Fate ogni cosa per la gloria di Dio (1Cor. 10, 31)

Lo scopo finale della musica non deve essere altro che la gloria di Dio e il sollievo dell'anima (Johann Sebastian Bach)

sabato 17 ottobre 2015

L’estetica del suono al tempo di Monteverdi

Di Mauro Uberti. E’ stato docente di Teoria e solfeggio al Conservatorio di Torino, di  Propedeutica della musica e Prassi esecutiva della musica antica al Conservatorio di Pesaro; di Polifonia vocale teorica e pratica e Pre-canto nel Liceo sperimentale di quello di Parma.

Dal convegno sulla vocalità «La didattica del canto nella storia» tenuto il 12 dicembre 2009 nell’Aula di Musica, Università «Sapienza» di Roma.

Premessa

Il tempo di Monteverdi è l'epoca del passaggio dalla polifonia al «recitar cantando» ma, dato che questo è un convegno organizzato dall'Associazione Regionale Cori del Lazio, ho ritenuto opportuno mettere l'accento più sull'aspetto corale che su quello solistico della voce anche perché agli inizi del «recitar cantando» la vocalità non poteva essere altra che quella usata dai cantori in quel tempo operanti, cioè da esecutori di musiche polifoniche; del resto almeno nel caso del madrigale essi cantavano già la propria parte da solisti.

I documenti precedenti l’invenzione del grammofono, che abbiamo a disposizione per ricostruire i caratteri estetici del suono, sono ovviamente quelli specificamente musicologici e musicali, ma anche quelli letterari e, vedremo, iconografici. Trattandosi però del suono della voce, cioè di una funzione fisiologica, gli strumenti per l'analisi e l'interpretazione dei documenti sono necessariamente la fisiologia e l’anatomia così come la fonetica e l'acustica ambientale.

Un’altra premessa è da fare: sarebbe bello se potessimo avere a nostra disposizione tutti e soltanto documenti corrispondenti al periodo in esame, ma così non è. E’ opportuno quindi cercare testimonianze ed indizi utili alla ricerca anche nei periodi precedenti o seguenti e trarre conclusioni per estrapolazione; se, cioè, testimonianze relative ad un certo argomento e coerenti fra loro compaiono in periodi antecedenti e seguenti il periodo monteverdiano costituendo un ponte temporale che lo comprende, pare a me ragionevole ammettere che i caratteri dell’argomento in esame valgano anche per questo.

La vocalità colta d’oggi

E' importante rendersi conto del fatto che la vocalità colta alla quale facciamo abitualmente riferimento è quella del teatro d’opera attuale; vocalità che è tutt’altro che omogenea, ma le cui varietà hanno una radice comune: quella che si forma attorno al 1830 ed è descritta da Manuel Garçia nel suo Traité complet de l'art du chant;[1] tecnica che si disperderà poi in altre e diverse tecniche così come mostra la varietà di quelle insegnate nei trattati di canto che seguiranno.

Questo tipo di vocalità rispondeva e risponde ancora oggi all’esigenza già evidenziata dall'Arteaga fin dal 1785[2] di aumentare la potenza della voce in modo da farla «spiccare» in mezzo al suono delle orchestre diventate sempre più grandi e fragorose. Oltre alla potenza, il mezzo fisio-acustico naturale per mettere in evidenza il suono della voce è quello di rinforzare la cosiddetta «formante del canto», cioè il picco di intensità degli armonici vocali attorno ai 3.000 Hz al quale si deve il caratteristico smalto della voce cantata; rinforzo che nelle tecniche di canto romantiche e veriste è accentuato e che sposta l’attenzione dell’ascoltatore dal timbro specifico delle vocali a quello generale della voce del cantore. La soddisfazione dell’esigenza di fare «spiccare» la voce sopra il suono dell’orchestra ha portato anche ad un profondo cambiamento del gusto musicale, in conseguenza del quale si accetta come normale il fatto che nella voce cosiddetta «lirica» la struttura acustica dei fonemi sia più profondamente alterata rispetto a quella della voce parlata di quanto accadeva con le tecniche di canto precedenti[3]; si accetta cioè come normale la diminuzione della comprensibilità.[4] I comportamenti fonatori adottati con le tecniche romantiche e veriste determinano pure l’accentuazione del vibrato; accentuazione che ha come effetto psicoacustico quello di trasformarlo in una vera e propria componente timbrica della voce. Caratteri questi che danno al suono della voce cosiddetta «lirica» un carattere ben diverso da quello dell’epoca di Monteverdi.

La vocalità del tempo di Monteverdi

Premessi questi fatti - ma dovremmo premetterne molti altri - io ritengo di dover stabilire convenzionalmente la fine del suono monteverdiano nel 1637, anno dell’apertura del Teatro San Cassiano a Venezia, quando cioè lo spettacolo si apre al pubblico pagante e non è più riservato al principe ed ai suoi «cortegiani». A me pare che sia corretto farlo perché da quel momento l'impresario teatrale – o chi per lui – per fare soldi dovrà costruire teatri sempre più grandi in modo da accogliere il maggior numero possibile di spettatori. Creando spazi acustici sempre più grandi dovrà chiedere ai compositori di aumentare il numero degli strumenti in partitura e nell’orchestra e di conseguenza i cantanti dovranno cantare sempre più forte. Così, un passo alla volta, l’ideale estetico vocale dell’epoca della quale ci stiamo occupando cambierà e si giungerà alle proteste dell’Arteaga ed alla rivoluzione vocale degli anni ’30 del XIX secolo.

Per inquadrare l’estetica del suono vocale, qualunque sia l’epoca alla quale ci si riferisce, è utile immaginare un'area di esistenza della vocalità, compresa in un triangolo che abbia come vertici la potenza, l'agilità e l'espressività (riassumendo nel termine «espressività» tutto ciò che si richiede per «esprimere», cioè la comprensibilità della parola e l'espressione vera e propria degli affetti) e nel quale il tipo di voce impiegato si sposta a volta a volta verso una delle tre caratteristiche accentuandola a scapito delle altre. Diciamo inoltre che modi diversi di cantare nei quali prevalgano a volta a volta la potenza di voce, l’agilità o l’espressività sono sempre esistiti. La citazione più antica ed evidente che io conosca è la lettera a Teofilo Fusco di Camillo Maffei il quale, lamentandosi della disparità delle opinioni e dei gusti degli interlocutori con i quali è costretto ad intrattenersi, a proposito del canto dice: «un altro non vorrebbe sentir se non passaggi di garganta - cioè di agilità - un lodare il cantare dolce e soave, un altro il cantar nella cappella»,[5] ossia a gran voce come si cantava appunto nelle cappelle.

