada del ritorno. Si accorse allora che i fitti rami dei pini si abbassavano fino a terra e chiudevano l'accesso al suo rifugio. Seppe così che Dio aveva benedetto la sua nuova vita e ringraziò in ginocchio per questa testimonianza della sua grazia. L'indomani, secondo giorno dell'Ottava di Natale, giorno in cui la Chiesa ortodossa celebra la santissima Madre di Dio, Padre Serafim ritornò al monastero per l'ufficio. Quando si terminò di cantare “l'inno dei Cherubini”, si avvicinò umilmente al celebrante e gli disse: “Padre abate, dammi la tua benedizione, perché nessuna donna venga più a presentarsi davanti a me”. L'abate rispose con tono severo: “è questo il momento per una richiesta di tal genere, padre Serafim?” “Si, Padre”, supplicò Serafim, tanto umile quanto perseverante. “E come potrei vedere dal monastero che non si avvicini più neppure una donna al tuo eremo?” “Pronuncia solo questa benedizione, Padre abate, e sarà così
L'abate prese l'icona della festa, l'icona della santissima Madre chiamata “Corpo beato” e con essa benedisse l'eremita Serafim: “Ti do la mia benedizione, nessuna donna troverà ormai la strada della tua collina. Quanto a te, sii vigilante!” Serafim baciò la santa icona e ricevette ancora il Pane consacrato.
 
Cominciò allora veramente la sua vita di eremita. Rinunciò all'abito monastico nero per una cocolla bianca e dei sandali di corteccia. Sul petto aveva la croce benedetta da sua madre e sulla spalla un tascapane contenente alcune pietre, il Vangelo e i Padri della Chiesa. Sotto la camicia portava delle croci di ferro che pesavano qualcosa come otto libbre, attorno alle reni una cintura di ferro. D'inverno tagliava legna nella foresta per la sua stufa, nella quale però si accontentava di avere, dato il grande freddo, solo il fuoco necessario per intiepidire un po' la sua capanna. D'estate coltivava in un piccolo orto le verdure che gli servivano da cibo.
 
Oh solitudine! Oh cuore della dottrina, scuola del celeste e divino sapere, in cui Dio è tutto ciò che possiamo apprendere! Oh deserto, paradiso di dolcezza, in cui i fiori profumati della carità ora risplendono in una luce di fuoco, ora brillano del candore della neve. In quest'asilo ritirato, risparmiato dai venti, regnano la pace e il riposo. S'innalza l'incenso della mortificazione della carne, ma anche quello ancor più meritorio della mortificazione della volontà. E nell'incensiere della preghiera perpetua crepita il fuoco ardente e dolce, la fiamma immortale dell'amore di Dio!
 
Così parlava san Basilio il Grande, così Serafim celebrava a sua volta la solitudine. Nel cuore dei suoi compiti monastici alza verso il cielo le preghiere, i salmi e i tropari che sa quasi interamente a memoria. Ama in modo del tutto speciale gli inni in onore della Madre di Dio. Ogni giorno legge pagine del Vangelo, delle Epistole o testi dei Padri che hanno esaltato la solitudine. La principale sorgente della sua ascesi è la preghiera. Le sue preghiere del mattino e della sera sono lunghe e gli ispirano nello stesso tempo l'umiltà, la penitenza davanti al Signore e la fede della sua Gloria. Di frequente rilegge la preghiera di penitenza di sant'Efrem il Siro, prescritta per le settimane di Quaresima.
Signore e Padrone della mia vita, non darmi uno spirito di ozio, di abbattimento, d'ambizione e di vane parole. Ma fa' grazia, a me tuo servo, di uno spirito di castità, di umiltà, di pazienza e di carità.
Signore, mio Re, fa' ch'io veda i miei peccati e che non giudichi il mio fratello, perché tu sei benedetto nei secoli dei secoli.
 
Durante la prima settimana di Quaresima, Serafim osservava un digiuno totale; solo il sabato, dopo aver ricevuto la santa Eucarestia, prendeva il pane benedetto, l’antidoro. Durante questo periodo di vita eremitica per due anni si cibò solo di una specie di cipolla selvatica che mangiava cotta nell'acqua, fresca d'estate e seccata d'inverno. Gli capitava di raccontare agli altri startsi le tentazioni che il demonio gli faceva subire: spesso, nel mezzo della sua preghiera notturna, vedeva crollare le pareti della sua capanna e le bestie selvagge precipitarsi urlando su di lui. Un monaco gli chiese un giorno a questo proposito: “Padre, è vero che hai visto gli spiriti cattivi?” “Sono spaventosi”, disse semplicemente l'eremita con un sorriso. “Come è impossibile ai peccatori sopportare la luce degli angeli, così gli spiriti del male sono spaventosi da vedere”.
 
