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Lo scopo finale della musica non deve essere altro che la gloria di Dio e il sollievo dell'anima (Johann Sebastian Bach)

martedì 9 febbraio 2016

Commento al Simbolo della Liturgia

di Vladimir Lossky e Pierre L’Huillier

L’introduzione e il commento dell’articolo 1 del Simbolo di Nicea-Costantinopoli furono redatti da Vladimir Lossky poco prima della sua morte nel 1958. I commenti degli altri articoli furono scritti dall’archimandrita Pierre L’Huillier (consacrato vescovo nel 1968). Il testo fu pubblicato nella rivista Contacts, n 38-39, 1962.

Introduzione

Il Credo o Simbolo della fede è una confessione solenne dei dogmi cristiani, letta o cantata durante la liturgia, prima dell’inizio [della celebrazione] del mistero eucaristico. La prima parola di questo testo sacro in latino – Credo, “io credo” – si riferisce agli articoli che seguono e danno a questa espressione della fede comune del popolo cristiano il valore di un impegno personale di ciascun membro della Chiesa che dice, con tutti gli altri: “credo” e più avanti “confesso”, “attendo” (o “spero”).

Ma basta confessare con le labbra, anche quando si fa con la massima devozione, se il pensiero non aderisce al senso profondo di quelle parole trovate dai Padri della Chiesa per mettere la verità rivelata alla portata di ciascuna intelligenza illuminata dalla fede in Cristo? Un grande teologo ortodosso del secolo scorso (XIX), il metropolita Filarete di Mosca, distingueva tra fede-Verità rivelata e fede-adesione cosciente alla Rivelazione. Una cieca fedeltà all’autorità della fede non è sufficiente per “avere la fede”: «finché la vostra fede risiede nella Santa Scrittura e nel Simbolo, essa appartiene a Dio, ai suoi Profeti, ai suoi Apostoli, ai Padri della Chiesa; non è ancora la vostra fede. Comincerete ad acquistare la fede, quando l’avrete nei vostri pensieri, nella vostra memoria…».

Occorre dunque studiare i dodici articoli del Simbolo della fede, affinché le parole che ascoltiamo ad ogni Liturgia sveglino il nostro pensiero e ci rendano così membri coscienti della Chiesa di Cristo. Prima di cominciare l’esame dei dogmi cristiani espressi succintamente nel Credo, vanno dette alcune parole sulla storia di questa “regola della fede” che ha ricevuto autorità universale nella Chiesa.

Prima dell’inizio del IV secolo, i “simboli” o brevi formulazioni della fede cristiana erano legati soprattutto al battesimo e alla preparazione catechetica. Erano dunque assai numerosi e variavano secondo le pratiche locali delle Chiese. Nel II secolo le formule di confessione, che i neobattezzati dovevano pronunciare nel giorno del loro battesimo, si chiamavano “regola” o “canone” di fede. Un nuovo tipo di Credo, rispondente alla necessità di definire l’insegnamento ortodosso in opposizione alle dottrine eretiche, appare nel IV secolo: sono i simboli conciliari, che non sono legati unicamente alla pratica battesimale, ma ricevono un posto più largo nella vita della Chiesa.

Il primo Credo promulgato da un concilio generale fu quello di Nicea (325). Era un Credo locale (“battesimale”), probabilmente della Chiesa di Gerusalemme, rimaneggiato da una commissione di teologi che ha dovuto amplificarlo per rendere più esplicita la confessione della divinità di Cristo, contro l’arianesimo. Questo Credo aveva ancora autorità universale di confessione dogmatica nei Concili di Costantinopoli (381), di Efeso (431) e di Calcedonia (451).

Il Credo che oggi utilizziamo con il nome di “Simbolo di Nicea-Costantinopoli” ha solo una somiglianza generale con il primo Credo di Nicea. Il nostro Credo era, originariamente, una fra le espressioni della “fede di Nicea”, contenente una confessione della divinità di Cristo molto sviluppata, nata dopo il 370 nella famiglia dei simboli battesimali di Antiochia-Gerusalemme. Questo Credo di tipo liturgico è stato probabilmente ritoccato a Costantinopoli dai Padri del II Concilio ecumenico per uso battesimale, senza intenzione di sostituirlo al simbolo di Nicea. Lo si legge con quest’altro nel IV Concilio (Calcedonia) come formula dogmatica ufficialmente riconosciuta e in questa qualità si trova introdotto nella pratica liturgica della capitale dell’Impero. Verso la fine del V secolo, questo Credo liturgico di Costantinopoli sarà considerato coma la formula completa e definitiva del Credo di Nicea, che esso andrà a sostituire. Sarà accolto ovunque come la “regola di fede” perfetta e sostituirà gli altri simboli, battesimali o conciliari, della fede cristiana. Il VI Concilio ecumenico (680) confermerà d’autorità il Credo detto “di Nicea-Costantinopoli”.

La cristianità di Occidente ha conservato, accanto a questo Credo universale, un simbolo locale, detto “il Credo degli Apostoli”. Le prime origini di questo Credo battesimale latino devono risalire, senza dubbio, ad una antichità assai venerabile, ma la sua formulazione definitiva data soltanto dal VI secolo.

Articolo 1

Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra, e di tutte le cose visibili e invisibili.

Il Dio della rivelazione cristiana, il Dio della Santa Scrittura e della fede tradizionale della Chiesa, non è un Essere impersonale, un Assoluto senza volto, indifferente al destino delle persone umane. Il monoteismo dei cristiani non è quello dei filosofi. Si distingue anche dal monoteismo restrittivo delle tradizioni religiose come il giudaismo e l’islam che riconoscono il Dio vivente e personale dell’Antico Testamento, senza però ammettere che questo Dio-Persona possa distinguersi dalla sua Essenza assoluta ed uscire, per così dire, dalla sua solitudine, per essere più di una Persona, ricondotta alla sua unicità. La pienezza della rivelazione appartiene al Nuovo Testamento: il Figlio di Dio si è fatto uomo e ci ha reso idonei a ricevere lo Spirito Santo che procede dal Padre. Il Dio unico e personale del cristianesimo è una Tri-Unità di Persone. È per questo che Cristo risuscitato mandò i suoi discepoli per “fare in tutte le nazioni discepoli, battezzandoli nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28, 19). Il Credo della Chiesa è una spiegazione di questa formula battesimale.

L’articolo iniziale, nel quale si professa la fede “in un solo Dio”, si riferisce alla Prima Persona della Trinità, al Padre che è il Principio personale della Divinità invisibile, comune alle Tre Persone. I Tre – Padre, Figlio e Spirito Santo – sono ugualmente Dio, senza però essere “tre Dei”, ma “un solo Dio”, una sola essenza, sostanza o natura in tre Ipostasi o Persone. In virtù di questa unità assoluta di essere, nulla distingue le Persone della Trinità, eccetto i modi di sussistere propri di ciascuna: innascibilità del Padre, generazione del Figlio, processione dello Spirito. Bisogna aggiungere che queste proprietà personali pongono una triplice relazione che, pur permettendo di distinguere il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ci deve insegnare a correlazionare positivamente ogni Persona con le altre due, senza mai isolarle nel nostro pensiero. Così, parlando del Padre Onnipotente e “Creatore”, non dimentichiamo che ha creato tutto attraverso il suo Verbo (Gv 1, 3) e che la stessa potenza creatrice non è estranea allo Spirito–vivificatore.

Bisogna notare che l’espressione “onnipotente” benché sia giusta, non rende fedelmente il valore della parola greca Pantocrator, che vuol dire “Signore di ogni cosa”: Dio che mantiene tutto in esistenza. Solo il Dio della Bibbia, che rivelò il suo Nome a Mosè, dicendo “Io sono Colui che sono” (Es 3, 14), è “Creatore” nel senso assoluto del termine, Produttore dell’essere a partire dal non-essere. Non è un Artefice divino, un “Demiurgo” organizzatore di una materia eterna informe, di un caos preesistente al mondo. Se Dio ha creato tutte le cose “dal nulla”, non si deve immaginare che un “nulla” preesistesse alla creazione come una possibilità di essere. Il “nulla” non è un principio che potrebbe essere opposto all’Essere assoluto di Dio: questa espressione si carica di senso unicamente in rapporto all’essere creato che cominciò ad esistere, senza che vi sia stata alcuna condizione precedente a questo “inizio” (Gn 1, 1) al di fuori della volontà onnipotente di Dio. Non si deve credere neppure che questa assenza di condizioni esterne ci obblighi a supporre che Dio creò tutto “ da sé”, con una sorta di emanazione, di esteriorizzazione: il mondo non è la Divinità degradata e sminuita, ma un essere assolutamente nuovo, prodotto all’esistenza da un Creatore che non è stato spinto a creare da nessuna necessità interna. La creazione è un atto assolutamente libero, un atto gratuito della volontà di Dio, che non vuol dire un atto “arbitrario”: l’ordine dell’universo ci fa conoscere la Bontà, la Saggezza, l’Amore del Creatore che diede al mondo un senso una destinazione supremi sottomettendolo agli esseri personali e liberi, creati “ad immagine e somiglianza” di Dio (Gn 1, 26-27).

Il cielo e la terra”, espressione scritturale (Gn 1, 1), che deve indicare l’insieme del cosmo, tutto ciò che esiste essendo creato da Dio, riceve nell’esegesi patristica un significato disgiuntivo, quello delle realtà spirituali e corporali, del mondo invisibile degli spiriti “celesti” e del mondo visibile nel quale viviamo, al quale siamo strettamente legati dalla condizione biologica della nostra corporeità “terrena”. Si nota che questa distinzione tra il “cielo” e la “terra” non implica affatto la necessità di ammettere una cosmologia geocentrica. Occorre dire, in generale, che il “conflitto tra scienza e la religione” è un falso problema che oggi dovrebbe preoccupare soltanto alcuni credenti male informati o alcuni scienziati limitati, che erigono a dogmi del “materialismo” le loro negazioni arbitrarie di tutto ciò che va oltre il campo visivo delle scienze sperimentali. Non esplorando gli spazi cosmici, infatti, si scoprirà l’immensità spirituale dell’universo creato. Non sarà neppure la fisica nucleare a farci conoscere, analizzando la struttura della materia, l’energia onnipotente del Creatore che conferisce l’esistenza a “tutte le cose visibili e invisibili”.

Articolo 2

E in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli, Luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo del quale tutte le cose sono state create.

C’è una evidente disparità nel Simbolo tra il solo articolo riferito alla prima Persona della Santa Trinità ed i sei articoli che riguardano la seconda Persona. La cosa è facilmente comprensibile: il credere in un Dio onnipotente, creatore dell’universo, era comune sia al giudaismo che al cristianesimo. Mentre le cose stanno completamente in modo diverso per quanto concerne la persona e l’opera di Nostro Signore Gesù Cristo.

Per cominciare, la relazione di Dio Padre con il Figlio pone la questione del monoteismo: il Nuovo Testamento afferma espressamente la divinità di Cristo (Gv 1, 1) senza rinunciare minimamente al monoteismo stretto, il Padre e il Figlio sono Uno; questo lo dice il Signore stesso (Gv 17, passim), ma il modo di comprendere questa unità, o piuttosto l’approccio umano di questa verità è stato oggetto di aspre controversie. Furono approntate due false soluzioni: quella dei modalisti, che negano qualsiasi distinzione tra padre e Figlio, e quella degli Ariani, che non riconoscevano al Figlio la pienezza della divinità. D’altronde, il carattere assolutamente reale dell’umanità di Cristo fa sorgere la questione della relazione dell’umano e del divino nel suo essere. Le controversie su questo secondo punto tuttavia si sono ampliate solo successivamente alla redazione del nostro Credo e la Chiesa ha dovuto precisare con altre definizioni – precisamente quelle del Concilio di Efeso (431) e di Calcedonia (451) – ciò che già era affermato nel Simbolo di Nicea-Costantinopoli.

