Del
liturgista cattolico don Nicola Bux
Introduzione
La liturgia
bizantina, propria delle Chiese ortodosse nate da quella di Costantinopoli, ma
anche delle Chiese greco-cattoliche, conserva alcuni riferimenti indiretti alla
presenza e venerazione delle reliquie della Passione di Cristo provenienti da
Gerusalemme 1. Tralasciando la questione dell’autenticità, non si può fare a
meno di osservare, il nutrito elenco di autori e opere greche che fanno
menzione e trattano del Mandylion, reliquia del volto di Cristo, ritenuta
perduta da taluni studiosi, o reliquia dell’intero corpo, identificabile per
altri con la Sindone di Torino:
la Dottrina
di Addai (IV sec.),
Evagrio
Scolastico,
Acta
Thaddaei (VI-VII sec.),
Andrea di
Creta (+726),
il patriarca
Germano (729),
Giovanni
Damasceno (a.754),
Giovanni di
Gerusalemme (754),
il concilio
di Nicea II (787),
Giorgio
Sincello (810),
Teofane
Cronografo (primi sec. IX),
il patriarca
Niceforo (815),
Teodoro
Studita (+826),
la lettera
sinodale dei tre patriarchi (836),
Giorgio
Monaco (866),
Ps. Simeone
Magister,
Acta Andreae
(900), e in particolare Gregorio Referendario (944),
la Narratio
Edessena (p. 944),
il Trattato
liturgico (X sec.),
Menologio
greco (sec X) 2.
Se si pensa
che la riflessione teologica dei padri e degli scrittori bizantini normalmente
s’ispira all’esperienza e alla vita liturgica, della quale fanno parte
integrante le icone e le lipsana (reliquie), non ci si stupirà
di trovare una relazione senza soluzione di continuità tra questi aspetti, ma
anche di riscontrare un richiamo permanente nel simbolismo di alcuni strumenti
e momenti della liturgia e dell’anno liturgico. Inoltre, a questo aspetto
teologico-simbolico si aggiunse, negli autori bizantini medievali, l’idea di
considerare la liturgia come ‘ripasso’ cronologico della vita di Cristo, sia
attraverso l’iconografia, sia l’innodia e i riti liturgici 3. E’ l’aspetto
tipologico e commemorativo della liturgia. Abbiamo scelto alcuni campioni di
quest’aspetto, evidentemente non senza interferenze del primo, convergenti nel
richiamare la deposizione e la sepoltura di Cristo, che è poi il fatto
all’origine della reliquia della Sindone e di quelle ad essa collegate.
L’Antiminsion
L’eredità di
Gerusalemme, raccolta da Costantinopoli, rivive nelle riproduzioni dei luoghi
della Città Santa, a cominciare dal sepolcro 4. L’altare bizantino, normalmente
di forma quadrata e sempre rivestito, rappresenta proprio il sepolcro di
Cristo. Su di esso, verso la fine della liturgia della Parola, si stende l’Antiminsion : un velo rettangolare (che contiene
ai bordi piccole reliquie di santi), con la firma del vescovo che lo ha
consacrato e qualche altra iscrizione. Vi è rappresentato il Cristo deposto nel
sepolcro; in origine invece, vi si trovava soltanto una croce con qualche breve
iscrizione o monogramma, come il corporale della liturgia romana. In origine
doveva essere un altare portatile: anti-minsion,
ciò che sta in luogo della mensa. La prima testimonianza si trova in Teodoro
Studita (+826), ma col nome di dusiastìrion (=sacrificatorio, ara). Poteva essere
di legno o di stoffa. Man mano l’antiminsion è stato adoperato anche sugli
altari consacrati, per diventare poi, dal sec.XIV obbligatorio sempre, sotto
pena d’invalidità della liturgia eucaristica.
I Siri usano
un pezzo rettangolare di legno, chiamato tablit;
altrettanto fanno i Copti (anch’essi lo chiamano dusiastirion) e gli etiopi
(che lo chiamano tabot).
Tra i Siri sembra essere usato già nel VI secolo. Questo tablit viene
consacrato dal vescovo con il myron o crisma. Mai, però, vi si trovano delle
reliquie. Ogni altare deve portare questo tablit,
il quale, a sua volta, è anche un altare portatile. Gli Armeni non hanno
conosciuto questo elemento, anzi vi è una proibizione nel sec.VIII 5. Queste
liturgie delle antiche chiese orientali, anteriori alla bizantina, offrono un
interessante raccordo con l’ambiente primitivo gerosolimitano e le sue
tradizioni aramaiche, ereditate verosimilmente dall'ambiente apostolico.
