Fate ogni cosa per la gloria di Dio (1Cor. 10, 31)

Lo scopo finale della musica non deve essere altro che la gloria di Dio e il sollievo dell'anima (Johann Sebastian Bach)

sabato 5 luglio 2014

La paternità spirituale: note di un padre spirituale athonita

dell’archimandrita Sofronio
Tratto da: Père Sophrony, La prière, expérience de l’éternité, Le Sel de la Terre/Cerf, 1998.

Padre Sofronio
 
In un modo inatteso e incomprensibile, la Provvidenza divina mi ha posto in circostanze che mi hanno permesso di essere testimone, per un lungo periodo, della vita spirituale di numerosi asceti della Santa Montagna. Alcuni di essi furono disposti a rivelarmi degli aspetti della loro vita che non avevano certamente rivelato ad altri. Ero commosso di vedere degli eletti di Dio nascosti sotto apparenze modeste. A volte, custoditi da Dio, essi non comprendevano quale benedizione ricca riposava su loro.
 
Era soprattutto dato loro di osservare i loro errori, a tal punto, a volte, che non osavano neppure immaginare che Dio riposasse in loro e loro in Dio. Alcuni avevano ricevuto la grazia di contemplare la Luce increata, ma non avevano preso coscienza del carattere spirituale di questo evento, anche perché conoscevano poco le opere patristiche che descrivono questa forma di grazia. La loro ignoranza li proteggeva da una possibile caduta nella vanità. Conformemente alla tradizione della paternità spirituale ortodossa, non spiegavo loro ciò che il Signore ad essi concedeva in realtà. Per aiutare un asceta, occorre parlargli in modo che il suo cuore e il suo intelletto si umilino, altrimenti la sua ascesa ulteriore sarà arrestata.
 
Mi ricordavo di ciò che lo staretz Anatoli, che viveva al Vecchio Rossikon, aveva detto a Silvano, ancora giovane novizio: “Se sei già ora come sei, cosa sarai dunque nella tua vecchiaia?”. Con queste parole, lo staretz Anatoli precipitò per lunghi anni Silvano nelle fiamme di tentazioni da cui uscì evidentemente vincitore, ma ad un prezzo estremamente elevato. La forza della visione di Dio che gli era stata concessa trionfò sul dinamismo degli attacchi del Nemico; quindi è uscito dal suo eccezionale combattimento spirituale arricchito come pochi lo sono stati durante tutta la storia della Chiesa. Ci ha lasciato per la nostra istruzione il suo insegnamento sulla distinzione tra l’umiltà ascetica e l’“indescrivibile umiltà di Cristo”. Ma, per Silvano, il rischio della perdizione fu grande, come lo è per ogni cristiano e, generalmente, per ogni uomo. L’orgoglio costituisce il nucleo della caduta spirituale; rende gli uomini simili a demoni. Dio è caratterizzato dall’amore umile; la fiamma di quest’amore porta la redenzione agli uomini caduti per introdurli nel Regno del Padre celeste.
 
Spetta al confessore sentire il ritmo del mondo interiore di tutti quelli chi si rivolgono a lui. A questo scopo, prega perché lo Spirito divino lo guidi e gli dia la parola necessaria per ciascuno.
Il servizio del confessore è temibile e, allo stesso tempo, appassionante. È doloroso ma stimolante. Il confessore è “cooperatore di Dio “ (cf. I Corinzi 3, 9). È chiamato alla più alta forma di creazione, ad un onore incomparabile: creare degli dei per l’eternità nella Luce increata. In tutto, ovviamente, segue l’esempio di Cristo (vedi Giovanni 13, 15) di cui ecco l’insegnamento: In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati. Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole (Giovanni 5, 19-21).
 
È estremamente difficile trovare le parole giuste, in grado di comunicare gli stati spirituali a chi ascolta. È indispensabile che il confessore conosca, per esperienza personale, possibilmente tutta la gamma degli stati spirituali di cui si può parlare agli altri. Nella sua Lettera al pastore, san Giovanni il Sinaita (Climaco) dice sull’argomento: “Il pilota è colui che ha ottenuto, con la grazia di Dio e con la sua fatica, una forza spirituale che lo rende capace di strappare il vascello non soltanto alle onde in tempesta, ma all’abisso stesso. Il vero maestro è colui che porta in sé il libro spirituale della conoscenza scritta dal dito di Dio, cioè con l’operazione dell’illuminazione che viene da lui, e che non ha più bisogno di altri libri. È una vergogna per i maestri insegnare copiando gli altri. Tu che istruisci coloro che sono posti più sotto di te, insegna ciò che è dall’alto ed essendo tu stesso istruito dall’alto. [...] Poiché è impossibile a quelli che giacciono a terra curare gli altri”. Sono state proprio queste le istruzioni che ho ricevuto quando mi sono impegnato nell’ascesi della paternità spirituale. In sostanza, quest’opera mira alla nascita della parola di Dio nel cuore con la preghiera. Così, quando qualcuno disse a san Serafim di Sarov che era chiaroveggente, quest’ultimo rispose che non era per niente così, ma che pregava mentre parlava con una persona; occorreva quindi considerare come “dato da Dio” il primo pensiero che gli sorgeva nel cuore con la preghiera.
 