In questi anni successe un fatto grazie al quale Dio offrì all'eremita l'occasione di testimoniare la sua carità verso il prossimo. Un giorno d'autunno del 1804 Padre Serafim tagliava, come al solito, la legna nella foresta. Tre uomini vestiti da contadini si avvicinarono a lui ed esigettero brutalmente che consegnasse loro i suoi soldi. Quando rispose che non ne aveva affatto, grande fu la loro collera e uno di loro gli assestò dei colpi d'ascia sulla testa e sul corpo. Perdendo sangue dalla bocca e dalle orecchie lo starets cadde a terra. Serafim, pur avendo anche lui una scure in mano e pur essendo abbastanza robusto per difendersi contro i briganti, non aveva voluto opporre loro resistenza con la violenza. Gli uomini frugarono la sua capanna e se ne andarono senza aver trovato nulla.
 
Per buona parte della notte l'eremita restò a terra, privo di conoscenza. Sul far del giorno si presentò tutto insanguinato al monastero durante l'ufficio divino. Cedette alle insistenze dell'abate che voleva farlo curare da un medico. Ma era così sfinito e debole per tutto il sangue perso che si addormentò prima dell'arrivo dei dottori. Ebbe un sogno sorprendente: vide venire da destra verso di lui la Madre di Dio che portava una corona regale. Aveva al suo fianco gli apostoli Giovanni e Pietro, come al tempo della sua prima visione. La Regina del cielo si voltò verso il luogo in cui più tardi avrebbero dovuto trovarsi i medici e, indicando l'eremita coperto di piaghe, chiese: “Perché inquietarvi?”; poi, rivolgendosi agli apostoli, ripeté quello che aveva dichiarato la prima volta: “Lui è della nostra razza”. A quel punto il ferito si svegliò. Nessuno aveva notato che aveva avuto una visione. Solo molto tempo dopo l'avrebbe rivelato.
 
L'abate gli raccomandò di lasciarsi esaminare dai medici. Serafim rifiutò e rispose solo, tra lo stupore dei presenti, che si metteva nelle mani di Dio e della santissima Madre di Dio. Per quattro ore lo starets giacque in una debolezza estrema, ma il suo cuore era nella gioia e nella pace; poi si alzò, prese un po' di pane, come pasto della sera, e si mise in preghiera. Dovette restare in una cella per molte settimane, poi la sua robusta costituzione ebbe la meglio, ma, segnata da quelle ferite, la sua alta figura si curvò ed egli, da quel momento in poi, poté camminare solo appoggiandosi ad un bastone.
 
Nel giro di cinque mesi l'eremita tornò al suo romitaggio. Dando l'addio all'abate dell'eremo, chiese che nel caso in cui i briganti fossero scoperti non venissero puniti e ricordò le parole della Scrittura: “Non temete nulla da coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire nella Geenna sia l'anima che il corpo” (Mt 10,28).
Quando un anno più tardi morì l'abate del monastero e i monaci di Sarov vollero dargli Serafim come successore, egli rifiutò questa carica. Volle al contrario farsi carico di un nuovo compito ascetico: il silenzio. “Il silenzio è il nostro più bell'ornamento, aveva l'abitudine di dire ai visitatori; sant'Ambrogio di Milano non ha forse detto che aveva visto molti uomini operare la loro salvezza nel silenzio, mai nessuno nelle chiacchiere?
 