A questo punto occorre aprire una parentesi per sottolineare che gli articoli del Credo che si riferiscono alla Persona e all’opera di Cristo, così come le definizioni dei Concili ecumenici successivi, non possono in alcun modo essere considerati vane speculazioni che avrebbero, per così dire, alterato la purezza del messaggio evangelico, perché ciò che la Chiesa difende in questi dogmi è proprio ciò che c’è di più fondamentale nella rivelazione neo-testamentaria: l’annuncio della salvezza offerto all’umanità in Gesù Cristo. Ora, se Cristo non è realmente e pienamente Dio e Uomo, l’abisso tra il divino e l’umano resta invalicabile. Ritorneremo su questo punto quando affronteremo gli articoli del Simbolo riguardanti l’incarnazione e la Redenzione.

Nel secondo articolo del Simbolo della Fede, la Chiesa confessa innanzitutto l’unicità del Figlio di Dio; viene scartata perciò direttamente l’interpretazione eretica dell’adozionismo, secondo la quale Gesù sarebbe stato un uomo adottato da Dio. Solo Gesù Cristo è per natura Figlio di Dio; l’adozione dei cristiani che, con il battesimo, diventano in Cristo figli di Dio, non elimina affatto la distinzione radicale tra l’increato e la creatura. Noi diventiamo figli di Dio per grazia, Cristo lo è per natura, e noi lo possiamo diventare, soltanto perché Cristo lo è per natura.

Confessando che il Figlio è “nato dal Padre prima di tutti i secoli” non affermiamo che la nascita è semplicemente anteriore alla creazione, ma che essa è al di fuori del tempo, poiché la nozione di tempo è legata a quella della creazione. Per questo nell’Evangelo leggiamo quella parola del Signore “Prima che Abramo fosse, io sono” (Gv 8, 58), e non “io ero”, che avrebbe evidenziato soltanto l’anteriorità nel tempo. Occorre notare che questa affermazione della nascita “prima di tutti i secoli” era discretamente diretta contro la formula blasfema degli Ariani a proposito del Figlio: “Ci fu un tempo in cui egli non esisteva”.

Il Figlio è “Luce da Luce, Dio vero da Dio vero”, perché ad eccezione delle nozioni personali (cioè le proprietà per mezzo delle quali noi distinguiamo nella Santa Trinità una Persona dall’altra), le tre Persone divine sono assolutamente identiche; questo lo fa notare san Gregorio di Nissa: “Se confessiamo la natura di Dio senza variazione - scrive – non neghiamo la differenza tra la Causa e il causato, ed è soltanto in ciò che l’uno si distingue dall’altro” (Quod non sint tres dii, PG 45, 133).

Per esprimere questa perfetta similitudine del Padre e del Figlio, l’apostolo Paolo ci dice che Cristo è immagine di Dio ( 2 Cor 4, 4); nell’Epistola agli Ebrei, la relazione del Figlio nei confronti del Padre è espressa in questi termini: Risplendente della sua gloria, impronta della sua sostanza (1, 3). Un padre del III secolo, san Gregorio Taumaturgo, vescovo di Nuova-Cesarea, ha riassunto meravigliosamente questa teologia dell’Immagine nella sua professione di fede nella quale leggiamo: “Un solo Dio, Padre del Verbo vivente, della Sapienza sussistente, della Potenza, dell’Impronta eterna; Perfetto che genera il Perfetto, Padre del Figlio unico-generato. Un solo Signore, Unico dell’Unico, Dio da Dio, Impronta e Immagine della divinità, Verbo attivo, Sapienza che mantiene l’insieme di tutte le cose, Causa efficiente di tutta la creazione, Figlio vero del Padre vero, Invisibile dall’Invisibile, Incorruttibile dall’Incorruttibile, Immortale dall’Immortale ed Eterno dall’Eterno” (san Gregorio di Nissa PG 46, 912).

Precisando ciò che viene affermato al principio dell’articolo, la Chiesa confessa sempre, contro Ario ed i suoi seguaci, che il Figlio è “generato, non creato”, perché la generazione eterna del Figlio dal Padre, come del resto la processione dello Spirito  Santo, è un atto della vita divina intra-trinitaria che non ha nulla in comune con la creazione. Non si può dunque neppure stabilire una analogia tra la generazione del Figlio dal Padre e la creazione, che è un’opera ad extra (verso l’esterno) della Santa Trinità, perché secondo le meravigliose parole di san Gregorio di Nuova-Cesarea, “nulla dunque di creato o di servile nella Trinità; nulla di avventizio; nulla che, prima inesistente, avvenga dopo” (ibid.).

Per togliere in partenza ogni equivoco, i Padri del Concilio ecumenico di Nicea proclamarono che il Figlio è “consustanziale” (in greco homoousios) al Padre: è la conseguenza logica delle affermazioni precedenti: la co-eternità e l’equi-divinità delle Persone divine, la loro perfetta unità di essenza. Il termine aveva il vantaggio di evitare ogni ambiguità, perché gli eretici ariani usavano volentieri sia espressioni della Scrittura, interpretandole, con speciose esegesi, a favore delle loro teorie, sia formule vaghe suscettibili di accezioni diverse. Per questo tutti i dottori ortodossi, dopo i chiarimenti necessari, finirono con l’allinearsi su questo termine. La consustanzialità delle Persone divine è un dogma fondamentale del cristianesimo autentico.

Il secondo articolo del Simbolo termina con l’affermazione che tutto è stato fatto per mezzo del Figlio: è l’eco della dottrina espressa chiaramente nel Nuovo Testamento (Gv 1, 3; Col 1, 16). Tutta la creazione intera è stata opera congiunta delle tre Persone divine. Ma, esse sono la causa dell’essere in maniera propria a ciascuna di esse: “se il Padre è la causa prima e lo Spirito Santo la causa perfezionante, il Verbo può essere chiamato la causa operante”.

Il credo si sofferma poco su questo punto; afferma solo la credenza tradizionale in queste semplici parole: “per mezzo del quale tutto è stato fatto”. Questa brevità si spiega facilmente: primo perché, questo dogma esplicitato nell’Evangelo non è stato oggetto di controversie tra i cristiani; poi perché, il Credo è confessione della fede e non potevano esservi inserite teorie puramente speculative che, per quanto legittime, non possono pretendere di rientrare nel campo della regola della fede.

Articolo 3

Che per noi, uomini, e la nostra salvezza, è disceso dal cielo, si è incarnato da Spirito Santo e dalla Vergine Maria, e si è fatto uomo.

Se il secondo articolo del Credo tratta del Figlio nella sua relazione ontologica ed eterna con il Padre, quello successivo si riferisce all’incarnazione del Figlio. La Rivelazione neo-testamentaria, proclamando altamente che il Messia atteso da Israele è il Verbo di Dio incarnato, rappresenta insieme il compimento ed il superamento dell’Antico Testamento: i profeti avevano chiaramente annunciato l’avvenimento di una nuova era inaugurata da un Messia, cioè da un inviato dall’Altissimo; i tratti di questo Messia sono anche precisati; il libro di Isaia dipinge così la figura del Servitore umiliato ed oltraggiato (Is 53). Del resto, il pensiero giudaico, pur restando fedele al monoteismo stretto, aveva intravisto una certa personalizzazione della Sapienza divina (ad esempio, Pr 8-9; Ecc 1 e 24) ma non era mai stato fatto chiaramente un accostamento di personalità tra il Messia e la Sapienza divina ipostatizzata. Inoltre, gli ultimi secoli che precedettero la nostra era avevano visto fiorire presso i Giudei un nazionalismo esaltato e venato di xenofobia che offuscava un po’ la visione messianica universalistica degli antichi profeti. Il Messia era atteso, da molti, sotto le vesti di un restauratore dello Stato giudaico; anche gli Apostoli, prima della Pentecoste, non giungevano a liberarsi di questa concezione (Atti 1, 6).

Il terzo articolo del Simbolo è l’eco dell’affermazione evangelica: E il Verbo si è fatto carne ed abitò tra di noi (Gv 1, 14) La Chiesa ha sempre difeso con estremo vigore la dottrina dell’Incarnazione contro coloro che negavano o deformavano questa verità che fonda la certezza della salvezza. Nel commento dell’articolo precedente, abbiamo sottolineato l’attaccamento della Chiesa a proclamare Gesù Cristo come vero Dio e vero Uomo. Il cristianesimo ortodosso ha lottato accanitamente contro i doceti che, per dualismo gnostico, negavano la realtà dell’Incarnazione; contro questi eretici polemizza san Giovanni nella sua prima epistola, quando scrive: “riconoscete lo spirito di Dio da questo: ogni spirito che confessa Gesù Cristo nato da carne appartiene a Dio; ogni spirito che non confessa Gesù Cristo non appartiene a Dio; è lo spirito dell’Anticristo (1 Gv 4, 2-3). Nella sua seconda epistola, scrive ancora: “si sono sparsi nel mondo molti seduttori che non confessano Gesù Cristo nato da carne. Eccolo lì il Seduttore, l’Anticristo” (2 Gv 7-8). Così, la Santa Scrittura ci mette in guardia, non solo contro questa eresia dei doceti, ma pure e più in generale contro ogni pseudo-spiritualismo che non metta al centro del proprio insegnamento Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato.

L’incarnazione è l’ “avvenimento” per eccellenza nella storia della Salvezza: non un fatto da annoverare con gli altri. È l’avvenimento che ha modificato radicalmente la storia perché, con l’Incarnazione del Verbo, i rapporti tra Dio e l’uomo sono stati totalmente trasformati. Il cristianesimo ha una concezione lineare e non ciclica del tempo: stando a significare che il tempo ha un inizio segnato dalla creazione ed una fine che sarà segnata dal Giudizio finale. E questa linea è proprio tagliata in un punto dall’Incarnazione. Gli Apostoli ed i cristiani dei primi secoli non hanno per nulla ignorato questo carattere decisivo dell’Incarnazione, nella quale hanno visto giustamente l’inaugurazione dell’era escatologica annunciata dai profeti (vedere ad esempio Atti 11, 14-36; e notare il riferimento a Gal 3, 1-5). Indipendentemente da ogni considerazione di durata, sant’Ireneo di Lione, il grande dottore e testimone della Tradizione alla fine del II secolo, chiama questa era inaugurata con l’Incarnazione i novissima tempora, i tempi ultimi (Adv. Haer. 3, 24, 1).

Da notare la semplicità della terminologia del Credo e la concisione delle spiegazioni dogmatiche: a riguardo, occorre tenere presente ciò che si è detto nel commento dell’articolo precedente circa l’assenza voluta di qualsivoglia teologia speculativa. La causa dell’incarnazione è dunque riassunta in questi termini: “per noi uomini e per la nostra salvezza. Le vane ed oziose speculazioni per sapere se l’Incarnazione sarebbe avvenuta anche senza il peccato originale e dunque senza il bisogno di una redenzione propriamente detta non trovano posto in un enunciato della Regola di Fede. D’altronde, si noterà che l’universalità della salvezza offerta all’umanità è implicitamente affermata nella formulazione dell’articolo, conformemente alle parole chiarissime della Santa Scrittura: “Ecco ciò che piace a Dio nostro Signore, lui che vuole che allora gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1 Tm 11, 3-4). È appena il caso di aggiungere che l’espressione del Credo “…per noi, uomini…” non coinvolge soltanto questo articolo ma anche i successivi che trattano dell’economia del Verbo incarnato.