Categorie di cantori

Vediamo allora chi fossero i cantori all'epoca di Monteverdi. Erano sia professionisti che, si badi bene, dilettanti. I professionisti erano cantori pagati per cantare nelle corti gentilizie e nelle «chiese o capelle» come dice lo Zacconi; i dilettanti erano invece aristocratici o almeno ricchi borghesi.[6] Come sempre i professionisti erano selezionati in base alle loro doti naturali, dipendevano dalla Chiesa o da un aristocratico che li stipendiavano ed erano selezionati sia per la qualità vocale che per la professionalità musicale. Diverso il caso dei dilettanti. Oggi noi intendiamo come dilettante colui che pratica una certa attività con poco impegno e con scarso magistero; non dimentichiamo invece che, di per sé, il termine sta soltanto ad indicare chi svolge un’attività per diletto e non per lucro. Benedetto Marcello, per esempio, lo sottolineava firmandosi: «Benedetto Marcello, nobile veneto, dilettante di contrappunto». Noi sappiamo che l'educazione degli aristocratici, sia uomini che donne, comprendeva anche la musica. Basta leggere «Il Cortegiano»[7] di Baldassarre Castiglione per capire quanta parte avesse la musica, nel XVI secolo, nella formazione culturale e sociale dell’uomo di corte: «io non mi contento del Cortegiano, s'egli non è ancor musico, e se, oltre allo intendere ed esser sicuro a libro,[8] non sa di varii instrumenti».[9] Che la «Donna di Palazzo» dovesse avere la stessa preparazione musicale risulta da un altro passo: «e però... non vorrei vederla usar... nel cantar o sonar quelle diminuzioni forti e replicate, che mostrano più arte che dolcezza, medesimamente gl'instrumenti di musica che ella usa (secondo me) debbono esser conformi a questa intenzione».[10] Il livello di difficoltà musicale che la gente di corte sembrerebbe essere stata abitualmente in grado di superare parrebbe corrispondere almeno a quello del madrigale «Lasciare il velo» di Francesco de Layolle,[11] usato come esempio didattico dal Maffei nella sua lettera sul canto della quale si parlerà ancora e che, stante il tono della lettera stessa, sembra rispondere ad un’esplicita richiesta di insegnamento da parte, appunto, di un dilettante: il Conte d’Altavilla.

Tipi di voce

Prendere come riferimento per la vocalità colta in generale quella attuale può indurre in inganno. E’ bene tener presente che le classi vocali dell’opera lirica e in particolare i loro specifici modi di canto non si sono formati tanto o soltanto in base ad esigenze compositive, ma anche e soprattutto a quelle commerciali dello spettacolo: disponibilità per l’impresario di cantanti famosi, commissione ai musicisti di melodrammi su misura agli stessi, abbinamento delle classi vocali ai ruoli, ecc. In realtà Mamma Natura non ha mai fatto le voci divise in classi o in misure come si fa oggi per i vestiti e le scarpe, ma secondo una variabilità continua come ella fa per l'altezza del corpo o il colore dei capelli; il che non toglie che i compositori siano sempre stati costretti a scrivere parti vocali basse ed acute, la cui tessitura è determinata dalle leggi dell’armonia ed alla quale chi non è dotato di estensione di voce corrispondente deve adattarsi declassandosi un po’ verso il basso o verso l’acuto. Nessun autore dell’epoca di Monteverdi, a mia conoscenza, parla di modi di canto diversi a seconda della classe vocale; anzi, quando Adriano Banchieri parla delle quattro voci del «perfetto conserto musicale», che chiama «Soprana, Alta, Corista & Bassa», egli osserva che la variabilità dei comportamenti fonatori delle quattro classi vocali è uguale per ognuna di esse: «il Cantore che possiede l'una di queste, in tre condicioni la possiede, cioè voce di testa, voce di petto & voce obtusa»[12] e lo spiega con un discorso che, tradotto nel gergo vocale d’oggi, significa: il cantore, qualunque sia la sua classe vocale, può essere capace di giungere al registro di testa senza incontrare la difficoltà del «passaggio», può aver voce limitata al registro di petto oppure stentare a cantare anche in questo. Senza parlare delle diverse classi vocali, diciotto anni prima Lodovico Zacconi si era posto il problema «Di qual sorte di voci si debbe far elletione per far buona Musica»[13] e ne aveva riferito dicendo che «senza che nisciuno mai habbia saputo l’intention mia sono andato ricercando i diuersi pareri altrui sopra le voci humane, allora che cantandosi di Musica le voci sogliono più dilettare & piacere: & infatti ho trouato ch’à chi né piace vna forte, & à chi un’altra: Ma in fra tanti diuersi pareri, (osseruando) ho trovato, che tra le uoci di testa & quelle di petto, quelle di petto sono le migliore per commun parere». Egli parla di «voci di testa», «voci di petto» e «voci obtuse»[14] per indicare le diverse capacità vocali che, come abbiamo visto, saranno descritte più tardi anche dal Banchieri. Il suo discorso è però interessante perché egli entra nella questione timbrica dello smalto vocale che egli chiama «frangente acuto & penetrativo»[15]. Traducendo in termini fonetici quanto egli dice, mi par di capire che le voci troppo smaltate come sono quelle «di testa» non fossero molto apprezzate e che invece la preferenza andasse a quelle dal timbro più equilibrato, cioè quelle «di petto», il cui timbro tende a quello della voce parlata e nelle quali possono esprimersi tanto la parola e gli affetti quanto la bellezza della voce del cantore, non esclusa una giusta dose di smalto.

Se noi dovessimo pensare ad una voce d’oggi che corrisponda a quanto ho detto finora, quale esempio potremmo trovare? Mi è capitato recentemente di riascoltare un disco del Coro dell'Armata Rossa[16] di quando ero ragazzo – cioè di ben più di mezzo secolo fa – e di trovarvi un tenorino solista che cantava con una splendida voce naturale, certamente affinata da uno studio sapiente ma dalla quale erano assenti gli artifici delle tecniche operistiche. A parte ovviamente la pronuncia perché cantava in russo e a parte lo stile perché cantava in un coro militare, avrebbe potuto essere uno splendido cantore da cappella. Il timbro corale è, ovviamente, la somma dei timbri vocali dei coristi che lo compongono. Dato che la formazione dei cantanti professionisti attuali è nella maggior parte dei casi quella del cantante d’opera, anche il timbro corale della Cappella Sistina dei tempi antecedenti a quelli del Concilio Vaticano II rassomigliava alquanto a quello di un coro lirico. Siamo quindi costretti a lavorare di immaginazione sulla base della nostra esperienza corale e prendendo come modello mentale voci come, per esempio, quelle del coro dell’Armata Rossa, fare mentalmente la tara alla pronuncia ed immaginare un coro di questo tipo vocale ridotto alle dimensioni di quello della Cappella Sistina.

I castrati

Il 27 settembre 1589 con la bolla «Cum pro nostro pastorali munere» Sisto V autorizza formalmente la presenza di castrati nella Cappella Giulia. Il fatto che interessa in questa sede è che questo tipo di voce con il suo timbro caratteristico entra a far parte anche ufficialmente dello strumentario vocale dell’epoca. Di solito quando si vuole dare oggi un'idea del timbro dei castrati si fa riferimento alle registrazioni di Alessandro Moreschi del quale esiste oggi in commercio un CD con tutte le diciotto registrazioni da lui effettuate tra il 1902 e il 1904; registrazioni alcune delle quali si possono ascoltare anche su YouTube. Posso garantire che non è attendibile perché io posseggo una registrazione fatta direttamente da un disco originale dell’epoca – «’Domine, Domine’ del Maestro Aldega» – nel quale il timbro del cantante è completamente diverso da quello che si sente dal CD moderno: per ripulire, cioè, dal fruscio il suono dei dischi originali sono state tagliate brutalmente le frequenze opportune, motivo per cui la voce di Alessandro Moreschi nelle due versioni della stessa registrazione risulta irriconoscibile.