La Prothesis
Nel rito
bizantino è chiamata così la preparazione dei doni per il sacrificio
eucaristico, che ha avuto una lunga evoluzione fino al sec. XVI. Avviene, prima
della Messa, nell’area del santuario dietro l’iconostasi o nella absidiola
chiamata anch’essa prothesis,
senza che i fedeli possano assistervi. In segreto, perché in origine si
trattava di preparativi ovvi per la celebrazione e non si facevano in questo
momento; in seguito la segretezza si è caricata di significato, forse per
ricordare i preparativi del funerale di Cristo avvenuto in fretta al vespro del
venerdì, la parasceve,
vigilia della Pasqua, che, come ricorda l’evangelista Giovanni (19,31),
quell’anno coincideva col sabato.
Nel primo
caso la Prothesis è una piccola mensa dove il sacerdote compie la proskomidia (preparazione) del Sacrificio. Il
sacerdote e il diacono dopo aver fatto in segreto alcune preghiere davanti
all’iconostasi, entrano nel santuario, baciano l’altare e si lavano le mani.
Con molteplici riti viene preparato il pane dell’offerta (prosfora) da
cui si ritaglia ‘l’Agnello’, un riquadro con le abbreviazioni greche IC XC NI
KA (Gesù Cristo vince), mentre con un’unica formula si infonde vino ed acqua
nel calice; poi per commemorare i santi, i vivi e i defunti, vengono estratte
varie particole dalla prosfora,
che vengono deposte insieme all’‘Agnello’ sul disco,
un piatto basso; incensate le offerte e coperte con triplice velo, il più
grande detto air che simboleggia la pietra del
sepolcro, il sacerdote recita l’orazione d’offertorio. Dopo il congedo, il
diacono, tracciato un segno di croce col turibolo, fa l’incensazione della Prothesis, quindi della Mensa
da ogni lato, a forma di croce, recitando a bassa voce: "Nella tomba
fosti con il tuo corpo, negli inferi con la tua anima come Dio, in paradiso con
il ladrone, e sul trono sei assiso, o Cristo, con il Padre e lo Spirito, tutto
riempiendo, tu che non sei circoscritto". 6
Se si omette
la preparazione delle offerte e l’orazione di offertorio, che in antico non
occupavano questo posto, si osserverà che il rito bizantino non differisce
molto da quello caldeo 7, proprio della rispettiva chiesa di tradizione
aramaica.
Il Grande
Ingresso
Abbiamo
detto che l’altare, in tutta la tradizione liturgica orientale, è visto
innanzitutto come il sepolcro di Cristo. Perciò (e non in senso contrario,
sembra) il pane e il vino portati processionalmente dai diaconi all’altare sono
immagine della sepoltura di Cristo o del suo ingresso trionfale negli inferi,
scortato dagli angeli, per distruggere la morte con la sua morte.
Teodoro di
Mopsuestia (+ 428) nella Catechesi XV, descrivendo il solenne rito
dell’ingresso dei Doni per l’eucaristia, sviluppando la teologia e i concetti
tipologici, che si troveranno poi in tutti gli autori e riti orientali, non
esclusi quelli occidentali, dice che è Cristo che viene condotto alla passione
e nuovamente disteso sull’altare per essere immolato:
“Devi
considerare dunque che è l’immagine delle invisibili potenze che compiono il
servizio (Eb 1,14), rappresentate dai diaconi… Quando essi (i diaconi) li hanno
portati (i doni), è sull’altare che li depongono, per il compimento perfetto
della passione. Così noi crediamo in proposito che ormai egli (Cristo) è posto
sull’altare come nella tomba e che egli ha già subito la passione. Perciò
alcuni diaconi stendono tovaglie sull’altare, mostrando in tal modo una
somiglianza con i lini sepolcrali: essi, poi dopo che l’hanno deposto si
tengono ai lati e agitano l’air sul suo corpo sacro e vigilano che nulla cada
su di lui, mostrando in tal modo la maestà del corpo sepolto, come avviene
presso i potenti del mondo, quando su una lettiga accompagnano i corpi dei loro
morti…” 8.
I diaconi
sono gli angeli sempre presenti alla passione, morte e risurrezione del
Signore. Questa “liturgia angelica” li rappresenta mentre agitano ventagli,
segno d’onore e di adorazione verso Colui che è deposto. “Tutto questo
avviene in un grande silenzio” 9. E’ il raccoglimento che precede l’inizio
della liturgia del sacrificio.