Le parole “è disceso dal cielo” non si riferiscono evidentemente ad una concezione grossolanamente materiale; mostrano l’infinita condiscendenza divina nell’Incarnazione e sottolineano la realtà dell’avvenimento la cui misteriosa grandezza è espressa con tanta precisione e bellezza nella lettera dogmatica di san Sofronio (VII secolo) che scrive: “…Si è incarnato, lui, l’incorporale; prende la nostra forma, lui che, secondo l’essenza divina, era esente da forma, relativamente all’esteriorità e all’apparenza; prende un corpo come il nostro, lui, l’immateriale, diventa veramente uomo, senza cessare di essere riconosciuto Dio. Lo si vede portato nel seno di sua madre, lui che è nel seno del Padre eterno; lui, l’atemporale, riceve un inizio nel tempo; tutto questo, non per capriccio, ma annientandosi veramente e, per volontà del Padre e sua, realmente tutto intero assumendo tutta la nostra pasta umana, prendendo una carne consustanziale a noi, un’anima razionale, simile alle nostre anime, uno spirito identico al nostro; poiché in questo consiste l’uomo” (Lettera dogmatica, PG 87, col. 3160-61).

Bisogna notare che il termine “annientandosi”, tratto da san Paolo (Fil 11,7) non deve essere male interpretato, perché ciò di cui Cristo si è spogliato nell’Incarnazione, non è della natura divina ma della gloria che possiede dall’eternità e che avrebbe dovuto ricadere sulla sua umanità, gloria che manifesta d'altronde nella Trasfigurazione. L’Incarnazione del Verbo non implica alcuna modifica della natura divina Una: questa verità di legge trova echi nella Lex orandi della Chiesa; è così che leggiamo in una preghiera della Liturgia di san Giovanni Crisostomo: “Ma nel tuo ineffabile ed incommensurabile amore per l’uomo, ti sei fatto uomo senza cambiamento, né alterazione e sei divenuto il nostro sommo Sacerdote….”.

La Chiesa confessa che Nostro Signore “si è incarnato da Spirito Santo e da Maria Vergine”, conformemente a ciò che è detto esplicitamente nell’Evangelo (Mt 1, 18-2; Lc 1, 26-38). La menzione della Santissima Vergine Maria sottolinea la realtà dell’umanità del Nostro Salvatore, che è il Messia della stirpe di David, annunciato dall’Antico Testamento. L’Incarnazione si è fatta non solo per la volontà pre-eterna della Santa Trinità (1 Pt 1, 17-21), ma anche con il consenso della Santissima Vergine (Lc 1, 38). In questa obbedienza fiduciosa nella parola di Dio, la Tradizione ecclesiale vede la risposta alla disobbedienza di Eva.

San Giustino, nella prima metà del II secolo, scrive: “Comprendiamo che Cristo si è fatto uomo per mezzo della Vergine, affinché la disobbedienza provocata dal serpente avesse fine attraverso la stessa via con cui era iniziata. Infatti, Eva vergine e intatta, avendo concepito la parola del serpente, partorì la disobbedienza e la morte, la Vergine Maria, avendo concepito fede e gioia, quando l’angelo Gabriele le annunciò che lo Spirito del Signore sarebbe venuto su di lei e la virtù dell’Altissimo l’avrebbe coperta con la sua ombra, in modo che l’Essere santo nato da lei sarebbe Figlio di Dio, rispose: «mi sia fatto secondo la tua parola». Colui di cui parlano tante Scritture è nato dunque da lei… Per mezzo suo, Dio fa crollare l’impero del serpente e di coloro che, angeli o uomini, gli sono divenuti simili, e libera dalla morte coloro che si pentono dei loro peccati e credono in lui (PG 6, col.712). Con molta sobrietà ed esattezza dogmatica, questo Padre della Chiesa, molto vicino alla generazione apostolica, ci dà tutte le motivazioni sulle quali si fonda la venerazione dei cristiani verso la Santissima Vergine Maria.

L’articolo termina con l’espressione “si è fatto uomo”. Per rendere la concisione dell’originale greco, occorrerebbe forgiare una parola unica “si è in-umanizzato”. Con l’Incarnazione, Cristo diventa secondo la natura umana, simile in tutto a noi eccetto che nel peccato (cf. Eb 11,17; Rm 7, 3; Fil 11, 7).

Articolo 4

È stato crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, patì e fu sepolto.

L’opera salvifica di Nostro Signore Gesù Cristo è un insieme non dissociabile; l’Incarnazione, la Morte sulla Croce, la Resurrezione sono solo dei momenti successivi della stessa medesima opera. L’articolo del Credo sulla Passione cita che l’avvenimento accadde “sotto Ponzio Pilato”. Viene così sottolineato il carattere storico della Passione. Mentre le presunte imprese degli dei e degli eroi pagani si situavano in un passato lontano e fiabesco, l’opera salvifica di Cristo appartiene ad un momento storico preciso e si colloca in un ambiente nettamente definito.

Si noterà la ripetizione dell’espressione “per noi”, già incontrata nell’articolo sull’incarnazione. La morte redentrice di Gesù Cristo è sorgente di perdono e di riconciliazione non solo per l’umanità in generale, ma per ogni credente in particolare: tra Cristo e ciascun cristiano c’è un rapporto personale ed è a ciascuno di noi che è rivolto l’invito: “Chi vorrà venire appresso a me, rinunci a se stesso e mi segua”(Mt 16, 24).

La morte sulla Croce non può essere separata dalla Resurrezione, ma bisogna guardarsi da una interpretazione errata che nasconderebbe l’aspetto glorioso, che appartiene alla Passione stessa. Se la Resurrezione del Signore ha manifestato la sua vittoria, la morte sulla Croce ha inesorabilmente già indicato la sconfitta delle forze del male. Le parole di Gesù crocifisso: Eli, Eli, lema sabachtani (Mt 27, 46) sono prese da un salmo messianico che esprime non solo la sofferenza del giusto, ma anche la sua fiducia in Dio (Is 52, 13-53, 12), e l’ultima parola di Gesù mentre spira è: Tutto è compiuto (Gv 19, 30). Questo carattere glorioso della Passione è universalmente sottolineato nella Tradizione: in Oriente, la Croce riceve regolarmente l’epiteto di “vivificante”, mentre nelle Liturgie occidentali la Passione è generalmente qualificata come “gloriosa” o “felice”. Ciò è riflesso fedelmente nell’iconografia ortodossa che è estranea ad ogni contemplazione attenuata della crocifissione; anche nel momento di “kénosi” estrema, la Chiesa non dimentica che colui che è sospeso sul legno è “colui che ha sospeso il mondo” (Ufficio bizantino delle Sante Sofferenze, 15ª antifona). Pertanto, non se ne deve dedurre che la Chiesa ferma il suo pensiero sull’immensa e reale sofferenza di Gesù crocifisso. Al contrario, lo esprime con un realismo vibrante di dolore e di amore: “ogni parte della tua Carne santa ha sofferto un disonore a causa nostra: la tua testa, le spine; il tuo volto, gli sputi; la tua bocca, il sapore dell’aceto e del fiele; le tue orecchie, le bestemmie ingiuriose; le tue spalle, la porpora dello scherno; il tuo dorso, la flagellazione; la tua mano, la canna; gli spasmi di tutto il corpo sulla croce; le tue membra, i chiodi, e il tuo costato, la lancia. Tu che hai sofferto per noi e che, soffrendo, ci hai liberato, tu che per amore verso gli uomini ti sei abbassato con noi e ci hai risollevati, Salvatore, abbi pietà di noi ” (ibid.).

Che la morte sulla Croce abbia portato all’umanità decaduta la redenzione e la riconciliazione con Dio è un dogma fondamentale per il cristianesimo. Interpretazione errata, o quanto meno gravemente deficiente, di questo dogma, sarebbe collocare la Redenzione in una categoria giuridico-etica, tendenza che ha lasciato la sua impronta sulla teologia occidentale a partire dal Medioevo, a scapito del vigoroso realismo del pensiero cristiano antico. Nella prospettiva giuridico-etica, l’accento è posato sull’offesa fatta a Dio col peccato originale, offesa che necessita di una riparazione per placare il corruccio divino, ed è la morte del Figlio di Dio incarnato che costituisce sacrificio di riparazione.

La prospettiva ortodossa, fondata sulla Santa Scrittura e sulla tradizione liturgica e patristica antica, si manifesta in un’altra dimensione: il peccato originale fu il frutto amaro della libertà concessa all’uomo dal suo Creatore; Dio ha voluto essere adorato ed amato da creature libere, perché solo questa libertà dà un senso all’amore; senza possibilità di autodeterminazione – e quindi di rifiuto – l’amore dell’uomo per Dio non sarebbe stato altro che il riflesso dell’amore di Dio per se stesso, come lo splendore di una luce proiettato su uno specchio. Optando per il male, l’uomo ha tradito la sua vocazione e si è trovato asservito al potere del Nemico, tuttavia Dio non ha lasciato andare l’umanità alla deriva. Alcuni Padri della Chiesa, come sant’Ireneo e san Teofilo di Antiochia, spiegano la condiscendenza divina con il carattere non-adulto dell’umanità primitiva. Pur avendo peccato liberamente, l’uomo non aveva una responsabilità assoluta. L’opera di riconciliazione si è fatta in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Offrendosi volontariamente alla morte, ne ha spezzato irrimediabilmente la potenza, poiché la morte non ha potuto vincere l’Uomo-Dio. Come dice l’inno latino Victimae paschali: “la morte e la vita hanno ingaggiato una lotta stupefacente: l’Autore della vita, dopo esser morto, vive e regna”.

Uomo senza peccato, primizia di una umanità nuova liberata dalla diabolica schiavitù, Cristo si presenta al Padre come la vittima pura, l’agnello senza macchia. L’aspetto sacrificale della morte di Gesù Cristo è strettamente legato all’Antica Alleanza che viene compiuta e superata. Le oblazioni della Legge antica erano destinate ad attirare il favore divino, affinché Dio gradisse l’espiazione dei peccati; erano l’annuncio e la figura del sacrificio perfetto di Cristo, sommo sacerdote e vittima, che è, come dice la Liturgia di san Giovanni Crisostomo, “colui che offre e che viene offerto”. Il sacrificio di Cristo non è solo l’ultimo sacrificio, è l’unico vero sacrificio, come viene detto benissimo nell’Epistola agli Ebrei: “Tale è esattamente il sommo sacerdote di cui avevamo bisogno, santo, innocente, immacolato, separato dai peccatori, innalzato più in alto dei cieli, non soggetto, come i gran sacerdoti, giorno dopo giorno al bisogno di offrire prima vittime per i propri peccati e poi per quelli del popolo, perché questo egli l’ha fatto una volta per tutte offrendo se stesso. La Legge, infatti, costituì come gran sacerdoti uomini soggetti alle debolezze; ma la parola del giuramento – posteriore alla Legge – costituì (come sommo sacerdote) reso perfetto per l’eternità il Figlio” (Eb 7, 26-28).

Dopo la morte, il Signore è stato sepolto e il suo corpo è rimasto nella tomba sino al terzo giorno. Questo momento è descritto con grande precisione teologica in un tropario del rito bizantino: “Nella tomba col corpo, all’inferno con l’anima come Dio, in paradiso con il ladrone, Cristo, che riempi tutto e che nessun luogo può contenere, tu eri sul trono con il Padre e con lo Spirito”. Durante il suo ministero terreno, Nostro Signore aveva fatto allusione alla sua sepoltura. Ai Giudei che chiedevano un segno, Gesù risponde: “Generazione malvagia e adultera. Chiede un segnale, e come segnale non altro le sarà dato che quello del profeta Giona” (Mt 12, 39); ed ancora: “Distruggete questo tempio ed in tre giorni lo innalzerò di nuovo” (Gv 2, 19).

Scendendo all’Inferno come liberatore, spezzando con la propria morte il potere della morte introdotto dal peccato, Cristo è il nuovo Adamo, primizia di una stirpe nuova che, con la sua adesione a Cristo vincitore, può ritrovare la sua vera vocazione, quella dell’unione con Dio.

Articolo 5

È risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture.