E' ancora vivo, invece, Little Gimmy Scott (1925), cantante jazz affetto dalla sindrome di Kalmann. La sindrome di Kalmann è una sindrome rara, che può colpire individui dei due sessi e in conseguenza della quale non sono prodotti a sufficienza gli ormoni responsabili della crescita, motivo per cui le persone che ne sono affette rimangono di bassa statura, non hanno sviluppo sessuale e mancano del senso dell'olfatto. Il mancato sviluppo sessuale ha conseguenze anche sulla voce. Nel caso degli uomini, dato che non avviene la muta, la voce ha la tessitura di quella femminile ma un timbro caratteristico che è ragionevole pensare che corrisponda a quello dei castrati artificiali come Alessandro Moreschi, la voce dei quali non era diventata virile in quanto castrati appunto prima dello sviluppo sessuale. A parte il fatto che Jimmy Scott ha una ricca discografia facilmente acquistabile, su YouTube si trovano parecchie sue registrazioni e se teniamo conto del fatto che sta facendo del jazz, siamo tutti abbastanza esperti di voci per intuire quale sarebbe il suo timbro di voce se cantasse un altro repertorio; un timbro che comunque non ha niente a che fare con quello dei falsettisti con i quali oggi si sostituiscono abitualmente le voci di castrato.

Tecnica vocale

Non si può parlare di voce cantata senza fare riferimento alla tecnica con la quale essa è prodotta e quindi del suono vocale a monte del suo impiego musicale. Prendo in esame per prima la tecnica da chiesa per passare poi a parlare della tecnica da camera che, anche se non è sostanzialmente diversa, richiede un discorso più complesso.

Incominciamo con l'articolazione. Le rappresentazioni di cantori in atto di cantare non sono evidentemente istantanee fotografiche, ma costituiscono l’immagine ideale del cantore, quale si è costituita nella mente dell’artista grazie alle sue osservazioni dal vivo. Il modo di atteggiare la bocca costituisce la componente più evidente dell’articolazione. Quando devo dare un'idea del comportamento articolatorio ottimale per l’emissione di una bella voce naturale io uso l’immagine del cantore posto al centro del gruppo rappresentato da Luca della Robbia in una delle formelle della Cantoria del Duomo di Firenze. [17]

E’ quella che io chiamo «tecnica vocale a bilancio energetico minimo»,[18] quella, cioè, con la quale si ottiene una voce musicalmente utile per estensione, potenza ed omogeneità col minor dispendio di energie e che ritengo il comportamento fonatorio di base; comportamento sul quale si potranno poi costruire, a seconda del gusto o delle esigenze, le tecniche vocali desiderate. Per capire il senso di questa affermazione e per prendere coscienza del rapporto pneumo-fonico esistente fra la muscolatura craniale, responsabile dell’articolazione e quella addominale, responsabile appunto della componente respiratoria addominale, si provi a pronunciare la parola «babbo» tenendosi una mano sull’addome immediatamente sopra il pube; si avvertirà come all’avanzamento del labbro inferiore – e quindi della mandibola – necessario alla pronuncia delle [b] corrisponda la contrazione ed il rientro di quella parte della muscolatura addominale.

L'incisione «Il maestro di canto»[19] è stata ripresa da un quadro del Guercino.

Pur con la barba che ne nasconde un po' la bocca, l'atteggiamento del maestro di canto è lo stesso così come quello dei due allievi a bocca aperta che gli stanno accanto, soprattutto quello con il berretto in testa.

Ancora più evidente è questo atteggiamento nella «Madonna in gloria» che si trova nella Cappella Palatina del Duomo di Colorno (Parma).

E' una statua in cartapesta di Gaetano Callani (1736-1809), fatta per essere portata in processione e che rappresenta la Madonna che sale al cielo cantando. Non si conosce la data esatta di quella statua; non si dimentichi, però, che il Callani è contemporaneo di Giovanni Battista Mancini del quale parlerò fra poco. Già soltanto osservando i personaggi delle immagini qui pubblicate, ma ancor più se si esaminano gli altri putti cantori raffigurati nella Cantoria (Internet ci consente di farlo agevolmente) si possono osservare tante varianti di quell’atteggiamento quanti essi sono e, dato che, come già detto, esiste una stretta correlazione fra l’atteggiamento articolatorio e la meccanica respiratoria, con l’esperienza che si può acquisire osservando i comportamenti fonatori si può anche immaginare con buona approssimazione il tipo di emissione di ognuno di essi. L’avanzamento della mandibola come nella pronuncia della [b] si risolve, per quanto riguarda l’emissione del suono, nella trazione in avanti, attraverso una catena di muscoli, ossa e cartilagini, delle corde vocali che sono così scaricate di gran parte del lavoro fonatorio; tale trazione è pure un fattore di modulazione di quello smalto della voce, la «formante del canto» della quale si è già parlato, che ritroveremo più avanti in una citazione dallo Zacconi.

Sembrerebbe smentire quanto finora ho detto il personaggio raffigurato nel Cantore appassionato del Giorgione.

GIORGIONE<br /><br />(b. 1477, Castelfranco, d. 1510, Venezia)<br /><br /><br />The Impassioned Singer<br /><br />c. 1510<br /><br />Oil on canvas, 102 x 78 cm<br /><br />Galleria Borghese, Rome<br /><br /><br />The famous Singers (The Impassioned Singer and its companion-piece, The Singer with Flute) in the Borghese Galler

E’ vero che il quadro è del 1507, ma è anche vero che esso rientra nell’arco temporale preso qui in esame. L’atteggiamento articolatorio del Cantore è a bocca socchiusa e non è certo quello di chi canta a gran voce o facendo dell’agilità; se però lo mettiamo in relazione col «cantare dolce e soave» della citata lettera a Teofilo Fusco di Camillo Maffei, stante anche l’atteggiamento del cantore il conto torna e ci fa intravedere la variabilità dei modi di canto – e quindi del suono vocale – in una società così impregnata di cultura come fu quella del rinascimento italiano, della quale Monteverdi faceva ancora parte.[20]