Per tre anni si sottomise al silenzio più totale. Non rivolgeva la parola a nessuno, neppure ai monaci che gli portavano il pane. Cercava addirittura di nascondersi il volto, coprendolo, quando si avvicinavano a lui.  “Se manteniamo il silenzio, spiegava Serafim, Satana, il nostro nemico non ha presa su di noi. Il silenzio dev'essere nel cuore e nel pensiero. E il silenzio che assicura all'anima i vari doni dello Spirito. Dalla solitudine e dal silenzio ci vengono pietà e dolcezza; quest'ultima agisce nel cuore umano come l'acqua di Siloe che rappacificava e guariva”.  “Restare nella propria cella praticando il silenzio, la preghiera e la meditazione della Sacra Scrittura notte e giorno: ecco cosa rende la nostra anima fedele a Dio. I santi Padri dicono che la cella del monaco assomiglia alla fornace di Babilonia in cui i tre fanciulli hanno visto il Figlio di Dio. Il silenzio avvicina l'uomo a Dio e lo rende sulla terra simile agli angeli. Nella tua cella sii vigilante e perseverante nel silenzio, ricerca con tutte le tue forze l'unione con il Signore; allora il Signore farà di te, che sei un uomo, un angelo sulla terra”.
 
Il silenzio totale che si era imposto rappresentava solo una tappa verso la purificazione dell'ascesi. La sera dell'8 maggio 1810 Serafim tornò per la prima volta all'eremo e si recò subito all'ufficio della sera; di lì raggiunse in silenzio la sua cella. L'indomani - era la festa di san Nicola il Taumaturgo - lo starets assistette alla liturgia del mattino, ricevette la santa Eucarestia, poi la benedizione dell'abate, dopo di che ritornò nella sua cella e vi si rinchiuse. Così Serafim inaugurò il suo nuovo stato monastico: la vita di reclusione.
 
Passò anni interi nella sua cella non riscaldata, debolmente rischiarata solo dalla lampada dell'icona della Madre di Dio. Nei primi tempi dormiva seduto su un mucchio di legna; poi passò la notte coricato su una bara ch'egli stesso aveva fabbricato con le sue mani, in modo da aver sempre davanti a sé il pensiero della morte. Come nella sua capanna della foresta, s'infliggeva la pena di portare la cintura e la croce di ferro. Per imporsi una fatica ancor maggiore, spostava costantemente il suo mucchio di legna da una parte all'altra della cella. Pregava in piedi e in ginocchio, con il massimo raccoglimento. Leggeva spesso a voce alta le Sacre Scritture, un Vangelo al giorno, e anche le Lettere e gli Atti degli Apostoli. Passava la notte separato dal mondo, dopo aver fatto ritorno in se stesso, nella preghiera e nella custodia del cuore. Si ritiene che durante questo periodo abbia avuto la grazia di numerose visioni delle quali solo qualcuna ci è nota. Celebrava solo gli uffici divini impostigli dalla regola del monastero. La domenica e le feste riceveva l'Eucarestia che gli veniva somministrata, con il permesso dell'abate, dopo la liturgia del mattino attraverso una piccola finestrella aperta nella porta della sua cella. Non riceveva mai visite.
 
Così il vescovo della diocesi, che visitava un giorno l'eremo di Sarov, si presentò alla porta della sua cella, ma si vide rifiutare il permesso di entrarvi. Solo dopo dieci anni Serafim accettò occasionalmente alcuni visitatori: in silenzio impartiva loro la benedizione. Dopo altri cinque anni accettò di mettere termine alla sua reclusione. Questa era durata quindici anni e sei mesi. Terminò il 25 novembre 1825. Incominciò allora per lui l'apostolato dello starcestvo.  Riallacciati i contatti con il mondo esterno, Serafim ricevette tutti i visitatori con una bontà e una sollecitudine sempre uguali. Poveri o ricchi, nobili o contadini, uomini o donne: accoglieva tutti con lo stesso riguardo. Per le visite lo starets portava la cocolla con l’Epitrachilion e le Epimanichies, come segno della sua dignità sacerdotale.
 
Nei suoi colloqui e nei suoi insegnamenti raccomandava la preghiera regolare, insistendo particolarmente sui benefici procurati dal pensiero costante di Dio e dalla pratica della preghiera spirituale.
Questo deve essere l'oggetto di ogni vostra sollecitudine, spiegava. Sia che camminiate, o che riposiate, sia che siate al lavoro o in chiesa, prima dell'ufficio divino custodite questa preghiera nella vostra anima e nel vostro cuore. Invocate il nome di Dio e troverete riposo; lo Spirito santo, fonte della salvezza, riposerà su di voi e custodirà nel timore di Dio e nella purezza la vostra anima e il vostro corpo”.
 