Credere nella Resurrezione di Gesù Cristo è il cuore del cristianesimo autentico; per questo san Paolo scrive ai Corinzi: Se Cristo non è risuscitato, allora la nostra predicazione è vuota, e vuota anche la nostra fede (1 Cor 15, 14) Gli apostoli sono per eccellenza i testimoni di Cristo risuscitato (vedere soprattutto Atti 1, 21-22). La Resurrezione è stata l’eclatante manifestazione della messianicità di Gesù e della sua divinità. L’atteggiamento preso di fronte all’avvenimento è la linea di demarcazione tra la fede e l’incredulità e questo resta valido per tutte le generazioni sino alla fine dei tempi.

Se i Giudei, in maggioranza, rifiutavano di riconoscere in Gesù risuscitato il Messia – sia che negassero la realtà della Resurrezione, sia che non tirassero alcuna conseguenza – almeno non era a loro estranea l’idea stessa di una resurrezione, ad eccezione però dei sadducei. Non era così per i pagani: la predicazione cristiana della resurrezione generale e di quella già compiuta da Cristo incontrava una gran difficoltà di comprensione. Oggi, talvolta si dimentica troppo facilmente che ci sono pochissimi punti comuni tra la concezione filosofica di una sopravvivenza dell’anima e l’idea biblica di resurrezione: fu quella ragione per cui la predicazione di san Paolo nell’Areopago di Atene andò incontro ad uno scetticismo sarcastico (Atti 17 16-34). Così, per ragioni diverse, la maggior parte dei Giudei e dei pagani rimasero insensibili al segno di Dio.

Per i credenti a cui con la fede è dato di riconoscere la grandezza dell’avvenimento, la Resurrezione del Signore significa il trionfo eclatante della vita sulla morte, la fine della maledizione che pesava sulla discendenza di Adamo. Per questo Pasqua è la festa della gioia traboccante; la Liturgia ortodossa l’esprime in questo giorno con enfasi particolare: “Oggi ci è apparsa una Pasqua sacra: Pasqua nuova e santa, Pasqua mistica, Pasqua purissima, Pasqua di Cristo nostro liberatore, Pasqua immacolata, Pasqua grandiosa, Pasqua dei credenti; Pasqua che ci apre le porte del paradiso, Pasqua che santifica tutti i fedeli” (Stichira delle Lodi pasquali). Per l’antico Israele, Pasqua era la commemorazione della liberazione dalla schiavitù egiziana; per la Chiesa, nuovo Israele, la Pasqua cristiana è il richiamo alla liberazione dalla schiavitù della morte: è dunque l’annuncio della resurrezione generale, di cui quella di Cristo è il principio efficace.

Non è solo nell’ufficio pasquale che la Chiesa ci ricorda il grande mistero della Resurrezione, ma in ogni ufficio domenicale. Il tema pasquale impregna inoltre tutto il rito battesimale, poiché il neofita è passato spiritualmente dalla schiavitù satanica alla vita in Cristo: “Noi tutti che siamo stati battezzati in Gesù Cristo –dichiara san Paolo – siamo stati battezzati nella sua morte. Siamo stati seppelliti con lui nella sua morte attraverso il battesimo, affinché, come Cristo è risuscitato dai morti per la gloria del Padre, così noi marciamo nella nuova vita” (Rm 6, 3-4).

L’atto stesso della Resurrezione del Salvatore è sfuggito ad ogni investigazione umana; non c’è neppure negli Evangeli alcuna descrizione dell’avvenimento, per questo l’iconografia ortodossa tradizionale non raffigura la Resurrezione, ma l’apparizione che è seguita (vedere Léonide Ouspensky: “Si può rappresentare la Resurrezione di Cristo?” Messagger de l’Exarchat, n° 21, 1955, pp 7-8).

Cristo risuscitato è stato visto da numerosi testimoni. San Paolo cita pure che nostro Signore è apparso “a più di cinquecento fratelli insieme” (1 Cor 15, 6). Aggiungendo che “la maggior parte ancora sono viventi” (ibid), l’apostolo lascia intendere ai Corinzi che avessero avuto dubbi che era loro possibile interrogarli. Tuttavia, non c’è stata “Cristofania” [manifestazione di Cristo] che avrebbe avuto un aspetto grandioso tale da imporre a tutti gli uomini, o anche a tutti i gerosolimitani, la fede nella Resurrezione del Signore. Questa apparizione sarà quella della Seconda Parusia, quando Gesù Cristo verrà in gloria a giudicare i vivi e i morti. Fino ad allora ci sarà per ogni persona la libertà di scegliere, e per coloro che accettano di essere aperti alla grazia divina riecheggiano le parole consolatrici di Cristo risuscitato: Felici coloro che crederanno senza aver visto (Gv 20, 29). Per questo le generazioni cristiane, anche quelle lontane venti secoli dall’età dei testimoni apostolici, proclamano con fervore: “avendo contemplato la Resurrezione di Cristo, adoriamo il Signore Gesù, l’unico senza peccato. Adoriamo, Cristo, la tua Croce e cantiamo e glorifichiamo la santa Resurrezione”. Così dunque, in spirito i cristiani accorrono verso il sepolcro come le sante donne miròfore per sentire le parole dell’angelo che annunciano la buona novella.

Per il cristiano, riconoscere la Resurrezione non è un atto puramente intellettuale; ogni battezzato deve poter dire con l’apostolo Paolo: “Sono crocifisso con Cristo; e se vivo, non sono più io, ma Cristo che vive in me” (Gal 2, 19-20). La condizione del cristiano è paradossale: vive nel mondo, ma per la sua adesione a Cristo, rompe con questo mondo fin tanto che questo si rifiuta di riconoscere la sovranità di Cristo.

Il Credo afferma che nostro Signore “è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture”. Quest’ultima espressione contiene una ricchezza ben più grande di quanto non possa sembrare a primo acchito. Questo riferimento all’Antico Testamento – perché il termine Scritture si riferisce qui all’Antico Testamento – è duplice: sul piano immediato, c’è la testimonianza profetica diretta del libro di Giona; nostro Signore indica il “segno di Giona” come prefigurazione del suo seppellimento e della sua resurrezione (Mt 12, 38-40 e 16, 1-4; Lc 11, 29-32). Ma c’è pure un altro piano che ingloba il Vecchio Testamento nel suo insieme, per quel che riferito alla persona e all’opera del Messia. È così che Cristo risuscitato spiega le Scritture ai pellegrini di Emmaus: “Spiriti senza intelletto, lenti a credere quanto annunciato dai profeti! Non occorreva che Cristo sopportasse quelle sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè passando attraverso tutti i profeti, spiegò loro quel che nelle Scritture si riferiva a lui” (Lc 24, 25-27). Agli apostoli nostro Signore dice: “Tali sono le parole che vi ho detto quando ero ancora con voi: occorre che si compia tutto ciò che di me è scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi. Allora aprì ad essi lo spirito a comprendere le Scritture e disse loro: così era scritto che Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risuscitato dai morti il terzo giorno…”(Lc 24, 44-46). Bisogna evidenziare che secondo il modo di esprimersi giudaico, la Legge, i Profeti e i Salmi indicavano l’insieme delle Scritture, conformemente alle tre grandi divisioni della bibbia ebraica.

L’uso di testimonianze veterotestamentarie a favore della Resurrezione di Gesù Cristo nella catechesi cristiana delle origini aveva un ruolo importantissimo. Possiamo del resto rendercene facilmente conto leggendo il discorso di san Pietro alla folla il giorno di Pentecoste (Atti 2, 14-36, in particolare 25-35).

Articolo 6

È salito al cielo, e siede alla destra del Padre.

Proclamando la fede nell’opera salvifica di nostro Signore, il Credo, dopo aver affermato la Resurrezione nel terzo giorno, cita l’Ascensione e la Seduta “alla destra del Padre”. Si completa così la serie degli articoli del Credo relativa al ministero terreno di Cristo. Eppure se il tempo dell’Incarnazione, o più precisamente della presenza corporale di Cristo sulla terra, viene chiuso con l’Ascensione, non c’è interruzione con il periodo seguente, il tempo della Chiesa che terminerà con la seconda e gloriosa venuta di nostro Signore.

Questo legame tra i due periodi è indicato due volte nelle sante Scritture: dapprima in modo esterno, con un espediente letterario: san Luca termina il suo Evangelo con la menzione dell’Ascensione ed inizia il libro degli Atti riprendendo in modo più attenuato il racconto dell’avvenimento; poi in modo interno: il Nuovo Testamento ci riferisce le parole del Signore sottolineando che la sua salita al cielo non costituisce per nulla un abbandono. Nell’Evangelo secondo san Matteo le ultime parole di Cristo che sono citate fondano la serena certezza della Chiesa nella sollecitudine permanente del Salvatore (Mt 28, 20). Esse trovano eco nel kondakion della festa: “avendo compiuto a nostro favore la tua opera di salvezza, dopo avere unito i cieli e la terra e gli uomini con Dio, nella gloria, Cristo nostro Dio, salisti al cielo senza però abbandonarci, ma restando sempre tra noi e dicendo a coloro che conservano il tuo amore: sono sempre con voi e nessuno per sempre potrà nulla contro di voi”.

L’ascensione segna il coronamento del sacrificio di Cristo; l’Agnello immolato si presenta davanti al Padre, manifestando nella sua persona divino-umana l’unione ristabilita tra Dio e l’uomo. A questo proposito nell’Epistola agli Ebrei si legge: “Avendo offerto per i peccati l’unico sacrificio, si è seduto per sempre alla destra di Dio” (Eb 10, 12). La morte redentrice sulla Croce, Resurrezione e l’Ascensione sono così strettamente legate che Nostro Signore ne parla come di un tutto inseparabile quando dice: “ed io, sollevato da terra. Attirerò a me tutti gli uomini” (Gv 12, 32).

La discesa dal cielo menzionata nel terzo articolo del Credo non può essere accostata all’Ascensione se non su un piano limitato, quello della kénosi del Figlio di Dio che comincia con l’Incarnazione e si completa con l’Ascensione. Non va dimenticato poi che la kénosi non ha modificato nulla nelle relazioni intra-trinitarie, perché Dio tri-ipostatico rimane immutabile e inalterabile e dunque il Figlio è ontologicamente unito al Padre e allo Spirito Santo al di là di ogni contingenza temporale. D’altra parte, va sottolineato il carattere specifico dell’Ascensione che risiede nell’esaltazione del Dio-uomo: Cristo, nuovo Adamo, è il capo di una umanità rinnovata che, precisamente nella sua persona, si trova ormai seduta in gloria alla destra del Padre. Da qui vediamo che la Redenzione non è stata semplicemente la liberazione dalla maledizione dovuta al peccato, perché la glorificazione dell’umanità acquistata in Gesù Cristo è definitiva.

Per questo l’apostolo Paolo può esclamare: “possa Dio illuminare gli occhi del vostro cuore per farvi vedere quale speranza vi apre il suo invito, quali tesori di gloria racchiude la sua eredità tra i santi, e quale straordinaria grandezza la sua potenza ha per noi credenti, secondo il vigore della forza che ha dispiegato nella persona di Cristo, risuscitandolo dai morti e facendolo sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato, Potenza, Virtù, Signoria e di ogni altro nome con cui si potrà nominare non solo ora, ma ancora nei secoli futuri ” (Ef 1, 18-21).

L’ascensione non è affatto una disincarnazione del Verbo divino, perché nella storia della salvezza così come si dispiega secondo il disegno preeterno di Dio, non c’è movimento regressivo. La dottrina neo-testamentaria della Chiesa, Corpo di Cristo, diviene comprensibile solo partendo dal credere nell’Ascensione e nella Seduta alla destra del Padre: Cristo effonde sulla Chiesa la vita divina in modo, se così si può dire, organico in virtù del principio della solidarietà tra la testa e le membra: “[Dio Padre] ha posto tutto ai suoi piedi e lo ha collocato al di sopra di tutto, Testa per la Chiesa, che è il suo Corpo” (Ef 1, 22; cf. Col 1, 18). Non va elusa, in una sana teologia, la forza di questa affermazione, altrimenti bisognerebbe svuotare del proprio senso reale altre affermazioni delle Scritture, come quella che proclama la possibilità per i membri della Chiesa di divenire partecipi della natura divina (2 Pt 1,4); solo così, riferendoci alla dottrina del Corpo ecclesiale noi possiamo comprendere questa parola apparentemente misteriosa del Salvatore riportata dal quarto Evangelo: “In verità, in verità vi dico, chi ascolta la mia parola e crede in colui che mi ha inviato avrà la vita eterna e non sarà sottomesso a giudizio, ma passerà dalla morte alla vita” (Gv 5, 24).