Camillo Maffei, medico, filosofo e musicista, nella sua lettera sul canto,[21] già annunciata nel titolo del libro nel quale si trova la lettera a Teofilo Fusco, enuncia un decalogo del canto e dice: «la sesta [regola] è che il cantore distenda la lingua di modo che la punta arrivi e tochi le radici de' denti di sotto». Il senso biomeccanico di questa «regola» è il seguente: quando il sostegno dei muscoli addominali non è sufficiente i visceri ricadono per gravità trascinando indietro e in basso anche la base della lingua e la laringe, motivo per cui le corde vocali assumono un comportamento fonatorio vicino a quello del grido e sono costrette a farsi carico di tutto il lavoro muscolare necessario ad emettere la voce. Maffei, naturalmente, queste cose non le sa ancora; è un medico, conosce bene l’anatomia – anche se all’epoca la conoscenza di questa materia da parte di un medico era ancora considerata titolo di merito, ma non indispensabile alla sua professione – e per descrivere la laringe pare avvalersi delle parole del trattato del Vesalio.[22] Ha evidentemente l'attitudine e l’abitudine all'osservazione ed ha appunto osservato che il buon cantante pronuncia tutte le vocali articolandole con l'apice della lingua appoggiato agli incisivi inferiori e prescrive questo atteggiamento come sesta «regola». Per spiegare la correttezza della prescrizione ci sarebbe da fare un piccolo trattato di fonetica articolatoria. Qui mi limito ad osservare che ancora Gianbattista Mancini – e stiamo facendo un salto in avanti di più di duecento anni – dirà che: «ogni cantante deve situar la sua bocca come suol situarla quando naturalmente sorride, cioè in modo che i denti di sopra siano perpendicolarmente e mediocremente distaccati da quelli di sotto»[23]. Il Mancini, cioè, ci dà anche la misura dell'avanzamento della mandibola e se si osservano le immagini che ho citato – ma potrei citarne altre – si constata che la sua prescrizione e le rappresentazioni iconografiche corrispondono. Data la continuità dell’atteggiamento articolatorio che appare nelle diverse immagini mi pare ragionevole accettare la sua descrizione come valida anche per quelle dei secoli precedenti.

La lettera del Maffei introduce anche l’argomento della respirazione. Egli dice che «buono anco rimedio a far buona voce è il tenere una piastra di piombo nel stomacho si come anche il medesimo Nerone facea». Se proviamo a metterci supini con, per esempio, un vocabolario appoggiato sullo stomaco e ci sforziamo di prendere coscienza della nostra respirazione scopriamo che il lavoro necessario a sollevare il vocabolario ci costringe ad una respirazione addominale. Girolamo Mercuriale, il fondatore della medicina sportiva, nel suo De arte gymnastica[24] per parte sua si rifà a certe statuette bronzee di proprietà del Duca di Ferrara, rappresentanti atleti con il torso avvolto da fasce costrittive. La cosa sembrerebbe strana se nei moderni trattati di fisioterapia toraco-polmonare non si insegnasse l'uso di fasce costrittive per sviluppare la respirazione addominale.[25] Negli stessi tempi il più esplicito nel mettere in relazione la muscolatura addominale con la voce è Gabriele Falloppio il quale dice che: «al grido, poi, ed alla voce potente concorrono i muscoli dell’addome».[26] Di trattatisti musicali che facciano almeno accenno alla respirazione nel canto conosco soltanto l’inesauribile Zacconi il quale al capitolo «Che stile si tenghi nel far di gorgia, & dell’vso de i moderni passaggi»[27] dice: «Due cose si ricercano à chi vuol far questa professione petto, & gola; petto per poter vna simil quantità, & vn tanto numero di figure à giusto termine condurre; gola poi per poterle agevolmente somministrare: perche molti non hauendo ne petto ne fiancho, in quattro ouer sei figure conuengano i suoi disegni interrompere». La frase sarebbe un concentrato di fisiologia fonatoria da sviscerare e pertanto io mi limito ad osservare quel «fiancho» che, stante la mia esperienza di maestro di canto, corrisponde alla sensazione di lavoro che provano i cantori dotati di buona voce naturale; voce che è anche frutto di una respirazione combinata la cui componente principale è quella addominale. E' chiaro che nessuno di questi documenti da solo potrebbe essere considerato una prova, ma se li mettiamo assieme considerando che la citata respirazione combinata è quella considerata più fisiologica dalla medicina e che, come detto, le buone voci naturali ne sono dotate per natura, possiamo dedurre che all’epoca di Monteverdi si avesse una qualche consapevolezza del fatto e che essa fosse considerata la migliore. Gli effetti sul suono vocale li possiamo sperimentare anche oggi: questo tipo di respirazione, esonerando le corde vocali dalla parte del lavoro di contrazione attiva che non sia quella necessaria all’intonazione, contribuisce a dare al suono potenza, smalto e contemporaneamente morbidezza.

A conclusione di questa disamina mi pare opportuno presentare qui alcune foto di cantori odierni, scaricate da YouTube, i cui atteggiamenti articolatori, certamente naturali, richiamano soprattutto quello dei putti cantori di Luca della Robbia.

Cantore del Coro dell’Armata Rossa

Joan Baez[28]

Des’rée[29]

I cantori da chiesa dovevano cantare in ambienti grandi come appunto quelli delle chiese e sappiamo che erano scelti per la qualità e la potenza delle loro voci; di questa, soprattutto, perché costava meno pagare pochi cantori che cantassero forte piuttosto che molti cantori che cantassero piano. Ecco quindi la spiegazione del numero ridotto di cantori – da 13 fino a 19 – della Cappella Giulia che ai tempi del Palestrina cantavano in San Pietro.[30] Alla Cappella Dogale di San Marco, dove si faceva maggior scialo, il numero dei cantori era di «trenta et più», ma se si tiene presente il fatto che le cantorie di San Marco sono due e che Andrea e Giovanni Gabrieli, per esempio, compongono sovente a due cori, si ritorna a quindici o sedici cantori per coro. Non solo, ma si scopre anche che quei signori avevano già inventato la stereofonia; il solo fatto, cioè, di collocare frontalmente due cori che si rispondevano dai due lati della navata dava luogo ad un effetto acustico che anticipava quello dei due diffusori dei nostri impianti ad alta fedeltà. Se poi si tiene conto del fatto che Giovanni in particolare arriva a comporre per quattro cori[31] – cori che con la suddivisione dell’insieme dei cantori si riducevano in realtà alle dimensioni di gruppi madrigalistici, verosimilmente distribuiti nei matronei che circondano l’interno di San Marco – gli ascoltatori erano attorniati da suoni provenienti da punti diversi; il che anticipava anche la pratica diffusasi nella musica d’avanguardia del secolo scorso, di distribuire i suonatori ai margini della sala, tutto attorno agli ascoltatori.

Quale fosse lo sforzo per ognuno di questi cantori ce lo dice il Mercuriale già citato: egli infatti osserva che i trombettieri, i cantori e i sacerdoti del suo tempo sono categorie professionali soggette all'ernia.[32] Quanto cantavano dunque forte i cantori da cappella? Evidentemente tanto da farsi venire l'ernia. Che le cose non saranno cambiate dopo un secolo lo testimonierà Bernardino Ramazzini da Carpi[33], il fondatore della medicina del lavoro, il quale, rifacendosi ancora all’autorità del Mercuriale e del Falloppio, conferma che «… i maestri di canto, i cantori, … e tutti quegli altri, per i quali il canto e l'esercizio della voce è parte del mestiere… A questi per lo più è solita venire l’ernia».[34] La musica da chiesa era quindi cantata prevalentemente a gran voce e sia il timbro che l’espressività dovevano necessariamente avere i caratteri conseguenti. Suscita interrogativi l’affermazione del Ramazzini secondo il quale i castrati non sarebbero stati colpiti dall’ernia (cfr. nota 34). La sola ipotesi di lavoro che mi sentirei di formulare per una ricerca sull’argomento è che centodieci anni dopo la bolla di Sisto V – quindi con la libertà concessa alla pratica della castrazione e la conseguente moltiplicazione del numero dei castrati – si fossero sviluppate una tecnica ed una didattica da teatro, rivolte sia alla potenza della voce che all’agilità e, di conseguenza, ad un corretto uso della cintura muscolare addominale. Non conosco documentazioni dalle quali si possa dedurre che ai tempi di Monteverdi le tecniche e le didattiche vocali fossero differenziate.