Spesso, nel corso di questi colloqui, lo starets posava l'Epitrachilion sulla testa del suo penitente, pronunciava la preghiera dell'assoluzione, praticava l'unzione della fronte con l'olio della lampada. Faceva bere un po' d'acqua benedetta e come addio dava il bacio di pace, pronunciando le parole del saluto pasquale: “O mia gioia, Cristo è risorto!”.
 
Gli ultimi otto anni della sua vita, che Serafim consacrò allo starcestvo, furono come una catena senza fine di amore e di preghiera. Fin dall'inizio della giornata, dopo la liturgia del mattino, in cui aveva attinto la forza vivificante dello Spirito nei sacri doni di Dio, i gruppi di visitatori si presentavano davanti alla sua porta. Molti hanno rivelato più tardi il profitto spirituale che avevano ricavato da queste visite. Dopo essersi intrattenuti con lo starets si erano sentiti completamente trasformati; in essi il cuore e la ragione avevano cessato di combattersi; avevano ritrovato la pace interiore; era come se una fiamma avesse illuminato tutta la loro vita. Molti amici e discepoli, in ogni parte del paese, che non avevano avuto la possibilità di andare a rendergli visita, gli scrivevano per domandargli consiglio; a volte impartiva loro i più utili insegnamenti senza aver neppure aperto le lettere: dopo la sua morte furono infatti trovati nella sua cella un gran numero di plichi ancora chiusi e ai quali già da molto tempo aveva dato risposta.
 
Tu accogli davvero troppa gente, osservavano a volte dei vecchi monaci con risentimento; non fai abbastanza differenza tra di loro”. Il santo starets si accontentava di rispondere: “Cosa dirò al Signore se mi chiede di alcuni che avevano sete di luce e che sono ripartiti senza che io li avessi dissetati?” “Ce ne sono però che se ne vanno scontenti!”, replicavano i censori. “Ebbene, non mi sembra una cosa grave, visto che accanto a qualcuno scontento ce ne sono molti consolati”.
 
Poco prima della fine della sua reclusione, quando lo starets aveva nuovamente autorizzato le visite nella sua cella, arrivò un giorno a Sarov un proprietario terriero di nome Michail Mansurov. Soffriva da molti anni di una dolorosa paralisi degli arti inferiori che gli rendeva impossibile camminare. I medici non gli avevano lasciato alcuna speranza e rifiutavano persino di curarlo. Su consiglio della sua famiglia aveva preso la decisione di farsi portare a Sarov, da Padre Serafim. Quando il suo servo l'ebbe condotto nella cella dello starets, questi gli disse con sollecitudine: “Perché vuoi vedere il povero Serafim?” Mansurov si lasciò cadere a terra in lacrime e pregò lo starets di intercedere per la sua guarigione.
 
Credi in Dio?”, chiese lo starets. Il malato affermò di avere la fede. “O mia gioia, poiché tu credi così fermamente, allora credi anche che un vero credente può attendere tutto da Dio. Credi dunque che il Signore ti guarirà e io, povero Serafim, pregherò per te”. Detto ciò, lo starets si ritirò per un attimo nella stanza vicina. Quando ritornò chiese a Mansurov di scoprire i piedi malati e vi fece un'unzione con l'olio santo che era andato a prendere... “Per la grazia che il Signore mi ha accordato, io ti guarisco e tu sei il primo a beneficiare di questo dono”. Copri poi i piedi unti con una fasciatura di tela grezza e comandò a Mansurov di alzarsi e camminare. Questi ci provò e, pieno di stupore, poi di indicibile gioia, verificò che poteva stare saldamente in piedi e che era di nuovo capace di camminare.
 
Traboccante di riconoscenza si gettò in ginocchio davanti allo starets e voleva baciargli i piedi. Ma Serafim lo rialzò e gli disse severamente: “Credi forse che Serafim abbia il potere di dare la vita e la morte, di gettare qualcuno all'inferno e di liberarlo? A cosa pensi mai? Tutto questo è opera del Signore. Lui solo realizza i desideri di quanti lo temono ed esaudisce le loro preghiere. Rendi dunque grazie solo al Dio onnipotente e alla sua santissima Madre”. Passò un po' di tempo e Mansurov si chiedeva come poter esprimere la propria gratitudine. Si recò nuovamente pieno di venerazione dallo starets.
 