L’Ascensione non è un’interruzione e la Pentecoste ne è il seguito necessario, come lo dice chiaramente il Signore: “In verità vi dico: è meglio per voi che io parta; perché se non parto, il Paraclito non verrà a voi; ma se parto, lo invierò a voi” (Gv 16, 7). Sebbene noi chiamiamo Pentecoste un avvenimento preciso, l’effusione dello Spirito Santo cinquanta giorni dopo Pasqua, ogni tempo in cui la Chiesa celebra, può essere invero considerato come una Pentecoste perpetua, perché la vita della Chiesa non si comprende se non nella prospettiva di un’azione dello Spirito Santo. Ad ogni Liturgia eucaristica, in particolare, il celebrante chiede a Dio di mandare il suo Spirito Santo sul popolo riunito in assemblea e sulle offerte.

Cristo offrendosi in sacrificio, ha riconciliato l’umanità con Dio; con l’Ascensione, questa umanità, nella persona del suo capo, è unita alla divinità e siede in gloria alla destra del Padre; ma sta ad ogni uomo appropriarsi di quella salvezza offerta in Gesù Cristo, perché altrimenti sarebbe violata la libertà umana; Dio offre la salvezza ma non l’impone. Dopo l’Incarnazione, come prima, l’uomo nasce nel peccato, schiavo delle forze malvagie, ma dopo il compimento dell’opera redentrice di Cristo, gli è data la possibilità di essere integrato nella nuova creazione divenendo membro del Corpo di Cristo. Per questo l’uomo deve essere accogliente verso la grazia preveniente, perché con le sue sole forze non può cominciare nulla; questo la Chiesa insegna fermamente di fronte alla concezione pelagiana della salvezza; ma questo intervento iniziale necessario di Dio non implica alcun atteggiamento passivo da parte dell’uomo e ciascuno deve avere presente allo spirito le parole che il maestro rivolge ai discepoli di tutti i tempi: “Chi vuole seguirmi rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16, 24; cf. Mc 8, 34 e Lc 9, 23).

Lasciare l’uomo vecchio e indossare l’uomo nuovo esige un’ascesi continua, perché se il battesimo significa rinuncia al dominio di Satana e aggregazione al Corpo di Cristo, occorre lottare ininterrottamente per conservare ciò che è stato acquisito e farlo fruttificare; eppure questa ascensione spirituale, per quanto rigida possa essere, si compie nell’ambito fondamentale ottimista del cristianesimo, perché il credente sente risuonare quelle parole del Signore che mantengono la sua vigilanza e rafforzano la sua speranza: “Avrete da soffrire nel mondo: Ma abbiate coraggio! Io ho vinto il mondo!” (Gv 16, 33).

Articolo 7

E ritornerà nella gloria a giudicare i vivi e i morti; e il suo regno non avrà fine.

Credere nella seconda venuta di Cristo è assolutamente fondamentale nell’insieme della dottrina cristiana, così ogni tentativo di “de-escatologizzare” il cristianesimo, cioè di sopprimere o minimizzare questo articolo di fede non può essere considerato se non un’alterazione fondamentale del messaggio cristiano. Per capire bene il posto che questo dogma occupa nella Chiesa, lo si deve situare nella sua vera prospettiva; infatti, la concezione cristiana del tempo si presenta come una linea orizzontale: c’è un inizio, la creazione, un gesto tragico dell’uomo, la caduta, un avvenimento centrale, l’Incarnazione, una fine con la Seconda Parusia (il ritorno di Cristo). Di conseguenza, come il sacrificio di Cristo è stato un avvenimento unico (Eb 7, 27), così il giudizio finale sarà un’azione unica e definitiva.

Questo crede fermamente la Chiesa, ed è per questo che il V Concilio ecumenico (553) condannò tutta una serie di opinioni derivate da Origene che avevano come sottofondo una concezione ciclica del tempo incompatibile con la Rivelazione. L’attesa escatologica è un elemento fondamentale della teologia sacramentale ortodossa: così il radunarsi dei cristiani per la Liturgia eucaristica non rappresenta solo (la celebrazione della) memoria* di un avvenimento passato, attualizzato nel sacramento, ma sta a significare anche l’attesa escatologica della comunità messianica che è la Chiesa.

(*Il termine greco anamnêsis non ha un equivalente esatto nella traduzione; “memoria” è troppo debole e non rende assolutamente la sfumatura del prefisso “ana”. La concezione protestante della Santa Cena è tuttavia imbastita come se anamnêsis significasse puramente e semplicemente memoria) .

– Questo è quanto è ben sottolineato nella raccomandazione dell’apostolo Paolo che segue la rievocazione delle parole dell’istituzione della Santa Cena: “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo calice, annunciate la morte del Signore sino alla sua venuta” (1 Cor 11, 26).

L’allusione escatologica è del resto chiarissima in questa parola di nostro Signore riportata da san Matteo: “Non berrò più di questo frutto della vigna, vi dico, fino al giorno in cui berrò con voi il vino nuovo nel Regno del Padre mio” (Mt 26, 29). La sinassi eucaristica prefigura il raduno della Chiesa nel Regno messianico. In un documento cristiano molto antico, la Didachè (I-II secolo) leggiamo queste parole che esaltano questa speranza: “Come questo pane spezzato, dapprima seminato sulle colline, dopo essere raccolto è diventato uno, così la tua Chiesa sia riunita nel tuo Regno dalle estremità della terra…” e più avanti: “ricordati, Signore, della tua Chiesa, liberala da ogni male e rendila perfetta nel tuo amore. Questa Chiesa santificata, da ogni parte radunala nel Regno che le hai preparato”.

I primi cristiani vivevano nell’attesa impaziente del ritorno di Cristo e l’esprimevano nella coincisa formula aramaica che ci viene riportata da san Paolo, Maranata (1 Cor 16, 22); cf. Ap 22, 17). Ma il Signore aveva messo in guardia i discepoli dal desiderio di sapere quando sarebbe avvenuta l’ultima Parusia (Mt 24, 36; Atti 1, 7). Paolo, d’altronde, nell’esortare i Tessalonicesi a vigilare, scrive loro: “voi pure sapete perfettamente che il Giorno del Signore arriva come un ladro in piena notte” (1 Tess 5, 2). I Cristiani devono stare sempre in attesa della Parusia, ma questa attesa non deve mutarsi in vana curiosità per scrutare il disegno divino a tale riguardo. La Chiesa evita speculazioni azzardate su alcuni brani del libro di Daniele o dell’Apocalisse, quando invece i settari di ogni epoca ne fanno abuso, o per determinare matematicamente il momento della Parusia, o ancora per infamare qualche personaggio loro contemporaneo.

Simili speculazioni non solo sono contrarie ai precetti del Signore, ma testimoniano pure, in coloro che si lasciano sedurre da certe pratiche, un’ignoranza totale delle regole dell’apocalittica giudaica, così come ci sono adesso ben note attraverso numerosi documenti che si scaglionano tra il II secolo prima e il II secolo dopo della nostra era.

Abbiamo prima insistito sulle differenze tra le due venute del Signore nel mondo: mentre la prima si è fatta nello stato di kénosi (svuotamento, abbassamento), la seconda manifesterà a tutti la potenza di Dio; questo sottolinea nel Credo il termine “con gloria”: essa sarà evidente a tutti, e così il fatto di confessarla non potrà allora essere imputato a giustizia. Con la fine del mondo cesserà la possibilità di modificare alcunché; tutto sarà fissato immutabilmente in modo assoluto in quanto extra-temporale. Per questo il Signore dice: “E se ne andranno, gli uni ad una pena eterna ed i giusti alla vita eterna” (Mt 25,46). Pure a questo assoluto extra-temporale si riferisce implicitamente san Giovanni nell’Apocalisse quando parla della seconda morte (Ap 20, 13-15). Il giudizio finale segnerà il trionfo totale di Cristo su tutte le forze del male che, malgrado la Croce e la Resurrezione, non vogliono riconoscere la loro inesorabile sconfitta.

Da notare che la Sacra Scrittura, così come il Credo, sottolinea l’aspetto cosmico del giudizio finale; Cristo appare qui come Re dell’Universo. Così infatti leggiamo: “Quando il Figlio dell’Uomo, scortato da tutti gli angeli, verrà nella sua gloria, allora si siederà sul trono di gloria. Dinanzi a lui saranno radunate tutte le nazioni” (Mt 25, 31-32; cf. Ap 20, 11-15). L’iconografia ortodossa ha sviluppato maestosamente il tema del giudizio, sia prima nella forma simbolica del pastore che separa le pecore dai capri (chiesa di Sant’ Apollinare-nuovo a Ravenna, ca 520), che dopo in una forma realistica, Cristo che appare sulle nuvole, seduto sul trono in mezzo agli apostoli per giudicare i vivi e i morti svegliati dalla tromba dell’arcangelo (esempio, il duomo di Torcello, XI secolo).

L’articolo del Credo termina con l’affermazione: “e il suo regno non avrà fine”. Queste parole che figurano nel nostro simbolo, così come è stato promulgato all’epoca del II Concilio ecumenico (381), non c’erano nella professione di fede dei Padri di Nicea (325). Sono state inserite nel Credo per combattere la strana ed errata opinione di Marcello di Ancira secondo la quale il regno di Cristo terminerebbe con la fine dei tempi. Ciò sembra collocarsi nel quadro della sua teologia modalista, per la quale la Trinità è solo un modo d’essere provvisorio della divinità che alla fine si riassorbirebbe in una monade. Già nel Credo del Concilio della Dedicazione tenutosi ad Antiochia nel 341, si trova la formula: “…e venendo di nuovo a giudicare i vivi e i morti e restando Re e Dio per tutti i secoli”.

Nell’attesa radiosa del ritorno in gloria del Signore, il cristiano esclama: “Che la grazia giunga e questo mondo passi! Amen” (Didaché); ma conoscendo pure la propria debolezza di creatura peccatrice, prega umilmente dicendo: “O Dio, quando verrai sulla terra, quando tutto tremerà, e un fiume di fuoco uscirà dal tribunale, quando i libri saranno aperti e le cose nascoste saranno rese manifeste, allora, giudice giustissimo, liberami dal fuoco inestinguibile e rendimi degno di sedermi alla tua destra” (Kondakion della domenica di Carnevale).

Articolo 8

E nello Spirito Santo, Signore, che dà la vita, che procede dal Padre, che è adorato e glorificato con il Padre ed il Figlio che ha parlato per mezzo dei profeti.

Dopo aver proclamato la propria fede nella persona e nell’opera del Signore Gesù Cristo, la Chiesa esprime il suo credo nella terza Persona della Santa Trinità. I Padri del I Concilio ecumenico avevano solo richiamato la fede della Chiesa nell’esistenza dello Spirito Santo; ciò si spiega col fatto che avevano concentrato la loro attenzione soprattutto sulla dottrina della divinità del Verbo, punto sul quale si scontravano l’ortodossia cattolica e l’arianesimo. Tuttavia gli sviluppi della controversia nel corso del IV secolo non potevano non toccare la pneumatologia, perché non erano solo gli ariani a negare la divinità dello Spirito Santo, ma anche certi cristiani, i quali respingevano la dottrina ariana riguardante il Verbo e tuttavia non riconoscevano affatto la divinità e la consustanzialità dello Spirito.