Il servizio del confessore è un’opera temibile. Infatti, se la gente viene a un sacerdote nella speranza di sentirlo formulare chiaramente la volontà di Dio al loro riguardo, e, invece di ciò, dà un consiglio che proviene dal suo ragionamento – che può non essere piacevole a Dio –, li getta verso una via erronea e causa loro un certo danno. San Serafim diceva che quando parlava seguendo “la sua intelligenza, si producevano degli errori”. Una volta, in occasione di una conversazione su tale questione, il beato Silvano precisò che gli “errori” potevano essere tanto leggeri quanto estremamente gravi, come lui stesso aveva sperimentato all’inizio della sua vita monastica.
 
Cosciente di essere lontano dalla perfezione necessaria, supplicavo lungamente il Signore, con un dolore nel cuore, di non lasciarmi autoingannare, di tenermi sulle vie della sua volontà, di suggerirmi parole utili per i miei fratelli. E all’ora stessa della conversazione, cercavo di mantenere l’“orecchio” del mio intelletto sul mio cuore, per cogliere il pensiero di Dio e spesso anche le parole che mi occorreva dire. L’attuazione di questo santo principio della tradizione ortodossa incontra nella pratica delle difficoltà inestricabili. Gli uomini, soprattutto quando sono istruiti, si attengono fermamente ad un altro principio: la loro ragione. Ogni parola del sacerdote è per loro semplicemente quella di un altro essere umano; quindi, è sottoposta al loro giudizio critico. Seguire senza ragionare l’indicazione di un confessore sarebbe ai loro occhi follia. Ciò che lo spirituale vede e comprende, lo psichico non lo accetta in alcun modo e lo respinge, poiché vive su un altro piano (cf. I Corinzi 2, 10; 14).
 
Io stesso, quando incontro persone che si muovono con i loro impulsi e respingono il consiglio che il sacerdote ha ricevuto con la preghiera, rifiuto di chiedere a Dio di rivelare loro la sua santa e perfettissima volontà. In questo modo, evito di metterli in una situazione di conflitto con Dio, contenendomi nell’esprimere loro la mia opinione personale, sebbene corroborata da riferimenti alle opere dei santi Padri o alla Sacra Scrittura. Così risparmio loro di entrare in lotta con Dio e concedo loro in un certo qual modo il diritto di rifiutare – senza commettere peccato – il mio consiglio, come fosse soltanto quello di un altro uomo. Ma indubbiamente, questo è molto lontano da ciò che cerchiamo nei sacramenti.
 
Non è per niente semplice per un monaco assumere il carico di padre spirituale. Da un lato, gli è personalmente utile che la gente abbia un’opinione estremamente negativa di lui, poiché le critiche lo aiutano ad umiliarsi. Da un cuore addolorato si eleva a Dio una preghiera più profonda. Quando il monaco stesso vive in una sofferenza simile a quella di una moltitudine di uomini sulla terra, grida più facilmente verso Dio per la salvezza del mondo intero. D’altra parte, se assume il servizio della paternità spirituale, ogni cattiva parola al suo riguardo renderà diffidenti delle persone che hanno bisogno di istruzioni, di consolazioni, di sostegno. Il monaco è dunque doppiamente afflitto: inizialmente per sé stesso, come indegno della sua vocazione; in seguito, a causa del danno causato a tutta la Chiesa, a tutta l’umanità, quando l’autorità del sacerdote è compromessa. La disobbedienza alla parola dei padri spirituali equivale al rifiuto della parola di Cristo che ha detto: Chi ascolta voi ascolta me; chi respinge voi respinge me (Luca. 10, 16).
 
Anche se tale o tal altro servo della Chiesa ha alcuni difetti – chi è perfetto fra gli uomini? –, occorre ispirare i fedeli a confidare nei sacerdoti ai quali potrebbero facilmente rivolgersi per ragioni geografiche o altri motivi. La fiducia dei fedeli sarà per i sacerdoti una fonte d’ispirazione per dire una parola di verità. Sappiamo, secondo le parole del Signore, che “la cattedra di Mose” è occupata da uomini indegni. Tuttavia, Cristo raccomandò al popolo di ascoltare i suoi pastori, di osservare ciò che potrebbero comandare senza peraltro imitare il loro modo di vivere o i loro atti (cf. Matteo 23, 1-3).
 