O mia gioia, disse Serafim non appena entrò. Così hai promesso al Signore di ringraziarlo per aver ridato vita alle tue membra? Hai ragione”. Mansurov fu sorpreso nel vedere che lo starets indovinava i suoi sentimenti. “Cosa mi consigliate di fare?”, chiese. “Ecco, amico mio, disse Serafim, dà al Signore tutto quello che possiedi e scegli la povertà!
 
Il gentiluomo rimase sconcertato. Non si aspettava una proposta del genere. E subito gli venne in mente il giovane del Vangelo al quale il Signore aveva detto: “Vendi i tuoi beni e dà tutto ai poveri”. Ma pensò alla sua giovane moglie che l'aspettava a casa e si chiese come sopravvivere se avesse distribuito tutti i suoi beni.  “Lascia tutto, disse lo starets, e non tormentarti per quello che ora ti viene in mente. Il Signore non ti abbandonerà né in questo mondo né nell'altro; non sarai più ricco, ma il pane di ogni giorno non ti mancherà mai”.
 
Ricevuta la benedizione del pio starets, Mansurov ebbe il coraggio di vendere tutti i suoi beni di lasciare liberi i suoi contadini e acquistò un pezzetto di terra nel villaggio di Sarov. Il denaro ricavato dalla vendita fu più tardi devoluto al monastero femminile fondato da Serafim. Come egli stesso aveva deciso, dopo la sua morte la piccola proprietà andò alle monache.
 
Un giorno la principessa Koloncakov rese visita al santo starets per riceverne la benedizione. Era il 24 settembre 1824. Aveva un fratello nel corpo di spedizione che stava combattendo all'estremo limite del Caucaso; senza sue notizie da molto tempo, le era venuta l'ispirazione di andare ad interrogare lo starets al riguardo. Non aveva ancora manifestato l'oggetto della sua visita che Serafim le disse: “Non rattristarti, ogni famiglia ha la sua parte di lutto”. Tre mesi più tardi la principessa ricevette dall'autorità militare la notizia che il fratello era morto in combattimento.
 
Due sorelle si recarono pellegrine a Sarov e, mentre una aveva portato dei doni, l'altra arrivò a mani vuote. Pregò dunque sua sorella di cederle qualcosa. Quando, giunte dallo starets, la seconda tese a Serafim un boccettino d'olio per il lumino dell'icona, sentì queste parole: “La prossima volta che mi porti qualcosa, sia qualcosa di tuo”. Vedendo la visitatrice estremamente turbata, aggiunse con un sorriso: “Non hai sulla tua terra numerosi alveari? Devi solo far fabbricare un cero con un po' della loro cera e portarlo come dono per l'icona”.
 
La moglie di un fattore di nome Vorotilov era gravemente malata. Già molte volte l'uomo era stato a trovare Padre Serafim che lo conosceva come un cristiano di gran fede. Una sera le condizioni della malata si aggravarono pericolosamente. Folle d'angoscia, il fattore si mise in viaggio e, quando arrivò alla capanna dello starets, era quasi mezzanotte. Con sua grande sorpresa scorse Padre Serafim seduto sulla soglia, come se aspettasse qualcuno. “O mia gioia, gridò lo starets, perché vieni a quest'ora dal povero Serafim?” Il contadino gli disse che sua moglie stava morendo e implorò la sua intercessione. Ma lo starets gli disse di non poter far niente per lei. Allora Vorotilov scoppiò in singhiozzi e supplicò l'eremita di ottenere da Dio la guarigione di sua moglie. Davanti a quel dolore, Serafim chiuse gli occhi e si mise a pregare con grande fervore. Dopo qualche istante, rialzò la testa e guardò il fattore: “Vedi, o mia gioia, il Signore ridarà la salute a tua moglie. Ritorna in pace a casa tua”. Al suo arrivo alla fattoria Vorotilov apprese che sua moglie verso mezzanotte aveva avuto un improvviso miglioramento. Poco tempo dopo era completamente ristabilita.
 