Così i Padri di quell’epoca dovettero difendere la dottrina ortodossa riguardante la terza persona della Santa Trinità e conseguentemente le relazioni intra-trinitarie. Il secondo Concilio ecumenico, riunito a Costantinopoli nel 381, reiterò la condanna dell’arianesimo in ogni sua forma e colpì in particolare l’eresia di Macedonio, che negava la divinità dello Spirito Santo. Se i Padri della Chiesa hanno affermato allora chiaramente la piena divinità della terza Persona della Santa Trinità, tuttavia, per non impaurire certi conservatori ostili ad ogni nuova espressione, anche se essa esprimeva in modo adeguato il credo costante della Chiesa, i termini “Dio” e “consustanziale” non furono introdotti nell’articolo del Credo riguardante lo Spirito Santo. Questa prudenza ebbe i suoi frutti ed infatti l’eresia degli “pneumatomachi” (cioè coloro che “combattono lo Spirito”) fu sconfitta e la terminologia trinitaria che esprimeva il credo della Chiesa rimase fissata definitivamente.

La fede cristiana sullo Spirito Santo come persona distinta della Santa Trinità ha il suo fondamento nella rivelazione neo-testamentaria e in primo luogo in queste parole di Nostro Signore: “Andate ed insegnate presso tutte le nazioni battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28, 19). Il Vecchio Testamento conosceva certamente lo Spirito di Dio come forza agente e, nella visione dei profeti, la fine dei tempi è caratterizzata dall’effusione di questo Spirito (cf. Is 44, 3 e Jl 2, 28), ma solo nel Nuovo Testamento il Verbo e lo Spirito sono conosciuti come persone. Senza rinunciare in alcun modo al monoteismo stretto della rivelazione del Sinai e pure affermando il principio dell’unità numerica dell’Essere divino, il cristianesimo confessa che questo monoteismo non è unipersonale ma trinitario.

Questa progressione nell’approccio del mistero divino viene messa bene in luce in uno stupendo passo di san Gregorio di Nazianzo: “Il Vecchio Testamento – scrive – ha manifestato chiaramente il Padre, oscuramente il Figlio. Il Nuovo Testamento ha rivelato il Figlio ed ha insinuato la divinità dello Spirito. Oggi lo Spirito vive in mezzo a noi e si fa conoscere più chiaramente. Infatti sarebbe stato pericoloso, quando la divinità del Padre non era riconosciuta, predicare apertamente il Figlio, e, finché la divinità del Figlio non era riconosciuta, imporre, per così dire, in sovrappiù, lo Spirito Santo... Era conveniente che lo splendore della Trinità si irradiasse progressivamente, per aggiunte successive, e, come dice David, per ascensioni di gloria in gloria… Il Salvatore conosceva certe cose che riteneva che i suoi discepoli non avrebbero potuto ancora recepire, benché già fossero pieni di una dottrina abbondante… e ripeteva loro che lo Spirito, quando sarebbe venuto avrebbe insegnato ad essi tutto. Penso perciò che fra quelle cose ci fosse la divinità stessa dello Spirito Santo” (Orat. 31– theol. V, 24-26).

Nella Santa Trinità, la fonte della divinità è il Padre del quale il Figlio ha l’essenza per generazione e lo Spirito per processione. Per questo, conformemente all’insegnamento dello stesso Salvatore (Gv 15, 26), il Simbolo afferma che lo Spirito Santo procede dal Padre. La differenza tra il Figlio e lo Spirito, relativa al modo di essere (tropos tês hyparxeôs) implica una distinzione ipostatica; la Chiesa insiste su questo punto, ma allo stesso tempo i Santi Padri confessano l’impossibilità per lo spirito umano di comprendere in che cosa consista questa differenza. San Gregorio Nazianzeno scrive: “Tu chiedi che cos’è la processione dello Spirito? Dimmi prima che cosa è l’innascibilità del Padre. Ti spiegherò allora la generazione del Figlio e la processione dello Spirito Santo. Così entrambi saremo colpiti da follia per avere voluto scrutare il mistero di Dio” (Orat. 31, 8)

In modo conciso San Giovanni Damasceno nota: “nessuno sforzo di intelligenza potrà svelarci il come della generazione e della processione” (De fide orth. 1, 8). In Occidente, per contro, la teologia scolastica ha cercato di dare una spiegazione della generazione e della processione partendo da analogie psicologiche. È vero che sant’Agostino aveva già usato questo metodo, solo che il vescovo d’Ippona non ci aveva visto altro che un paragone che permettesse allo spirito umano un certo avvicinamento al mistero trinitario e non una spiegazione razionale delle relazioni intra-divine; e del resto scrive: “quanto alla differenza che c’è tra la generazione e la processione, io non so, non posso, né sono capace” (C. maxim 11,14).

La Chiesa Ortodossa considera come espressione adeguata e sufficiente della sua fede la formula “che procede dal Padre”. Di fronte agli eretici che affermavano che lo Spirito fosse una creatura, i difensori dell’Ortodossia mettono l’accento sul fatto che lo Spirito Santo riceve direttamente la propria esistenza dal Padre. In questo senso san Gregorio Nazianzeno dichiara: “Lo Spirito Santo che procede dal Padre, per il fatto stesso che ne procede, non è una creatura” (Orat. 31, 8).

In Occidente, a cominciare dal V secolo la teologia trinitaria ha preso un’altra direzione: per corroborare la divinità del Figlio contro l’arianesimo e per sottolineare la relazione tra lo Spirito Santo ed il Figlio, si è cominciato ad affermare, dapprima sporadicamente e in seguito sistematicamente, che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio (filioque). Parallelamente allo sviluppo di questa concezione, prima in Spagna, poi in Gallia e in Germania non si ebbe timore di alterare il simbolo universale della fede aggiungendovi la parola “e dal Figlio”. Roma disapprovava questa aggiunta. Ma all’inizio dell’XI secolo, quando il papato era completamente sotto il giogo degli imperatori germanici, l’interpolazione fu introdotta anche a Roma. Fatto doppiamente condannabile, prima perché questa aggiunta esprimeva una dottrina senza fondamento nella Rivelazione, secondo perché la modifica del testo del Credo era stata fatta unilateralmente dalla Chiesa d’Occidente in violazione del principio cattolico della conciliarità.

Se lo Spirito Santo procede dal Padre soltanto, non ne consegue che sia estraneo al Figlio; san Giovanni Damasceno scrive infatti: “Noi diciamo anche che il Santo-Spirito procede dal Padre e lo chiamiamo lo Spirito del Padre, non diciamo che procede dal Figlio, ma che è lo Spirito del Figlio” (De fide orth. 1, 8). Nel meraviglioso simbolo di san Gregorio di Neo-Cesarea (III secolo), leggiamo: “E un solo Spirito-Santo, che riceve da Dio [cioè dal Padre] la propria esistenza e manifestato agli uomini attraverso il Figlio, Immagine perfetta del Figlio perfetto, vita causa dei viventi, fonte santa, santità che produce santificazione, nel quale è rivelato Dio Padre che è su tutto ed in tutto, e il Figlio per mezzo del quale tutto (esiste)”. Così nell’ordine ontologico ed eterno lo Spirito procede dal Padre, in quello della missione è manifestato attraverso Figlio: “noi confessiamo – scrive san Giovanni Damasceno – che egli (ovverosia lo Spirito Santo) ci è dato e manifestato attraverso il Figlio” (De fide orth., ibid.).

Lo Spirito Santo è fonte di ogni santificazione: prima della sua passione, il Signore annuncia la venuta dello Spirito e questa promessa si è realizzata nella Pentecoste. La vita della Chiesa altro non è che questo avvenimento perpetuato in particolare attraverso i sacramenti. È la presenza dello Spirito Santo che distingue fondamentalmente nel suo comportamento la Chiesa da ogni altro tipo di società e le dà una serena certezza in mezzo alle difficoltà.

Lo Spirito Santo è la forza che agisce nella santificazione di ciascun cristiano: è per avere ricevuto la grazia dello Spirito Santo che, rivolgendoci a Dio, possiamo dire ad alta voce: “Abba, Padre” (Rm 7, 15; Gal 4, 6). Per questo san Paolo chiama il Santo-Spirito, lo Spirito di adozione: “Lo Spirito stesso da testimonianza con il nostro spirito che noi siamo figli di Dio” (Rm 8, 16).

Noi confessiamo nel Credo che lo Spirito è Vivificatore perché la grazia che comunica ci rende realmente partecipi della natura divina (2 Pt 1, 4). Ciò non deve essere interpretato in senso panteistico, e bisogna pure badare a non svuotare la Scrittura del suo vero significato intendendo questa espressione come una metafora: per questo la Chiesa Ortodossa, per salvaguardare la dottrina della trascendenza di Dio e al contempo affermare la possibilità della deificazione dell’essere creato, insegna fermamente la distinzione tra l’essenza incomunicabile di Dio e le energie divine accessibili all’uomo. È questa grazia deificante che illumina già in vita coloro che con l’ascesi fuggono le vanità di questo mondo ed è questa grazia che dopo la seconda Parusia trasfigurerà l’insieme del cosmo e manifesterà la vittoria di Cristo, unendo nella luce e nell’amore la creatura al Creatore.

Articolo 9

Nella Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica.

Presentando la Chiesa come oggetto di fede, il Credo ci ricorda che essa non è semplicemente la riunione dei credenti, ma ha un posto eminente nella storia della salvezza. Durante il suo ministero terreno, nostro Signore Gesù Cristo annuncia che egli stesso ne sarà il fondatore (Mt 15, 18) e numerosi testi neo-testamentari proclamano che Cristo ne è il capo (ad es. Ef 1, 22). Il termine greco ekklèsia si trova usato nell’Antico Testamento per tradurre l’ebraico qahl, che designa il raduno di Israele e il richiamo di Dio; così si legge nel Deuteronomio: “non dimenticare tutte le cose che gli occhi tuoi hanno visto… il giorno in cui sull’Oreb vi siete presentati davanti al Signore vostro Dio, il giorno del Raduno, quando il Signore mi disse: raduna (ekklèsiason) -mi il popolo perché ascoltino le mie parole… E vi annunciò il testamento che vi ordinò di eseguire, i dieci comandamenti, e li scrisse su due tavole di pietra…” (Dt 4, 9-13). Il termine quahl – ekklèsia lo si ritrova per indicare le assemblee solenni del popolo a Gerusalemme. Va osservato dunque che il termine non è mai usato in contesto profano; ciò è conforme al suo uso nel Nuovo Testamento e nell’antica letteratura cristiana, sia quando si riferisce ad una comunità locale sia quando designa l’insieme dei credenti. Si trova infatti sovente l’espressione la Chiesa di Dio (ad es. 1 Cor 1, 2).

La Chiesa è definita nel Credo come Una, Santa, Cattolica e Apostolica. Queste caratteristiche della Chiesa costituiscono un insieme inseparabile, perché si richiamano a vicenda; pur essendo distinte, non se ne può togliere nessuna, in altre parole la mancanza o la mutilazione di una di esse colpisce le altre, ad esempio la concezione ortodossa dell’unità è legata ad un certo modo di intendere la cattolicità. Non invano san Cipriano di Cartagine intitola la sua opera diretta contro i dissidenti Sull’unità della Chiesa cattolica.

Quando si affronta la dottrina della Chiesa, ci si deve guardare dalle imprecisioni e dalle nozioni ambigue. Due estremi sono da scartare: da un lato una concezione troppo spirituale della Chiesa, che col pretesto di evitare il formalismo svuoterebbe tutta la realtà sociale ed istituzionale, dall’altro un istituzionalismo troppo marcato che pretenderebbe di asservire il campo spirituale. D’altronde, infatti, questi due eccessi possono congiungersi, come nel caso di alcune ecclesiologie in cui si ammette una certa dualità tra la Chiesa spirituale degli eletti da un lato e le comunità istituzionali dall’altro.