Quando incontra persone che gli comunicano le loro visioni, il confessore è innanzitutto attento a distinguere correttamente le loro origini: sono state realmente date dall’alto o sono soltanto il frutto di una fervida immaginazione, o la conseguenza dell’influenza di spiriti ostili? Questo compito è a volte difficile e dà una responsabilità estremamente pesante. Se attribuiamo ciò che è dato da Dio ad una potenza avversaria, rischiamo di cadere nella bestemmia contro il Santo Spirito (cf. Matteo 12, 28-32). Al contrario, se prendiamo un’influenza demoniaca come divina, inciteremo il penitente che si affida a noi a venerare i demoni. Ne consegue che, per ogni confessore senza eccezione, è indispensabile pregare con fervore e continuamente, in generale e in ogni caso particolare, perché il Signore stesso lo conservi dal commettere errori nei suoi giudizi.
 
Quando la situazione non è chiara, il confessore può ricorrere ad un procedimento psicologico: proporre al penitente di diffidare di fenomeni insoliti di qualsiasi tipo. Se la visione è realmente venuta da Dio, l’umiltà prevarrà nell’anima del penitente e accetterà con calma il consiglio di essere sobrio e vigilante. Nel caso inverso, può darsi che il penitente reagisca negativamente e cerchi di provare che la visione non possa che venire da Dio. Allora, si ha qualche ragione di dubitarne. Certamente, questo metodo non è nulla di più che un palliativo e non bisogna ricorrervi alla leggera. L’esperienza ha dimostrato che quando qualcuno tenta il suo fratello, lo incita così ad irritarsi e affliggersi.
 
Gli startzi spirituali non sono necessariamente sacerdoti o monaci. È ciò che mostra la storia della Chiesa Russa dei secoli XVIII e XIX, quando numerosi atleti della pietà, portatori di una grande grazia, si allontanarono dal sacerdozio e dal monachesimo per restare liberi di condurre la loro vita ascetica al riparo dal controllo degli organi ufficialmente istituiti. Questo fenomeno spiacevole, dannoso a tutta la vita della Chiesa, non era sempre determinato da disposizioni anarchiche contro il principio stesso dell’istituzione ecclesiastica. Leggendo le opere scritte da questi eroi dello spirito, è facile vedere che molti tra loro furono uomini timorati di Dio, di una spiritualità realmente elevata e che erano stati ovviamente gratificati di benedizioni e di doni venuti dall’alto. La loro vita non incontrò benevolenza né presso la gerarchia ecclesiastica, né presso i poteri civili e le amministrazioni governative. La fuga di alcuni dinanzi al sacerdozio e il monachesimo si spiega ancora con il fatto che, appena un servo di Cristo rivestiva l’abito monastico, ciascuno si riteneva in diritto di giudicarlo. Questo giudizio era sovente ingiusto, malevolo, calunnioso. Molto spesso, coloro che erano particolarmente dotati subirono anche persecuzioni brutali, perché la loro vita superava la comprensione dei dirigenti.
 
Conformemente al principio pastorale dei Padri, nessun padre spirituale deve comandare ai suoi figli spirituali azioni che neanche egli stesso ha compiuto. Non penso che l’apostolo Paolo sia stato a questa riguardo meno rigoroso dei Padri. La ricezione di persone che attraversano prove dolorose non può essere regolata o organizzata arbitrariamente; non si possono fissare alcune ore per l’accoglienza di quanti sono afflitti, e altre per quelli che sono gioiosi. Ne consegue che ogni pastore deve essere sempre pronto a piangere con quelli che piangono e a rallegrarsi con quelli che sono nella gioia, ad essere schiacciato con quelli che sono nella disperazione e a rafforzare nella fede coloro che sono tentati. Ma anche qui, come in tutta la nostra vita, il Signore è il nostro primo esempio. Vediamo secondo il racconto evangelico come, in particolare durante i suoi ultimi giorni e ore, il Signore viveva contemporaneamente la pienezza – inaccessibile per noi – della sofferenza e del trionfo della vittoria. Viveva allo stesso tempo la morte e la gloria divina: Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso (Matteo 26, 2). Non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio (Matteo 26, 29).
 