Se l’altare
è il sepolcro, i doni che vi vengono deposti, secondo il grande catecheta
bizantino, sono immagine della sepoltura di Cristo; lo affermano anche Narrai
10 e Ps.Dionigi 11; e lo ripeteranno dal VII al XVI secolo Massimo Confessore,
Germano di Costantinopoli, Abraham Bar Lipheh, Ps.Giorgio d’Arbela, Nicola
Cavasilas. I canti accompagnano la processione angelica descritta, nel ‘grande
ingresso’ dei Doni. In particolare l’inno cherubico dalle prime parole: Noi che misticamente raffiguriamo
i Cherubini… 12. Un altro
canto più antico è nella liturgia greca di S. Giacomo, cantato ora dai
bizantini il Sabato Santo. La prima frase richiama il silenzio descritto da
Teodoro di Mopsuestia: “Faccia silenzio ogni mortale e stia con timore e
tremore…” 13.
Ancor prima
dell’elaborazione della tipologia del Grande Ingresso, i padri approfondiscono
la teologia della discesa di Cristo agli inferi, mistero che gli orientali
celebrano specialmente a Pasqua. Tra i numerosi esempi, il testo dello Ps.
Crisostomo, sulla santa e grande Parasceve 14: vi è adottato il salmo 23, 7-10,
in forma dialogica. Questo dialogo si svolge nella notte di Pasqua, davanti
alle porte della chiesa ancora chiusa, quando la processione ritorna in chiesa,
dopo il lucernario e al canto: “Sorga Dio e i suoi nemici si disperdano…”.
Dopo che il
sacerdote ha tolto i veli dal Disco e dal Calice, e li ha collocati al lato
della Mensa, prende l’air dalle spalle del diacono e, incensatolo, ricopre i
Doni dicendo:
“Giuseppe
d’Arimatea deposto dalla croce l’intemerato tuo corpo, lo involse in una
candida sindone con aromi e, resigli i funebri onori, lo pose in un sepolcro
nuovo” 15.
Segue ancora
l’incensazione.
I temi che
si sviluppano nei canti che accompagnano la processione dei doni e che si
ritrovano, come abbiamo visto, in Teodoro di Mopsuestia, ricordano Cristo
portato al sepolcro, contemporaneamente re glorioso che discende agli inferi. I
Doni, non ancora sacramento, sono segno e immagine del suo corpo e sangue.
Deposti sull’altare, per gli antichi autori sono il simbolo della sepoltura di
Cristo; invece l’epìclesis, cioè l’invocazione dello Spirito sul pane
e vino, e lo zeòn, cioè l’infusione di acqua calda nel vino consacrato,
celebrano la risurrezione ad opera dello Spirito Santo.
I
Presantificati
L’azione
liturgica in cui i fedeli si comunicano con le specie eucaristiche consacrate
in una Messa precedente, prende il nome di ‘Presantificati’16: ha i suoi
prodromi nella primitiva impostazione delle ferie quaresimali e il suo sviluppo
all’interno della liturgia del Venerdì Santo. Un testo attribuito a S. Sofronio
di Gerusalemme (+638) ne parla come di una istituzione antica, risalente a S.
Giacomo, fratello del Signore, o a Pietro e altri apostoli 17. J.B. Thibaut
intravede un’analogia col cap.IX della Didachè 18. Severo d’Antiochia potrebbe
aver reso pubblico e generalizzato il rito dei Presantificati, che dalla Siria
si sarebbe poi trasferito a Costantinopoli, ove si sviluppò, assumendo il suo
carattere bizantino; questo a partire dal patriarca Sergio (617) che lo
prescrive sin dalla prima settimana di digiuno quaresimale 19.
Il rito dei
Presantificati è particolarmente importante all’interno dello sviluppo della
liturgia bizantina del Venerdì Santo, che colpisce per la sua ricchezza a
confronto con l’austera semplicità romana dell’ufficio dello stesso giorno;
soprattutto se si astrae da quanto v’è di influenza orientale in esso, compreso
appunto questo rito che non è menzionato dai più antichi Ordines Romani, testi normativi della liturgia
latina altomedievale. Solo la chiesa bizantina in oriente possiede questo rito.
Ma se ne può intravedere un parallelo nella solenne azione liturgica romana ‘In
passione Domini’. La struttura dei Presantificati ricalca una liturgia
vespertina, in quanto commemora la deposizione di Cristo nel sepolcro. Andrebbe
collegata a questa la terminologia e la tradizione dei ‘sepolcri’ tra Giovedì e
Venerdì Santo nei paesi latini mediterranei.