La Chiesa è Una: Nostro Signore Gesù Cristo ha fondato solamente una Chiesa, alla quale ha promesso assistenza e che a pieno diritto è guardiana del messaggio evangelico. Questa affermazione era anticamente, come lo è ancora ai nostri giorni per i cristiani rimasti fedeli alla tradizione, una verità assiomatica. Non ci dovrebbero essere più chiese poiché non possono esserci più verità. È vero che si talvolta si parla di “Chiese” al plurale per designare le comunità locali, come si usava all’epoca apostolica, ma questa pluralità locale non implica affatto la molteplicità, come la celebrazione della Liturgia eucaristica in più posti non implica una qualsivoglia divisione di Cristo.

Cosa ben diversa quando si usa il termine “Chiesa” per indicare comunità cristiane dissidenti; in quel caso non ha un significato teologico speciale, ma il termine indica solamente una società religiosa cristiana (non rientra nel nostro tema parlare dei rapporti tra la Chiesa Ortodossa e le comunità cristiane eterodosse; dobbiamo solo precisare che non intendiamo affatto negare l’esistenza di una “ecclesialità” più o meno grande in ciascuna delle confessioni dissidenti; tale argomento, del resto, non potrebbe essere affrontato, neppure superficialmente, in poche righe).

Quando diciamo che la Chiesa è una, lo intendiamo in tutta la forza del termine. Questa unità è dapprima nel tempo: la Chiesa odierna nella sua essenza è quella degli Apostoli e dei santi Padri dei primi secoli. Poi nello spazio: le Chiese locali che professano la fede pura ortodossa e conservano fedelmente la successione apostolica sono in comunione tra loro ed hanno lo stesso capo, che è Cristo.

La Chiesa è Santa. Abbiamo visto qual era il senso del termine qahl-ekklèsia nelle Sante Scritture: la Chiesa è dunque santa perché, fondata da Cristo, è al servizio esclusivo di Dio. È la sposa “tutta splendente, senza macchia né piega né altro di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5, 27). Clemente di Alessandria (III sec.) scrive queste righe assai profonde: “Se chiamiamo sacro sia propriamente Dio, sia l’edificio innalzato a sua gloria, perché non dovremmo chiamare sacra per eccellenza la Chiesa divenuta santa per la gloria di Dio secondo la conoscenza? Non è essa il santuario veramente degno di Dio, non preparato dal lavoro degli operai, né abbellito dalla mano di artisti, ma edificato a tempio per volontà di Dio?” (Stromati VII, 5, 23). Santa per vocazione, la Chiesa è portatrice della grazia che lo Spirito non cessa di versare su di lei dal giorno della Pentecoste. Questa grazia è comunicata a ciascuno dei suoi membri prima col battesimo e poi con gli altri sacramenti: la vita nella Chiesa è una vita in Cristo e nient’altro, e a causa di ciò questa vita è sempre un’ascesi che esclude ogni passività, perché spetta a ciascuno realizzare la potenzialità che gli è data per la sua appartenenza alla Chiesa Corpo di Cristo.

La Chiesa è Cattolica. Se in greco, nel linguaggio profano, questo termine non significa null’altro che universale, in quello della Chiesa ha preso un colorito particolare: la cattolicità è un attributo che la Chiesa possedeva al momento in cui raggruppava un pugno di discepoli palestinesi, mentre oggi essa è diffusa nei cinque continenti. La Buona Novella della salvezza portata da Gesù Cristo lo è per tutta l’umanità (Mt 27, 19-20). In Cristo, come scrive san Paolo, sono abolite le differenze di razza e di cultura: “Infatti non c’è distinzione tra Giudeo e Greco: tutti hanno lo stesso Signore, generoso verso tutti quelli che l’invocano” (Rm 10, 12). Questa universalità ecclesiale è una pienezza dove, conformemente alla dottrina ortodossa, ogni persona ha la possibilità di espandersi perché l’opposizione tra la parte e il tutto è superata nella Chiesa, la cui vita riflette quella della Divinità, una trina insieme.

La cattolicità è pertanto la negazione del particolarismo settario; ed è proprio questo aspetto che viene maggiormente valorizzato nei testi patristici più antichi dove viene impiegato l’aggettivo “cattolico”. Nella sottoscrizione del Martirio di san Policarpo (II sec.) troviamo infatti la formula: “La Chiesa di Dio che soggiorna a Smirne, alla Chiesa di Dio che soggiorna a Filomene, e a tutte le comunità del mondo che appartengono alla santa Chiesa cattolica…”. Verso la metà del II secolo, il martire Pionio, alla domanda del giudice, risponde che è cristiano; ma questa risposta è ritenuta incompleta e quando gli viene chiesto a quale chiesa appartenga, Pionio risponde: “alla Chiesa cattolica”. Il termine cattolico caratterizza qui la vera Chiesa fondata da Cristo. È questo il senso che ritroviamo invariabilmente nei documenti conciliari, in particolare nel decreto dogmatico dei Padri del primo Concilio ecumenico (325).

La Chiesa è Apostolica. Lo è perché è costruita sulle fondamenta degli apostoli e conserva fedelmente il messaggio del Signore trasmesso dagli apostoli; in questo senso “apostolicità” è sinonimo di “autenticità”. Per questo l’apostolicità nel suo significato pregnante non può che appartenere all’Una Santa, che è la Chiesa Ortodossa. La continuità materiale nella successione apostolica è una condizione necessaria ma per nulla sufficiente; i successori legittimi degli apostoli sono i vescovi che conservano fedelmente la dottrina apostolica. Ad essi spetta il diritto di proclamare la parola di verità e di interpretare la Tradizione; essi hanno il potere, individualmente e collettivamente, di insegnare (potestas docendi). I vescovi successori degli apostoli, ed i sacerdoti, loro delegati, offrono in nome della Chiesa la vittima immacolata, perché ad essi si rivolge pure la parola del Salvatore: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19). Essi hanno il potere di legare e di sciogliere e l’incarico di pascere il gregge spirituale che viene ad essi affidato da Dio.

Nella Chiesa Ortodossa non c’è mai stato dubbio sul fatto che l’episcopato appartiene non al “bene esse” [ben-essere] o al “plene esse” [pienezza] della Chiesa, ma alla sua natura [esse] stessa. Per questo sant’Ignazio di Antiochia arriva persino a scrivere che si deve “guardare il vescovo come il Signore stesso” (Lettera agli Efesini V, 1). Tuttavia ciò non vuol dire che il vescovo possegga un potere arbitrario, perché anch’egli deve essere legato alla Tradizione della Chiesa ed essere in comunione visibile con l’insieme dell’episcopato ortodosso al quale appartiene la pienezza del potere conformemente alla struttura conciliare della Chiesa ereditata dalla comunità apostolica.

D’altra parte, se in virtù del carisma dottorale incluso nella successione apostolica, i vescovi legittimi hanno la prerogativa esclusiva di esplicitare ufficialmente il credo costantemente professato dalla Chiesa e come corollario il potere di scomunicare gli eretici, tocca a tutto il popolo cristiano difendere la Fede contro ogni deformazione. D’altronde è nell’unione dei pastori e di tutto il popolo cristiano, fedeli al messaggio del Signore e alla Fede apostolica, che si manifesta l’unità cattolica della Santa Chiesa di Dio.

Articolo 10

Confesso un solo battesimo per il perdono dei peccati.

Questo articolo del Credo ci richiama l’origine battesimale della professione di fede. Proclamare che c’è un solo battesimo per il perdono dei peccati, significa riconoscere che l’adesione a Cristo nella Chiesa è l’unica via certa di salvezza. Anticamente, il sacramento del battesimo in generale era conferito a persone adulte che venivano prima iniziate alla dottrina cristiana. Chiedendo di ricevere il battesimo, i neofiti erano consapevoli che esso costituiva la rottura con la loro vita antecedente.

Oggi, eccetto che nei paesi di missione, non è più così, ed i bambini vengono generalmente battezzati sin dalla loro più tenera età al fine di potere partecipare alla vita cristiana, conformemente alla parola del Salvatore: “Lasciate che i pargoli vengano a me” (Lc 17, 16). In entrambi i casi, la recita di questo articolo del Credo costituisce un rinnovamento delle promesse fatte sia direttamente, sia per l’intermediazione del padrino o della madrina, al momento del battesimo. Nella Liturgia, il Credo è giustamente letto o cantato prima dell’inizio dell’anafora (Anaphora significa in greco “oblazione”; nel linguaggio liturgico, il termine designa anche la parte centrale della Liturgia eucaristica; nella Messa romana corrisponde al canone, nel quale sono inclusi il prefazio e il dialogo che la precede).

In quel momento, esso costituisce per i fedeli riuniti il ricordo opportuno degli impegni battesimali, che fa eco alle raccomandazioni di san Paolo relative alla Cena: “Ciascuno dunque esamini prima se stesso, e dopo mangi di questo pane e beva di questo calice” (1 Cor 11, 28).

Nel Credo, l’articolo sul battesimo viene immediatamente dopo quello che riguarda la Chiesa e questa disposizione è logica poiché non c’è altro mezzo di entrare nella comunità ecclesiale fondata da Cristo se non ricevendo il battesimo. Pertanto sacramento sta all’origine di tutta la vita cristiana; esso segna la nascita spirituale e come abbiamo detto all’inizio, ciò implica inizialmente una rottura con tutto ciò che non appartiene al Regno di Dio; non ci possono essere compromessi. “Nessuno può servire due padroni; o odierà l’uno ed amerà l’altro, o si legherà ad uno e disprezzerà l’altro” (Mt 6, 24, cf. Lc 16, 13).

L’apostolo Paolo scrive ai Romani: “Ignorate che battezzati in Cristo Gesù, è nella sua morte che tutti siamo stati battezzati? Siamo stati seppelliti dunque con lui nella morte mediante il battesimo, affinché, come Cristo è risuscitato dai morti per la gloria del Padre, anche noi viviamo una vita nuova… Se siamo morti con Cristo, crediamo che vivremo anche con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non morrà più, che la morte non avrà più potere su di lui. La sua morte è stata una morte al peccato, una volta e per sempre; ma la sua vita è una vita in Dio. Lo stesso voi, consideratevi come morti al peccato e vivi per Dio in Cristo Gesù” (Rm 6, 3-4; 8-11).

Nel rito battesimale, l’accento è messo proprio sulle due fasi, quella della rottura e quella dell’adesione: “Rinunci a Satana e a tutte le sue opere, e a tutti i suoi angeli, e ad ogni suo culto e ad ogni sua pompa?”; e più avanti: “Ti unisci a Cristo?”. Nell’antichità cristiana, ogni più piccola parte del rito battesimale era carica di simbolismo: si può dire che era spinto sino al raffinamento. Ma certi aspetti di questo simbolismo superavano largamente quelli del semplice allegorismo: la Chiesa li ha accuratamente conservati, pure quando oggi da molti non sono più compresi perfettamente. I Padri, nella loro catechesi battesimale, insistevano sullo spogliamento dell’uomo vecchio, così come pure il rivestire una tunica bianca richiama la purezza acquistata col ricevimento del sacramento.

Si sa che la Chiesa ortodossa, salvo eccezioni dovutamente motivate, conferisce sempre il battesimo per immersione: è così, in effetti, che si manifesta il significato di questo sacramento. Nelle Costituzioni apostoliche, leggiamo questa preghiera per santificare l’acqua dei fonti battesimali: “Santifica quest’acqua affinché coloro che sono battezzati siano crocifissi con Cristo, muoiano con lui, siano seppelliti con lui, e risuscitino con lui per l’adozione”. Commentando le tre immersioni che figurano nel triduo pasquale, san Cirillo di Gerusalemme (IV sec.) scrive queste ammirevoli parole: “Cosa meravigliosa e paradossale! Noi non siamo morti realmente e non siamo stati sepolti realmente, e, dopo essere stati crocifissi, non siamo risuscitati realmente. Se l’imitazione si fa in immagine, la salvezza, invece, essa si fa in realtà. Cristo è stato realmente crocifisso, e realmente messo nel sepolcro, ed è realmente risuscitato. E tutte queste cose sono state compiute per amore per noi, affinché, prendendovi parte per imitazione alle sue sofferenze, otteniamo realmente la salvezza”.