Fonetica

Per incominciare, il timbro generale della vocalità sacra era caratterizzato dalla rotunditas del latino, rotunditas che è data dal timbro delle vocali (non si dimentichi che il latino ha una minore variabilità vocalica dell'italiano perché ha cinque vocali soltanto), dall’abbondanza delle consonanti sonore e dall’accentazione prosodica. È comunque evidente nelle composizioni polifoniche, sia sacre che profane, l’uso timbrico dei fonemi per una sorta di strumentazione vocale. Se si prende in esame una composizione polifonica si osserva che quasi sempre il compositore tende a giocare sul contrasto dei colori delle vocali facendo vocalizzare, per esempio, una vocale chiara come la [e] contro una nota di valore cantata su una vocale scura come la [o] (o viceversa). Il che non toglie che egli sia obbligato a mettere in musica i testi stabiliti dalla liturgia e che se, per esempio, deve comporre un Kyrie le vocali a sua disposizione siano soltanto tre: [i], [e], [o]. Gli va meglio quando deve comporre degli inni perché i loro testi sono opera di signori poeti i quali hanno fatto scelte consapevoli e mirate proprio per quanto riguarda l'aspetto timbrico delle parole e dei ritmi prosodici dei loro testi. Benché cantata a gran voce, la polifonia sacra doveva dunque essere caratterizzata dall’intreccio delle diverse voci messo in evidenza dalla varietà timbrica dei fonemi e dalla prosodia del testo di ognuna.

Prassi esecutiva

L’estetica del suono cambia profondamente a seconda della prassi esecutiva adottata nell’interpretazione delle musiche. La nostra espressività attuale è tesa, sia che si tratti di quella musicale che di quella delle altre arti. Se, per esempio, qui a Roma, si va a vedere in San Pietro i quattro Padri della Chiesa del Bernini posti attorno alla Cattedra di San Pietro si constata che i quattro personaggi sono avvolti in piviali articolati in piegone, pieghe e piegoline le quali formano una gerarchia espressiva di luci ed ombre che è funzione del luogo in cui si trovano e della luce che piove su di essi in modo calcolato.

In una pur pregevole raccolta di monografie di scultura che posseggo si vede invece che per fotografarle sono stati collocati di fronte alle statue dei fari e che la luce – l’equivalente visivo dell’esecuzione sonora – anziché dall'alto, le colpisce frontalmente. Tutta la gerarchia di luci ed ombre che caratterizza le statue nella realtà si è appiattita mentre le pieghe hanno perso il loro significato espressivo e si sono ridotte a generica ornamentazione.

Nel braccio destro dell'ambulacro della Basilica si trova pure il monumento di Francesco Messina a Pio XII, un altro personaggio avvolto nel piviale, che Messina ottenne di rappresentare come vescovo di Roma invece che come pontefice per potergli mettere in testa la mitria al posto del triregno ed ottenere una figura complessivamente conoide. L’intensità dell’espressione è ottenuta questa volta per mezzo della tensione della linea che dalla base del piviale sale fino al vertice della mitria e, mentre nel caso dei Padri della Chiesa l’emozione artistica è ottenuta con la ripetizione dello stimolo visivo, data dall'alternarsi sapiente di luci ed ombre, in quello di Pio XII è ottenuta semplificandolo ed intensificandolo.

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Nell’evoluzione dell’espressione artistica – che è una parte dell’evoluzione culturale dell’espressione – ci sono fenomeni comuni a tutte le arti, la cui maggiore evidenza in alcune può aiutare a riconoscerli in altre. Se ho messo a confronto il movimento dei piviali del Bernini con la linearità di quello del Messina è perché in musica è avvenuto un fenomeno analogo. Chi si sia occupato di prassi esecutiva della musica rinascimentale e barocca capisce perfettamente il senso del parallelismo: mentre l’espressività odierna è caratterizzata dalla tensione della frase musicale, i documenti di prassi esecutiva sia vocale che strumentale ci insegnano che l’espressività dell’epoca rinascimentale e barocca era caratterizzata da una modulazione ritmica e dinamica in qualche modo assimilabile ai contrasti luminosi dei quali ho appena detto e che, con un procedimento psicologico di identificazione – procedimento che per un musicista dovrebbe essere naturale – potrebbe farci da guida. Schematizzando molto ciò che si legge nei trattati, le convenzioni esecutive antiche possono essere riassunte in tre grandi gruppi: 1. la «diminuzione» o pratica di variare le melodie sostituendo più note «minute» a singole note di valore o incisi costituiti da più note di valore; 2. la «messa di voce» o pratica di eseguire le note di valore modulandone la dinamica in crescendo e in diminuendo; 3. la «ineguaglianza» o pratica di dare accenti quantitativi alle sequenze di note di piccolo valore allungando il valore di quella che cade sulla parte forte del movimento – o della suddivisione del movimento – a scapito della seconda che viene invece abbreviata. Chi è abituato a prendere gli insegnamenti alla lettera senza sforzarsi di interpretarli trasforma queste «regole» in un modo di solfeggiare diverso da quello attuale, ma pur sempre solfeggio.

In paleoantropologia è procedimento abituale, quando si ha difficoltà ad interpretare reperti di significato oscuro, cercare l’imbeccata in culture primitive attuali, di grado di sviluppo corrispondente. L’ineguaglianza nell’esecuzione delle figure musicali «minute», scritte invece uguali, non doveva essere, mutatis mutandis, un modo espressivo sostanzialmente diverso da quello dello swing jazzistico d’oggi. L’esperienza del jazz, che ha fra i suoi mezzi di espressione la pulsazione ritmica di figure a due a due ineguali chiamata appunto swing – pulsazione che quando viene trascritta dalle improvvisazioni registrate in terzine ed è poi eseguita secondo le convenzioni del solfeggio scolastico diventa insopportabile – dovrebbe fare almeno sospettare che l’ineguaglianza esecutiva di crome scritte uguali, richiesta dai trattati rinascimentali e barocchi non era un altro modo di solfeggiare, ma il mezzo musicale per realizzare gli accenti prosodici della frase musicale. Che queste indicazioni non debbano essere prese alla lettera, ma realizzate secondo il buon senso musicale è dimostrato almeno da un esempio musicale proposto da uno degli autori che le dà: Giulio Caccini; nella prefazione alle Nuove Musiche, infatti, per rappresentare l'accelerazione delle note nel trillo e nel groppo, egli usa valori progressivamente dimezzati ed è evidente che egli non intende dire che il cantore debba passare improvvisamente dal valore della semiminima a quelli della croma, della semicroma e della biscroma, ma che semplicemente quelle note devono essere eseguite in «accelerando». Lo stesso discorso è da fare per le messe di voce prescritte dagli stessi trattati per l’esecuzione delle note di valore; messe di voce la cui esecuzione implicherebbe da parte dell’esecutore almeno la consapevolezza della diversità nella modulazione dell’intensità del suono che distingue, per esempio, un’esclamazione da un sospiro. La varietà ritmica e dinamica data dall’ineguaglianza dei valori nell’esecuzione, dalla messa di voce sulle note di valore e dalle diminuzioni che mettono in evidenza sillabe, parole, incisi o intere frasi musicali, benché ampiamente descritte nei trattati di prassi esecutiva ci lasciano immaginare – ma purtroppo soltanto immaginare – un mondo sonoro che nella pratica odierna, almeno per quanto mi riguarda, non ho mai avuto il bene di ascoltare. Gli studi sulla prassi esecutiva, che, quando trasferiti nella pratica strumentale fanno scoprire mondi sonori così diversi da quelli insegnati tradizionalmente nei conservatori, per quanto riguarda la pratica vocale dovrebbero essere approfonditi alla luce di quanto si sa oggi dalla fonetica. Soprattutto si dovrebbe tener conto del fatto che nei trattati di prassi strumentale si dice costantemente che compito primo dello strumentista è la «immitatione della voce humana» e che, di conseguenza, ciò che si sente realizzato nell’esecuzione dai suonatori di strumenti antichi musicologicamente preparati dovrebbe costituire l’imbeccata per l’interpretazione delle musiche vocali. Nella maggior parte dei casi, però, i musicisti non hanno mentalità sperimentale, non sono disposti a prendere in esame idee diverse da quelle tradizionali e prima che si possano ascoltare nell’ambito della pratica vocale rinascimentale e barocca almeno tentativi riconducibili a quanto già avviene in quella strumentale passerà certamente del tempo.