L'8 settembre 1830 fu consacrata nel monastero di Diveevo la nuova chiesa, che era stato possibile erigere grazie ai doni del ricco proprietario Mansurov; fu dedicata alla Natività della Vergine. “Dopo la consacrazione”, raccontò più tardi il prete di questa chiesa, “il Padre Vasilij Sadovskij, l'archimandrita Joakim, che aveva consacrato la chiesa, Mansurov il benefattore ed io abbiamo voluto render visita a Padre Serafim a Sarov. A quel tempo stava in una capanna in piena foresta. Lo starets ci salutò con grande gioia e rivolgendosi al Padre archimandrita disse: ‘Padre, come posso accogliervi? Non offrirvi niente in un simile giorno di festa non è possibile! Ho dunque preparato per voi un piccolo rinfresco a modo mio’. Con queste parole mi prese per mano e mi portò verso una pianta di lamponi come non avevo mai visto: del resto nessun arbusto di quel genere era mai spuntato in quel posto. Mi mostrò tre lamponi molto grossi e maturi al punto giusto. ‘Tieni’, mi disse, ‘prendili e portali ai miei ospiti’. Rimasi li stupefatto e, senza capire nulla, colsi i bei frutti. Il santo starets fece un sorriso: ‘Fatemi il piacere di assaggiarli, assaggiateli! Così il povero Serafim potrà rallegrarsi di aver qualcosa da offrirvi!... E la Regina del cielo che ha voluto farmene dono, padri miei!’ Non ho mai mangiato lamponi così deliziosi, soprattutto in settembre”: con queste parole Padre Sadovskij concluse il suo racconto.
 
Nei giorni della Rivoluzione polacca, nel 1831, una compagnia di soldati passò per Sarov. Il comandante del distaccamento, un uomo molto pio, ordinò una sosta per ottenere una benedizione per i suoi soldati. Lo starets accondiscese alla sua richiesta e, tutto ad un tratto, annunciò che nessuno di quegli uomini avrebbe perso la vita in combattimento. E in realtà quel gruppo, che prese parte alla campagna polacca e persino all'assalto contro Varsavia, fu completamente risparmiato. Tutti i soldati ritornarono sani e salvi alle loro guarnigioni.
 
Una donna narrò il seguente racconto, a gloria dello starets: “In quei tempi, avevo circa dodici anni, mi recai in visita dallo starets Serafim con mia madre. Incontrammo per strada un uomo che ci sembrava davvero in necessità. Avemmo pietà di lui e io gli diedi un mezzo rublo; era tutto ciò che avevo con me. Quando entrammo nella cella dello starets mi benedisse ed esclamò: E bene, eccellenza, aver consegnato mezzo rublo a quel povero". Mia madre sprofondò nel più grande stupore al sentire queste parole, non solo perché Padre Serafim conosceva il mio gesto, ma soprattutto a causa del titolo che mi aveva dato. Solo molti anni dopo ne compresi la ragione, quando sposai un generale”.
 
La moglie di Mansurov era tedesca, originaria dell'Estonia; egli l'aveva sposata in quel paese mentre compiva il servizio militare. Non sapeva leggere il russo e di questa lingua conosceva pochissime parole. Sovente rendeva visita allo starets, verso il quale provava un profondo rispetto. Questi spesso le ripeteva: “Figlia mia, leggi la vita di santa Matriona e imitane l'esempio” “Padre Serafim, rispose un giorno, sa bene che non so leggere lo slavo ecclesiastico”. “Non ha importanza, leggila”, ripeteva Serafim. “La cosa più prodigiosa - avrebbe più tardi raccontato la moglie di Mansurov - è che io, tedesca, che non conoscevo nessun'altra lingua al di fuori di quella materna, presi allora quel libro e fui in grado di leggerne e comprenderne il testo”.
 
Un giorno fu portato nella cella di Padre Serafim un malato. Lo starets si voltò ed esclamò: “O gioia mia, prega intensamente e anch'io pregherò per te, ma bada di restare li saggiamente coricato, senza voltarti”. Dopo qualche tempo di raccoglimento, l'impazienza e la curiosità del malato furono troppo forti, egli si permise di voltarsi. Scorse allora il santo starets sollevato da terra mentre pregava. Non potendosi trattenere a tal vista, gettò un grido di sorpresa. Ma Serafim terminò la sua preghiera, poi ritornò verso il malato: “E ora, te ne andrai a gridare sui tetti che Serafim è un santo, che prega sollevato a mezz'aria. Dio te ne guardi... Tu, rimani in silenzio e non parlare a nessuno di quello che hai visto. Non dir nulla fino alla mia morte, altrimenti il male che ti ha appena lasciato potrebbe ricolpirti!” Solo dopo la morte di Serafim il malato guarito dalle sue preghiere rivelò ciò che aveva visto con i suoi occhi. Tre monache del monastero di Diveevo furono testimoni dello stesso spettacolo. Mentre attraversavano la foresta videro Padre Serafim venire avanti nell'aria sopra un prato tutto in fiore, non lontano dalla sua capanna. Era un anno prima della sua morte.
 