L’Epitafio
Un lungo
ufficio si celebra a sera del Giovedì Santo, poi la veglia, soprattutto delle
donne, prosegue fino alle prime ore della notte. Rivivendo il ruolo delle
discepole di Gesù alla sua passione e morte, sono esse in genere a preparare l’Epitafio,
una arca con l’icona ricamata o il velo dipinto della sepoltura di Cristo:
sullo sfondo della Croce che abbraccia tutto l’orizzonte, il piccolo gruppo
fedele compone il Corpo vivificante: la Vergine Maria, la Maddalena e le altre
donne, Giovanni, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. E’ chiamata così in
riferimento all’uso di deporlo sul tafon,
il sepolcro, che nella liturgia bizantina è l’altare. Questo velo, oggetto di
specialissima venerazione il Venerdì e il Sabato Santo, per tutto l’anno è
custodito in chiesa con cura, in una teca assieme alle sante icone; ma il
Venerdì Santo è deposto sull’altare e su di esso si poggia l’Evangelario. Il
lavoro delle donne consiste soprattutto nell’intrecciare e comporre fiori a
profusione, di ogni genere e specie, destinati a ricoprire interamente l’arca
nella quale è posto l’Epitafio. A lavoro ultimato l’arca,
abbondantemente cosparsa di profumi, è esposta all’adorazione dei fedeli per
tutto il giorno; a sera poi è portata in processione al canto delle
lamentazioni. E’ suggestiva quella che ad Atene scende dal monte Licabetto
verso la cattedrale. L’omaggio di fiori e profumi da parte di tutti continua
ininterrotto fino alla liturgia della risurrezione.
Anche
l’elogio di Gesù morto, cantato nell’ufficio del Sabato Santo davanti al suo
sepolcro e presumibilmente composto tra il XII e XIV secolo è chiamato epitafio. Nel Tipikòn della Chiesa di Gerusalemme del 1122,
il libro delle rubriche proprio della chiesa bizantina, non si parla di questo
genere di enkòmia;
mentre sul monte Athos si conservano due veli epitafi del 1346 e del 1397 dove
si trovano ricamati quattro tropari degli enkòmia. Si ignorano gli autori; in
ogni caso la base su cui furono composti questi testi è molto antica; essi
sembrano ispirarsi soprattutto a S. Gregorio Nazianzeno e a S. Romano il
Melode. Si chiamano anche thrènoi o epitafioi
thrènoi, cioè lamentazioni o lamenti funebri. In greco classico con questo
termine si intende soprattutto l’elogio funebre; ma nella lingua liturgica bizantina
più abitualmente, come abbiamo visto, significa il velo ricamato che
rappresenta il corpo del Signore nell’atto della sua sepoltura.
A vespro del
Venerdì Santo, mentre l’Epitàfio è
solennemente riposto nell’arca, figura anch’essa del Sepolcro, tutta ricoperta
di fiori e profumi, si canta l’apolitikion, ossia un breve tropario di
congedo, che condensa il mistero celebrato nel giorno, ritenuto la composizione
poetica più antica di ciascuna officiatura:
Il nobile
Giuseppe, calato dal legno il tuo corpo immacolato, lo avvolse in una sindone
pura con aromi; e gli prestò le ultime cure; e lo depose in un sepolcro nuovo.
Alle donne mirofore, stando presso la tomba, l’angelo gridava: la mirra
conviene ai mortali; ma il Cristo si è rivelato nemico della corruzione! 20
Tutto il
popolo accorre a rendere omaggio. Ci si prostra due volte fino a terra,
facendosi il segno di croce, si bacia il Vangelo e l’immagine di Cristo
impressa sul velo, poi di nuovo ci si prostra fino a terra, segnandosi. C’è
pure l’abitudine di dare ai fedeli, in segno di benedizione, qualche fiore che
abbia toccato la santa immagine. Davanti a quest’arca il sabato santo si
cantano gli enkòmia,
imitando le sante donne mirofore, che, secondo i vangeli, assistettero alla
sepoltura del Signore e all’alba di Pasqua vennero al suo sepolcro per fare sul
suo corpo le unzioni di rito. Ma gli angeli, a loro per prime, annunciarono la
Risurrezione. Si erano assunte un ufficio funebre nei confronti del Signore,
che avevano visto morto, esanime e sepolto, e lui, risorgendo, l’ha tramutato,
apparendo loro vivo e rendendole apostole degli apostoli, come le definisce la
chiesa bizantina.