Ciò che avevo vissuto, da un lato, mi aiutò nel mio servizio come confessore, all’inizio sulla Santa Montagna con i monaci, quindi in Europa con persone di età, di stati psichici e di livelli intellettuali diversi; ma, d’altra parte, ciò mi indusse anche in errore. Pensavo che tutti tendessero verso Dio con lo stesso slancio, del che mi sbagliavo. Non è sempre giusto giudicare secondo sé stesso.
 
Benché profondamente cosciente della mia mediocrità, non potessi rifiutare il servizio di confessore che mi era imposto. Non l’avevo affatto cercato. Generalmente, a quell’epoca, non cercavo nulla in questo mondo, perché tutto il mio essere era teso verso Dio contro il quale avevo così gravemente peccato. Condannato da me stesso in spirito, vivevo nell’inferno. Se, in alcuni momenti soltanto, ho potuto provare sofferenza a causa dell’ostilità di alcuni padri e fratelli del monastero, di solito mi era perfettamente indifferente occupare questa o quella posizione in questo mondo, e non ero toccato dal comportamento dei monaci più vecchi o più giovani al mio riguardo. Non conoscevo la gelosia. Per me, non esisteva alcun rango sociale o gerarchica che avrebbe potuto calmare il fuoco che divorava il mio cuore. È possibile che la presenza di questo fuoco interiore abbia suscitato ad alcuni un’irritazione contro di me; forse, a causa di questo fuoco, il mio comportamento appariva agli altri un po’ insolito. Chi sa? Ciò che è sicuro, è che, con tutte le mie forze, avevo bisogno del perdono di Dio e che non prestavo attenzione a null’altro.
 
Poca prima della sua morte, lo staretz Silvano mi disse una volta all’improvviso: “Quando sarete padre spirituale, non rifiutate di accogliere coloro che verranno a voi”. In quel periodo, mi sentivo al limite delle mie forze fisiche, indebolito dalla malaria che mi ha tormentato in una forma leggera durante questi anni. Non sapendo quanto tempo mi rimaneva da vivere, non feci attenzione alle parole dello staretz. Pensavo: “Lo staretz non si rende conto di quanto sono malato”; infatti, il suo consiglio scomparve rapidamente dalla mia coscienza.
 
Mi ricordai quattro o cinque anni più tardi, quando, egualmente all’improvviso, fui invitato dall’igumeno del monastero di Agiou Pavlou, l’archimandrita Serafim, a diventare confessore. Certamente, per obbedienza allo staretz Silvano, non feci nessuna obiezione e dissi che sarei andato da loro al giorno fissato.
L’esercizio della paternità spirituale che mi era affidata cambiò radicalmente il corso della mia vita, non nel senso di un approfondimento, ma facendomi perdere la grazia. La mia ricerca precedente non sopravvisse nella sua integrità. Dimorare costantemente nell’“uomo interiore” non era più possibile, poiché concentravo la mia attenzione su ciò che mi dicevano coloro che venivano a me per confessarsi. Sapevo che là, all’interno, era l’inizio e che là erano la fine e il compimento; di là si parte, ed è là che si torna. Senza una preghiera fervente che viene dal cuore per chiedere a Dio una parola e la sua benedizione continuamente, il servizio del confessore è inutile; senza un’ispirazione costante venuta dall’alto, anche la Chiesa si trasformerebbe in una delle forze semicieche di questo mondo che, con i loro conflitti, portano la distruzione alla vita della terra.
 
In cosa consiste il compito del confessore? Occuparsi attentamente di ogni persona per aiutarla ad entrare nella sfera della pace di Cristo; contribuire alla rinascita e alla trasfigurazione degli uomini con la grazia del Santo Spirito; inspirare coraggio ai pusillanimi per combattere la battaglia di una vita secondo i comandamenti del Signore; in una parola, la formazione spirituale di ciascuno. “Formazione” viene dalla parola “forma”. Un vescovo serbo (Nikolaj Velimirovitch, vescovo di Ohrid e di Jitcha, 1880-1916) ha scritto cose notevoli sull’argomento: “Che forma se non quella che si dà nelle nostre scuole contemporanee? Quale di queste scuole sa che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio senza principio? È apparso sulla terra e si è rivelato all’uomo; e sappiamo ora che la vera educazione consiste nel ristabilire l’immagine di Cristo – perduta nella caduta – nei discendenti di Adamo”.
 