Musica profana

A differenza di quanto accadeva per la musica sacra, affidata esclusivamente a cantori professionisti, nel campo della musica profana è ben documentata l’esistenza di esecutori sia professionisti che dilettanti. Dato che stiamo parlando di estetica del suono ai tempi di Monteverdi è il caso di ricordare che proprio da un suo rapporto al Duca di Mantova su un contralto da assumere[35] si deduce che era normale reclutare cantori professionisti in grado di cantare, come in questo caso, sia in una chiesa delle dimensioni della Basilica Palatina di Santa Barbara, sia nelle «camere» di Palazzo Ducale. Ciò non accadeva soltanto a Mantova ed è ben noto, per esempio, che i cantori delle cappelle romane arrotondavano lo stipendio esibendosi nelle residenze private dei cardinali. Il Concerto delle Dame alla corte dei Gonzaga e Giulio Caccini sono forse, invece, gli esempi più noti di cantanti dediti esclusivamente alla musica profana. Mi pare però importante mettere in evidenza qui la categoria dei musicisti dilettanti, che ho già detto da quale classe sociale fosse costituita e la cui cultura umanistica era presumibilmente tale da metterli in grado di apprezzare e restituire nel canto quanto sto per dire.

Fonetica

Esporre in poche parole tutti i caratteri distintivi della fonetica italiana non è evidentemente possibile. Ricordiamo però almeno quelli che la caratterizzano di più in relazione al suo impiego musicale e cioè la presenza di sette vocali che costituiscono una sorta di iride di colori fonetici fortemente caratterizzati, i quali si prestano a generare contrasti timbrici all’interno delle polifonie. Per quanto riguarda la prosodia ricordiamo poi che i tipi di accento tonico delle parole sono quattro e che gli accenti di frase principali o secondari che corrispondono alle diverse proposizioni del periodo possono essere estremamente vari per posizione ed intensità. Tutto questo dona alla loquela italiana una ricchezza timbrica e ritmica che, vista in prospettiva musicale, equivale in qualche modo a quella del materiale da costruzione in prospettiva architettonica; il musicista ha cioè la possibilità di scegliere i testi da musicare non soltanto per il loro senso, ma anche per il loro suono così come un architetto sceglie il materiale da costruzione non solo per le sue caratteristiche meccaniche, ma anche per quelle estetiche. Che i letterati abbiano coscienza di questo fatto appare dai trattati sull’argomento che emergono ogni tanto. Gian Giorgio Trissino, per esempio, proponendo nel 1524 l’aggiunta di nuove lettere alla lingua italiana[36] al fine di disambiguare nella scrittura l’uso di una stessa lettera per significare vocali aperte e chiuse o consonanti sorde e sonore sembrerebbe curarsi soprattutto della comprensibilità; egli però si pone anche il problema di rappresentare la prosodia delle parole dimostrando una consapevolezza completa dell’aspetto fonetico della parola. Un anno dopo Pietro Bembo[37] torna ad occuparsi delle lettere e del valore estetico del loro suono prendendole in esame ad una ad una in modo non diverso da quello in cui Berlioz prenderà in esame gli strumenti dell’orchestra nel suo trattato di strumentazione ed orchestrazione.[38] Ancora nel 1654 Emanuele Thesauro[39], si occuperà della «sonorità» delle vocali esasperando l’analisi timbrica ed espressiva di ognuna ed è evidente che queste date chiudono un arco di tempo nel quale rientra anche quello di Monteverdi. Gli autori citati scrivono da letterati ed è certo che il poeta cammina per altri sentieri; è altrettanto certo, però, che nell’ambiente in cui il poeta dell’epoca vive si ha la consapevolezza del valore sonoro delle parole mentre l’analisi dei testi poetici mostra che egli non ne fa un uso soltanto istintivo. Se, per fare un esempio, si prende in esame l’aspetto timbrico del madrigale di Torquato Tasso «Ecco mormorar l’onde» messo in musica proprio da Monteverdi[40] si può osservare che le parole sono musicate non solo in relazione al loro significato, ma anche per quanto il loro suono può esprimere o evocare; in questo caso il mormorio delle onde e lo stormire delle fronde con tutto ciò che poi segue. Tutto ciò comporta che un pubblico di esecutori quale era quello dei «cortegiani» poteva almeno tentare di restituirlo nel modo migliore. Di aperte dichiarazioni dell’opportunità, da parte dei cantori professionisti, di rispettare la correttezza della pronunzia dell’italiano io conosco soltanto quella di Pierfrancesco Tosi, più tarda di un secolo rispetto al periodo del quale ci stiamo occupando: «Sappia [il cantore] perfettamente leggere per non aver il rossore di mendicar le parole, e per non incorrere in que' spropositi, che derivano dalla più vergognosa ignoranza. Oh quanti avrebbono bisogno d'imparar l'Alfabeto! In caso, che il Maestro non sapesse correggere i difetti della pronunzia proccuri di apprender la migliore, poichè la scusa di non esser nato in Toscana non esime chi canta dall'errore d'ignorarla.»[41] Queste frasi con quelle che seguono e che qui si omettono lasciano intravvedere ancora agli inizi del XVIII secolo la stessa prevalentemente modesta estrazione sociale – e quindi la modesta cultura di base – dei cantori professionisti «dalla necessità astretti a cantar nelle Chiese ò nelle Capelle», che traspariva già più di un secolo prima dalle parole dello Zacconi più su citate. Il fatto, del resto, che la speranza di garantire ai figli un futuro migliore del loro inducesse i padri a far castrare i figli per introdurli alla professione musicale lascia intuire le condizioni culturali familiari dei cantori almeno nel caso dei castrati.