Nel settembre 1831 venne a Sarov il giudice Nicolaj Motovilov, uomo molto pio, che sarebbe diventato uno dei migliori amici dello starets. Per tre anni era dovuto restare a letto, colpito da una paralisi generale del corpo ridotto ormai tutto a una piaga. Nelle note che ha lasciato, si legge questo: Il 5 settembre 1831 venni trasportato a Sarov. Il 7 e 8 settembre, festa della Natività della Madre di Dio, lo starets Serafin ebbe la bontà di parlare con me due volte, al mattino e pomeriggio, nella sua cella. Il 9 settembre cinque persone mi accompagnarono per portarmi nella capanna della foresta per un'altra visita. Lo starets era allora in conversazione con un gruppo di visitatori. Fui deposto a terra, sotto un pino molto alto, che esiste ancor oggi. Poiché lo pregavo di aver la bontà di aiutarmi, Padre Serafim rispose: “Non sono un medico: quando si è malati è al medico che bisogna rivolgersi” Gli raccontai allora tutto quello che avevo tentato; ero ricorso alle cure dei migliori medici di Kazan, dopo di che avevo consultato un discepolo del celebre omeopatista Hahnemann e tutto si era rivelato inutile. Aggiunsi che sentivo che Dio solo poteva venire in aiuto di me, peccatore com'ero.
 
“Credi nel Signore Gesù Cristo? chiese lo starets. Credi che è Dio fatto uomo? Credi alla sua santissima Madre, la Vergine purissima?” Io risposi: “Sì, credo!”
“E credi che il Signore durante la sua vita ha guarito in un istante ogni sorta di malattia, con una sola parola, con un semplice gesto e che anche oggi, altrettanto facilmente e velocemente, può ancora guarire uno che lo implora?... E credi che talora anche noi possiamo a nostra volta, per la sua parola e per l'aiuto della Madre di Dio, guarire un malato con una sola parola?” Risposi “Sì, lo credo veramente, con tutto il mio cuore e la mia anima. Se non lo credessi non avrei chiesto di essere portato fin qui da lei”. “Se hai la fede, sei già guarito!”, disse. “Com'è possibile? Guarito? Lei e i miei amici dovete ancora sorreggermi per le braccia”. “No. Sei guarito in tutto il corpo e ti è restituita la salute”. Detto ciò lo starets comandò alle persone che mi sorreggevano davanti a lui di spostarsi. Mi prese lui stesso sotto le spalle mi sollevò da terra, mi mise in piedi e disse: “Resta in piedi ora! Appoggiati bene sui piedi... Ecco... Ecco, non aver paura, sei completamente ristabilito”.
 
E aggiunse: “Andiamo, vediamo come sei capace di restare in piedi!” Risposi: “Si, ma è perché lei mi sorregge così bene” “No, disse. Ora puoi camminare senza di me e continuerai a farlo. La Madre di Dio stessa ti ha raccomandato al Signore e Lui ti ha completamente restituito le tue forze. Andiamo, cammina!”
E fu come se un vigore completamente nuovo fosse penetrato nelle mie membra. Feci qualche passo, ma lo starets mi fermò: “Per oggi basta. I tuoi tre anni di sofferenza ti hanno molto indebolito: bisogna ricominciare lentamente a camminare risparmiando le forze; la tua salute è ormai un dono prezioso del Signore, abbine cura. Il Signore ti ha liberato e purificato da tutto ciò che era peccato. Vedi che miracolo ha compiuto in te. E ora, credi sempre, con una fede senza incrinatura, nel suo divino amore per te”.
 
Dopo la benedizione dello starets, sono ritornato alla mia vettura, aiutato dal mio servitore e sotto gli occhi meravigliati di numerosi testimoni. In seguito, ho reso frequenti visite allo starets e abbiamo avuto lunghi e gravi colloqui. L'ultimo consiglio che mi diede risale al novembre 1831, quando ebbi il dono di andare a rivederlo, in perfetta salute, e ascoltare le sue parole nella radura. Mi ha predetto in quell'occasione molti eventi della storia della Russia.

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