Nel suo ministero, il confessore è obbligato sempre a pregare per gli uomini, vicini e lontani. Con questa preghiera, si immerge in una nuova vita per lui. Pregando per quelli che sono nella disperazione a causa di difficoltà insormontabili nella lotta per l’esistenza, prova della preoccupazione, dell’ansia per loro. Pregando per i malati, sente il timore della loro anima dinanzi alla morte. Pregando per quelli che sono nell’inferno (nell’inferno delle passioni), sperimenta lui stesso uno stato infernale. Vive tutto ciò in sé stesso, come suo proprio tormento. Ma, in realtà, non è suo: non fa che ricevere e portare i pesi di altre persone. Di primo acchito, non comprende ciò che gli accade; è nella perplessità; non sa perché è nuovamente attaccato e anche maggiormente di prima – dalle passioni, di cui molte gli erano fino a qui sconosciute. È soltanto più tardi che si rende conto che è stato trascinato nella lotta per la vita di altre persone, che la sua preghiera ha raggiunto la realtà spirituale di quelli per cui è offerta a Dio. È oppresso dal soffio della morte che ha colpito il genere umano. La sua preghiera personale e liturgica assume dimensioni cosmiche.
 
A volte, la lotta per la vita di coloro che gli sono affidati dalla Provvidenza dell’Altissimo non dura a lungo: bastano alcune parole, che scaturiscono dal cuore verso il Dio dell’amore. Ma ci sono anche altri casi dove la prova si prolunga. Benché dia la sua vita, il confessore non si sente ancora completamente liberato dalle passioni. Prega per gli altri come per sé stesso, poiché la loro vita si è legata alla sua. Si pente per sé stesso e per gli altri. Implora il perdono dei peccati per “noi tutti”. Il suo pentimento diventa un pentimento per il mondo intero, per tutti gli uomini. In questo movimento del suo spirito si trova una somiglianza col Cristo che ha preso su di sé i peccati del mondo. Questa preghiera è ingrata: non si vede mai il risultato che è ricercato, poiché il mondo, nel suo insieme, respinge questa preghiera con ostilità.
 
Quando si prega per gli uomini, il cuore percepisce spesso il loro stato spirituale o psichico. Grazie a ciò, il confessore può girare i loro stati interiori: la soddisfazione e la felicità nell’amore, l’esaurimento dovuto al lavoro eccessivo, il timore delle disgrazie che incombono, l’orrore della disperazione e così via. Ricordandosi davanti al Signore di quelli che sono malati, si china in spirito sui letti di milioni di esseri umani messi ogni instante di fronte alla morte, immersi in agonie terribili. Prestando attenzione ai morenti, il sacerdote entra naturalmente in spirito nell’aldilà; partecipa sia al calmo abbandono dell’anima a Dio, sia allo spavento dinanzi all’ignoto che colpisce l’immaginazione ancor prima che si verifichi la partenza da questo mondo. Se lo stare al capezzale di una sola persona agonizzante ci offre uno spettacolo sconvolgente in contrasto con la nostra rappresentazione del primo uomo creato, il pensiero di tutta la sofferenza sulla terra supera ciò che la nostra psiche e anche il nostro corpo possono sopportare.
 
Per il sacerdote e il confessore, è una soglia critica: cosa fare? Occorre chiudere gli occhi su tutto a favore di un istinto di autoconservazione naturale a noi tutti, o, al contrario, occorre andare più lontano? Senza l’ascesi preliminare di un profondo pentimento ricevuta come un dono dall’alto, questo “più lontano” è inaccessibile all’uomo. In realtà, si tratta già di seguire Cristo al giardino del Getsemani e al Golgota, per vivere con lui, con la sua forza, la tragedia del mondo come nostra tragedia personale, per abbracciare in spirito, al di là del tempo e dello spazio e con un amore compassionevole, tutto il genere umano sprofondato in conflitti senza uscita. Il cuore della tragedia universale consiste in ciò che abbiamo dimenticato avendo anche respinto la nostra vocazione originale. La passione funesta dell’orgoglio può essere superata soltanto con un pentimento totale, grazie al quale la benedizione dell’umiltà di Cristo scende sull’uomo, benedizione che ci fa figli del nostro Padre celeste.
 
Ecco sono già tanti anni che mi sforzo di fare capire a quelli che si rivolgono a me che devono accogliere le prove che li colpiscono non come eventi che si verificano soltanto nei limiti della loro esistenza individuale, ma anche come una rivelazione di ciò che tutta l’umanità vive e ha vissuto durante i millenni passati. Ogni esperienza, che sia di gioia o di dolore, può portarci una nuova conoscenza, indispensabile per la nostra salvezza. Quando viviamo in noi stessi tutta la realtà umana, tutta la storia dell’umanità, rompiamo il cerchio chiuso della nostra “individualità”, penetriamo nei vasti spazi della forma “ipostatica” dell’essere, diventiamo vincitori della morte e partecipi dell’infinità divina.

Nessun commento:

Posta un commento