Diminuzioni

Una parte importante della «Lettera» del Maffei è dedicata alle diminuzioni e del resto sappiamo quanti altri trattati ci sono rimasti sulla pratica del «diminuire». In questa sede è importante osservare che le diminuzioni non solo contribuivano ad accentuare il carattere «intrecciato» del suono delle composizioni polifoniche, ma che, a seconda dell’uso che ne era fatto, esse ne cambiavano sensibilmente il carattere. E’ il caso di osservare che, sulla base dell’analisi dei testi in cui si trovano applicate, le diminuzioni possono essere classificate approssimativamente in tre categorie: espressive, decorative e virtuosistiche; espressive quando sono rivolte ad accentuare l’espressione degli «affetti», decorative quando sono intese ad abbellire la linea melodica arricchendola, virtuosistiche quando sono usate per mettere in evidenza l’agilità vocale dell’esecutore. A seconda dell’intento col quale sono eseguite, le diminuzioni assumono quindi aspetti timbrici, ritmici e dinamici diversi contribuendo a variare ad ogni esecuzione l’estetica sonora che risulterebbe dall’esecuzione letterale del brano.

Espressione degli «affetti»

Come è noto, all’epoca di Monteverdi si usava il termine «affetti» per indicare quelli che oggi chiamiamo «sentimenti» od «emozioni». E’ questo uno degli aspetti più importanti e più dimenticati della ricerca musicologica e dell’interpretazione madrigalistica. Non l’aveva dimenticato però Federico Mompellio che nell’articolo «Un certo ordine di procedere che non si può scrivere»[42] aveva raccolto una serie di citazioni di autori che vanno dal 1528 al 1592 e che dimostra al di là di ogni dubbio come l’ideale espressivo di tutto il XVI secolo – ideale che non si era certamente spento con l’anno dell’ultima citazione – fosse una teatralità del tipo di quella della Commedia dell’Arte. Anche se degli «scenari» della Commedia dell’Arte l’unico che ci rimanga in qualche modo realizzato non è una commedia teatrale ma l’Amfiparnaso di Horatio Vecchi,[43] pur tuttavia i caratteri contrastanti e la vivacità dei suoi dialoghi così come la nascente disciplina della fisiognomia e trattati di mimica come L’arte de’ cenni di Giovanni Bonifacio[44] ci fanno intuire l’interesse dell’epoca per l’espressività mimica ed i modi di questa. «Le tragedie e comedie che recitano i Zanni», dei quali parla Vincenzo Galilei,[45] non si possono recitare con faccia da giocatore di poker e l’esperienza quotidiana ci insegna quanto la mimica facciale ed il timbro vocale siano strettamente correlati;[46] se quindi noi prendiamo in esame un madrigale come «Io non son però morto» di Giaches Wert[47] con il suo contrasto timbrico e psicologico fra i versi «Io non son però morto» e «anzi, ritorn’in vita» dell’episodio iniziale e ce lo immaginiamo eseguito adeguatamente sia dal punto di vista fonetico che da quello espressivo, ci facciamo un’idea dell’estrema ricchezza timbrica, dinamica ed agogica del suono che dovrebbe corrispondergli. E’ inoltre il caso di tornare a citare l’agostiniano Lodovico Zacconi che, preoccupato della moralità delle donne, vieta loro la professione di cantatrice e nel farlo ci tramanda involontariamente un bozzetto di vita che rappresenta la funzione anche sociale del canto dei madrigali, il modo in cui essi erano cantati e quindi del suono che poteva risultarne: «Oltra che fuori de canti dedicati à Dio: (che poi non si cantano in altro loco che nelle Chiese) altro omai non si canta che le doglie, le passioni, le pene gl'affanni, & gli martirij che per amor di donna patiscono gli amanti: per il che i Cantori cantandole, si sforzeriano di dirle & mostrarli ch'essi le cantano in suo fauore, quantunque anco non ci hauessero pensiero; & cosi le direbbono sì affettuose, & con sospiri si caldi, che le farebbono di se stesse invaghire, & inuaghite cadder dentro alle rete di chi fosse tra cantori piu auenturato & piu ardito; ò di chi meglio l'hauesse saputo tendere.»[48]

Suono e cultura

Basta che noi ascoltiamo oggi la stessa composizione corale eseguita da cori di nazionalità diversa per capire quanto il suono vocale sia anche un fatto culturale, determinato da un insieme complesso di fattori. Uno di questi è la già citata espressione degli affetti. Per capire la variabilità culturale del modo di esprimere la stessa emozione è utile un esame comparativo di rappresentazioni figurative di uno stesso evento nelle diverse culture esaminandole in senso sia sincronico che diacronico. Una rappresentazione comoda per questa operazione può essere il Compianto sul Cristo morto (ma naturalmente potremmo estendere il campo di osservazione a tutta una serie di episodi evangelici, il cui testo letterario è rimasto immutato nei secoli). Il Compianto sul Cristo morto è un soggetto dell'arte sacra cristiana, divenuto popolare a partire dal XVI secolo e soprattutto nel Rinascimento. In esso viene rappresentato Gesù dopo la sua deposizione dalla croce, circondato da personaggi che ne piangono la morte e una ricerca su Internet ci offre una comoda panoramica di queste rappresentazioni. Dato che la situazione drammatica rappresentata è sempre la stessa, è facile mettere a confronto i diversi modi di esprimerla e, al di là dell’ovvia individualità dell’artista, appare evidente come i suoi modi di esprimersi dipendano in tanta parta dalla cultura alla quale egli appartiene. Per rimanere ai giorni nostri, si pensi alle differenze fra la mimica napoletana e quella inglese. Assumendo queste immagini come note di regia per la rappresentazione del dolore in un brano musicale e come suggerimenti per il «gesto vocale» – il timbro, l’intensità degli accenti, l’ineguaglianza delle note puntate, ecc. – possiamo immaginare almeno le differenze nel suono vocale da una regione o da una nazione all’altra, ma anche, allargando il discorso, da un’epoca all’altra.