Si comprende da lì che non è per puro attaccamento al passato che la Chiesa Ortodossa è rimasta fedele all’antico modo di amministrare il sacramento del battesimo: ma a motivo di tutto il significato sacramentale del rito. Certo è che l’abbandono del battesimo per immersione comporta un indebolimento del simbolismo proprio del sacramento.

Nella Chiesa ortodossa, al battesimo segue regolarmente l’amministrazione della cresima, che in occidente viene chiamata confermazione; se, infatti, il battesimo segna la nascita alla vita spirituale, la cresima conferma in modo più speciale l’integrazione alla comunità cristiana con il carisma dello Spirito Santo. Normalmente l’iniziazione cristiana si completa con la partecipazione alla Santa Cena; per il neofita è la piena comunione con il Signore e la promessa della partecipazione al banchetto messianico del Regno. Si completerà allora il processo di trasfigurazione abbozzato con il battesimo e l’unzione del crisma. Così l’iniziazione cristiana unisce i tre sacramenti, battesimo, cresima, eucaristia, e, come abbiamo visto, questa connessione non è affatto fortuita; non è neppure un accostamento pratico di cerimonie; al contrario, risponde ad un significato profondo.

Nel Credo, confessiamo unum baptisma. C’è lì un’affermazione solenne dell’unicità del battesimo. San Paolo lo dichiara espressamente agli Efesini: “un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, per tutti e in tutti” (Ef 4, 5-6). Come noi professiamo che nostro Signore ha fondato una sola Chiesa, così confessiamo che c’è un solo battesimo, perché unica e indivisibile è la Santa Trinità nel nome della quale siamo battezzati secondo il comandamento del Signore (Mt 28, 19). Per questo la Chiesa non ripete il battesimo conferito nel suo seno ed ammette senza ribattezzarli gli eretici, che sono stati validamente battezzati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, conformemente al VII canone del II Concilio ecumenico (381). La nozione di validità è qui condizionata da una corretta amministrazione del sacramento dal punto di vista della materia e della forma, da una parte, e dall’appartenenza di chi ha compiuto il rito ad una comunità cristiana che confessi il dogma della Santa Trinità.

Il battesimo non si ripete nel caso in cui un cristiano rinneghi la sua fede e successivamente chieda la propria reintegrazione nella Chiesa, perché il segno di Dio su ciascun battezzato resta indelebile: la cattiva condotta di un figlio non dissolve il legame che lo unisce al padre, parimenti il gran numero di peccati e la gravità dei peccati non sopprime la potenzialità che è stata data nel battesimo. La via della penitenza rimane sempre aperta, come nostro Signore ricorda nella parabola del figliol prodigo.

Il battesimo costituisce un momento unico della vita dell’uomo, poiché attraverso questo sacramento il battezzato è giustificato davanti a Dio, non per i propri meriti, ma per l’appropriazione della riconciliazione e della salvezza portate in Gesù Cristo. La maledizione che pesava sull’umanità dopo la rottura originale è stata tolta dal sacrificio del Verbo incarnato: essere battezzato significa essere integrato in questa umanità rinnovata di cui Cristo, nuovo Adamo, è il capo. Ma ciò che noi acquistiamo, in Cristo, è la libertà, con tutto ciò che essa comporta, cioè la possibilità per noi di una opzione. Nel momento dell’iniziazione cristiana, la grazia divina viene in noi, ma spetta a noi fare fruttificare i talenti che ci sono stati affidati. Se non lo facciamo, il corruccio divino si abbatterà su di noi, come insegna la parabola evangelica (cf. Mt 25, 26-30), ma colui che compie i comandamenti divini è promesso all’ineffabile mistero dell’unione deificante (2 Pt 1,4): è la fine ultima nella quale si realizza pienamente la vocazione di coloro che sono stati battezzati in Cristo.

Articoli 11 e 12

Attendo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.

Abbiamo già detto precedentemente quanto nel cristianesimo fosse fondamentale l’elemento escatologico. È questo orientamento verso una “fine” che gli dà il suo carattere peculiare. Perdere di vista questo significa rischiare di falsare integralmente il messaggio evangelico, ridurre la Rivelazione ad un’etica conformista. Mentre per la filosofia ellenica, a causa della sua concezione ciclica del tempo, la resurrezione dei morti non aveva alcun senso, il cristianesimo, concependo il tempo secondo la Bibbia come lineare, accorda a questo credere tutto il suo significato. Si noterà pure, se si esamina attentamente il quadro in cui è situata, che l’idea platonica dell’immortalità dell’anima è molto lontana dal dogma della sopravvivenza dell’uomo.

Il simbolo della fede usa un’espressione estremamente caratteristica: “attendo la resurrezione dei morti”. Il verbo usato, in greco, è prosdokô, che ha un duplice significato difficile da rendere nella traduzione: da un lato evoca l’idea di un’attesa soggettiva – all’occorrenza si collega all’attesa impaziente dei credenti la cui eco si trova alla fine dell’Apocalisse (“Vieni, Signore Gesù!” Ap 22, 20); dall’altro ha un significato oggettivo: cioè che un avvenimento ineluttabile, buono o cattivo che sia, sta per arrivare. La resurrezione non è semplicemente una pia speranza, è una certezza che condiziona la fede cristiana. Invero, se sbalordiva i pagani (ac 17, 32), quella credenza sembrava normale alla maggior parte dei Giudei (Gv 11, 24), benché i Sadducei l’avessero respinta. Essa trovava il suo fondamento nell’Antico Testamento (vedere ad es. Ez 37, 1 14).

Ciò che è nuovo, nella fede Cristiana, è che la speranza della resurrezione felice è legata all’opera redentrice di Gesù Cristo: “Io sono – dice nostro Signore a Marta – la resurrezione. Chi crede in me, anche morto, vivrà; e chiunque vive e crede in me non morirà mai” (Gv 11, 25-26). Per questo l’apostolo Paolo scrive ai Tessalonicesi: “Non vogliamo, fratelli, che voi ignoriate quel che riguarda i morti; non dovete essere desolati come gli altri che non hanno speranza” (1 Tess 4, 13). Il Cristianesimo è veramente nel senso forte religione della speranza; l’eroismo dei martiri della fede infatti non ha nulla a che vedere con la calma assoluta degli antichi saggi dinanzi all’ineluttabile declino. Nulla di più commovente nella sua pacifica certezza della preghiera di san Policarpo sul suo rogo: “Signore, Dio onnipotente, Padre di Gesù Cristo, tuo figlio prediletto e benedetto, per mezzo del quale ti abbiamo conosciuto; Dio degli angeli e delle potenze, Dio di tutto il creato e di tutta la famiglia dei giusti che vivono nella presenza; ti benedico per avermi giudicato degno dei questo giorno e di quest’ora, degno di essere annoverato tra i tuoi martiri e di partecipare al calice del tuo Cristo, per risuscitare alla vita eterna, nell’incorruttibilità dello Spirito Santo”.

Mentre nel simbolo di Nicea-Costantinopoli si parla della “resurrezione dei morti”, il vecchio Credo romano (vedi Introduzione) parla della “resurrezione della carne” per sottolineare il carattere molto concreto di questo avvenimento; tuttavia il termine “carne” deve essere inteso qui nel senso di “persona”, perché sappiamo invero che “la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio”(1 Cor 15, 50). La resurrezione per la vita eterna suppone una trasformazione, un passaggio dalla corruttibilità all’incorruttibilità (1 Cor 15, 51-54).

San Paolo afferma chiaramente alla fine di una serie di ragionamenti sul contenuto della resurrezione: “Si semina un corpo psichico, ma risuscita un corpo spirituale”; certo, il corpo risuscitato ed il corpo sepolto sono lo stesso soggetto, ma il modo di essere è diverso. Per comprendere bene questo, non si deve perdere di vista cosa significa per san Paolo la categoria dello spirituale, che è legata a quella del divino. Il corpo spirituale è il corpo trasfigurato dalla grazia. “Come, infatti, tutti muoiono in Adamo, così tutti saranno vivificati in Cristo” (1 Cor 15, 22).

La Resurrezione di Cristo è la primizia della resurrezione dei morti (ibid. 20). La vita del cristiano deve essere penetrata da questa certezza; per questo i credenti devono comportarsi in questo mondo come figli della luce (Ef 5, 8); la partecipazione alla Santa Eucaristia costituisce la caparra della vita eterna, come viene sovente ricordato nella Liturgia. È in effetti nel sacramento dell’Eucarestia che, forse, viene più fortemente marcato l’accento escatologico: la Santa Cena è l’anticipo del banchetto messianico, nel Regno, al quale siamo tutti invitati. La discesa dello Spirito Santo sui Doni, nel momento dell’epiclesi, attualizza l’avvenimento della Pentecoste e prefigura il trionfo della Seconda Parusia. Il legame tra la Pentecoste da un lato, la seconda Parusia e la resurrezione generale dall’altro, viene particolarmente sottolineato in Oriente nella Liturgia; il sabato che precede la domenica di Pentecoste è in particolar modo consacrato ai defunti; e l’ufficio della genuflessione (la sera di Pentecoste) comprende parecchie allusioni alla resurrezione futura, una è questa: “Ti rendiamo grazie in ogni cosa, per la nostra venuta in questo mondo e per la nostra dipartita, che, in virtù della tua ineffabile promessa, fa nascere in noi la speranza della resurrezione e della vita pura, di cui speriamo godere al tuo futuro ritorno”.

Nella resurrezione generale che segnerà la fine di questo mondo, i cristiani vedono essenzialmente la manifestazione della vittoria di Cristo, annunciata in maniera certa dalla Resurrezione del Signore all’alba del terzo giorno. Ma il “Giorno del Signore” sarà quello del giudizio; sappiamo che “coloro avranno fatto il bene risusciteranno per la vita, coloro che avranno fatto il male, per la dannazione” (Gv 5, 29). Sarà la separazione definitiva del grano buono dalla zizzania. Non spetta a nessun altro ma al Signore stesso fare questa separazione ed essa diverrà manifesta solo nel giudizio finale: allora non ci sarà più confusione, perché nulla di impuro entrerà nel Regno; non ci sarà più possibilità di cambiamento.

Per comprendere bene ciò non si deve guardare dalla prospettiva affettiva. Al di là del tempo, non ci sarà che l’immutabile; la condanna è l’allontanamento da Dio che diviene eterno perché extra-temporale. La vocazione della creatura, nel disegno di Dio, è la trasfigurazione, l’unione deificante. Nella vita del “mondo che verrà” tutto ciò che sarà allontanato da Dio potrà essere considerato come morto: sarà la seconda morte, quella di cui parla san Giovanni nell’Apocalisse (20, 14): questa morte, consisterà nell’essere dimenticati da Dio: coloro che non hanno voluto conoscere Dio, non saranno conosciuti da lui. Coloro che l’avranno conosciuto e servito risplenderanno di gloria ineffabile e senza declino.

Il Credo comincia con l’affermazione solenne della fede in Dio. Ma questo atto di fede non è semplicemente intellettuale, suppone un impegno totale: in Cristo e per mezzo dello Spirito Santo, la vita del credente è trasformata, perché il cristiano, pur vivendo in questo mondo, non appartiene a questo mondo, il suo sguardo è rivolto verso il Regno della luce, così termina con la confessione radiosa dell’attesa della resurrezione e della vita del mondo che verrà, dove non ci sarà “né dolore, né tristezza, né lacrime”.

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