L’Epitafio nella sua arca è portato in
processione fuori del tempio al canto di un lungo tropario proprio: una
lamentazione di Giuseppe che si rivolge a Pilato per ottenere il corpo di Gesù,
che sottolinea come:
Con questi
discorsi pregava Pilato il nobile Giuseppe e ricevette il corpo del Salvatore;
con timore lo avvolse in una sindone con aromi, e depose in una tomba colui che
elargisce a tutti la vita eterna e la grande misericordia! 21.
La
processione notturna è uno dei momenti più forti della pietà popolare in tutto
l’anno liturgico. All’inizio della veglia pasquale, l’Epitàfio è tolto dall’arca e deposto di nuovo
sull’altare, dove resterà fino alla vigilia dell’Ascensione.
Conclusione
L’Antiminsion con la rappresentazione della
sepoltura di Cristo, la Protesis col simbolismo del suo funerale, il Grande
Ingresso dei Doni con la commemorazione della sepoltura e della risurrezione in
ogni liturgia domenicale, come i Presantificati nel tempo di Quaresima, sono
certamente dettagliati e significativi riferimenti alla sepoltura del Signore,
secondo l’impostazione tipologica della liturgia; ma in particolare l’Epitafio potrebbe essere un impressionante
indizio della presenza della Sindone a Costantinopoli e delle cerimonie solenni
di ostensione. Ma tutta la ricchezza tipologica della liturgia bizantina, a livello
iconografico e innografico, si dispiega particolarmente nel medioevo, quando il
Santo Volto o Mandylion achiropita, il cui originale non manufatto ma prodotto
prodigioso (alcuni ritengono fosse un grande fazzoletto, quello della Veronica
o del re Abgar di Edessa, altri la Sindone ripiegata in otto parti, visibile
nella parte del volto 22) transitava da Gerusalemme a Edessa fino a
Costantinopoli nel 944. Probabilmente l’antico ufficio dell’Epitafio doveva accompagnare la sua ostensione:
scomparso il Mandylion lo si sarà sostituito con l’Epitafio icona o velo. E’ una ipotesi che
attende conferma da ricerche sui manoscritti siriaci e greci. Ma c’è un
precedente più celebre: la reliquia della Vera Croce, frazionata, distribuita e
moltiplicata per contatto e imitazione.
Nella
liturgia bizantina, l’Epitafio, come l’icona del Santo Volto (un velo
dipinto, sorretto dagli angeli) potrebbero essere, dunque, indizio del
prototipo che fino agli inizi del XIII secolo era custodito dalla Grande Chiesa
di Costantinopoli ed oggi noto come la Sindone di Torino.
*.*.*.*.*
1 P. SHERRARD, Constantinople, Iconography of a Sacred
City, London 1965 e ID., Athos the Holy Mountain, London 1982.
2 E. VON
DOBSCUTZ, Christusbilder Untersuchungen zur Christlichen Legende, Leipzig 1899;
A.-M. DUBARLE, Histoire ancienne du linceul de Turin jusqu’au XIIIe siècle,
Paris 1985.
3 R. BONERT, Les commentaires byzantins de la divine liturgie du VIIe au
XVe siècle, Paris 1966, p.37.
4 Sul simbolismo e il rapporto con l’Anastasi di Gerusalemme: E.
HAMMERSCHMIDT E ALTRI, Symbolik der orthodoxen und orientalischen Christentums
(Symbolik der religionen, 10),Stuttgart, 1962.
5 A. RAES,
Antiminsion, Tablit, Tabot: POC 1 (1951), 59-70.
6 La Divina
Liturgia, Roma 1967, p.41.
7 M.
MANDALA’, La protesi della liturgia nel rito bizantino greco, Grottaferrata
1935.
8 R. TONNEAU-R. DEVREESSE, Les Homélies cathéchétiques de Théodore de
Mopsueste [Studi e Testi 145] Vaticano 1949, p. 503 ss.
9 Ibidem.
10 Hom.17.
11 De Eccl.Hier. III.
12
Probabilmente introdotto dall’imperatore Giustino II nel 574 (PG 121, 748B).
13 V. nota
8.
14 PG 62,
722-4.
15 La Divina
Liturgia, p. 91.
16 N. BUX,
La liturgia degli Orientali, Bari 1996, pp. 149-155.
17 Commentarius liturgicus, 1, PG LXXXXVII c. 3981.
18 Origìne de la Messe des présanctifiés, EO XIX (1920), 36-49.
19 Chronicon
Paschale, PG XCII, 989.
20 Liturgia
orientale della Settimana Santa, Roma 1974, II, p. 112.
21 Ibidem,
p. 171.
22 Questo
potrebbe anche essere all’origine dell’uso della riza, la lamina che spesso
ricopre le icone.
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