Tecnica vocale

A conclusione di quanto finora osservato è possibile fermarsi a meditare sui caratteri specifici della tecnica vocale da camera. Come già detto, salvo la minore entità dell’impegno muscolare, essa non doveva essere sostanzialmente diversa da quella da chiesa. Proprio il già citato rapporto di Monteverdi al Duca di Mantova su un contralto da assumere[49] induce a pensare che la tecnica vocale di base, salvo, come detto, un diverso impegno muscolare nelle diverse situazioni, fosse fondamentalmente la stessa. Che poi a seconda della necessità o dell’opportunità sociale si studiasse per cantare in modo diverso lo abbiamo visto leggendo lo Zacconi (cfr. nota 6); il che non toglie che esistessero cantanti professionisti, che oggi chiameremmo specificamente «da camera», così come i già citati Giulio Caccini e le sue figlie o le tre cantatrici del Concerto delle Dame della Corte di Ferrara. La tecnica vocale da camera non richiede la potenza di quella da cappella perché il canto a gran voce in ambienti più ristretti di quello di una chiesa, anche se le sale gentilizie non erano certamente piccole, come appunto dice lo Zacconi avrebbe disturbato. Dalla potenza del suono di strumenti come il liuto o il clavicembalo, pensati per essere usati «nelle camere» come strumenti solisti certamente, ma anche per accompagnare il canto, si può dedurre l’intensità della voce usata in quegli ambienti. Il passo del Banchieri citato, dato il tono scherzoso (cfr. nota 12), si riferiva evidentemente ai limiti di estensione ed alla qualità delle voci dei normali cantori dilettanti, solitamente in possesso di doti vocali normali e di una tecnica meno agguerrita di quella dei cantori professionisti. Se però ci fermiamo ad analizzare le musiche scritte esplicitamente per questi ultimi, stanti le prestazioni vocali richieste dalla scrittura possiamo ricavare le potenzialità tecniche ed espressive della loro voce. Casi emblematici sono quelli di Giulio Caccini e delle tre dame della corte di Ferrara,[50] cantanti dei quali ci rimangono musiche scritte a loro misura e che, se analizzate attraverso le griglie opportune, dicono molto più della straordinaria agilità vocale che ad un primo esame sembrerebbe essere il loro carattere prevalente. Nel caso di Caccini occorrerebbe, per esempio, un’analisi semiologica dei gruppi ritmici da lui impiegati nell’espressione degli affetti e di ciò che essi implicherebbero nell’esecuzione. In quello dei madrigali di Luzzaschi,[51] come già detto scritti specificatamente per le tre dame, l’uso delle vocali [i] ed [u] ai limiti inferiore e superiore dell’estensione vocale, uso peraltro contrario ai precetti di tutti i teorici, l’analisi fonetica lascia intravvedere la ricchezza appunto fonetica del suono vocale delle tre cantatrici in tutta l’estensione. Per mettere in evidenza come tutti i documenti di varia natura finora citati convergano nel configurare una tecnica vocale in cui l’agilità, la comprensibilità e l’espressione degli affetti erano portate al massimo delle possibilità bisognerebbe entrare in discorsi di fonetica e di fisiologia fonatoria. E non è questa la sede.

 
NOTE:

[1] Manuel Garçia, Traité complet de l'art du chant en deux parties par M.G., Paris, Chez l’Auteur, 1847. Il Traité avrà altre cinque edizioni. Sull’ultima, quella del 1872, si fonda quella italiana a cura di Stefano Ginevra, Torino, Giancarlo Zedde Editore, 2001.

[2] Stefano Arteaga, Le rivoluzioni del teatro musicale italiano..., Bologna, Trenti, 1785, II, p. 49-50: «Dal Jumella in qua… Si è multiplicato all’eccesso il numero dei violini, si è dato luogo nell’orchestra a gli strumenti più romorosi… Tra il fracasso dell’armonia, fra i tanti suoni accavallati l’uno sopra l’altro, tra i milioni di note, che richieggono il numero e la varietà delle parti, qual è il cantore la cui voce possa spiccare?».

[3] Mauro Uberti, Acustica della voce in «Acustica musicale ed architettonica», Torino, UTET, 2005, p. 523.

[4] Gustavo Magrini, Il canto. Arte e tecnica, Milano, Hoepli, 1926: «Dobbiamo dunque cercare di attenuare la caratteristica del timbro di ciascuna di queste tre vocali A I U, arrotondarle e rendere appena sensibile la diversità di timbro di ciascuna di esse: in altri termini, neutralizzarle e fonderle quasi fra di loro, per ottenere non più un suono naturale su ciascuna vocale, ma un suono diverso, che, pur variando alquanto a seconda della vocale, sarà più modulato, complesso, cantabile e ci porterà ad un timbro unico ed uniforme, base essenziale dell’arte del canto.

[5] Gio. Camillo Maffei, lettera «Al Molto Reverendo Padre Fra Teofilo Fusco» in Delle lettere del S.or G.C.M. da Solofra libri due. Dove tra gli altri bellissimi pensieri di Filosofia, e di Medicina, v’è un discorso della Voce e del modo d’appare di cantar di garganta senza maestro, non più veduto, n’istampato…, Napoli, Amato, 1562, pp. 198-199.

[6] Lodovico Zacconi, Prattica di musica utile et necessaria si al compositore si anco al cantore, Venezia, Polo, 1592, I, c. 52v: «& chi dice che col gridar forte le uoci si fanno; s’inganna doppiamente, prima perché molti imparano di cantare per cantar piano & nelle Camere, oue s’abborisce il gridar forte, & non sono dalla necessità astretti a cantar nelle Chiese, ò nelle Capelle oue cantano i Cantori stipendiati; & questi sono i Gentlhuomini: & gli altri che non hanno dibisogno per questa uia di guadagnarsi il pane:».

[7] Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, Venezia, Aldo, 1528 (prima edizione).

[8] Cioè capace di leggere con sicurezza la musica a prima vista.

[9] B. Castiglione, Il Cortegiano, Venezia, Cavalcalovo, 1565, I, p. 98: «La Musica convenirsi al Cortegiano».

[10] Id., op. cit., III, p. 274: «Costumi& esercitij del corpo di diverese (sic) donne».

[11] Pubblicato in: Cinquanta Canzoni a quatro voci di M. Francesco de Layolle… Impresse in Lione per Jacopo Moderno (s.d.). Pubblicato anche (il più delle volte sotto il nome di Layolle) in: Il Primo Libro di madrigali d’Archadelt a quatro voci… In Venetia Apresso Antonio Gardano 1546, e nelle numerose ristampe di quest’opera fino al 1654 (cfr. Vogel).

[12] Adriano Banchieri, Cartella musicale nel canto figurato..., terza edizione, Venezia, Vincenti, 1614, p. 146: «Quattro voci differenti ricercansi al perfetto Conserto Musicale, & queste sono Soprana, Alta, Corista & Bassa, il Cantore che possiede l'una di queste, in tre condicioni la possiede, cioè voce di testa, voce di petto & voce obtusa; quello che dalla natura viene dotato della prima, è Cantore perfettissimo; quello che ha voce di petto è Cantore perfetto, & chi tiene in se voce obtusa, è Cantore imperfetto,& prima: voce di testa intendesi quella, che in Soprano, senza incomodo aggiunge ad una distanza di dodeci voci, similmente le altre parti come quì. [Esempi musicali con l’estensione delle quattro voci] Voce di petto intendesi quella che giunge alla distanza di dieci voci, & volendo procedere più sú non puo & rende noia in vederlo & sentirlo, chi possiede vna di queste dui voci (che sia soaue & bene organizata) è dono particolar di Dio; della terza voce obtusa, diremmo sia quella, che in Soprano sembra vna Cattina, in Contr'alto un Ciucho, in Tenore vn Asino, & nel Basso un Bue...»

[13] L. Zacconi, op. cit., c. 77r.

[14] L. Zacconi, op. cit., c. 77v.: «L’ultime che sono le meramente obtuse, sono quelle voci che per ordinario si sogliano chiamar mute, le quali fra l’altre per gagliarde che siano (che alfin possano essere) non si sentano mai, ma sono tanto quanto che se non vi fossero».

[15] L. Zacconi, op. cit., c. 77r.: «Quelle uoci che sono meramente di testa sono quelle che escano con un frangente acuto & penetrativo senza punto di fatica del producente: le quali per l’acutezza loro percuotano si gagliardamente l’orecchie nostre, che se bene ci sono delle altre voce maggiori & più gagliarde; sempre quelle appariscano all’altre superiore».

[16] Il Coro dell’Armata Rossa, che dopo il collasso dell’URSS ha cambiato denominazione ed è chiamato Coro dell'Esercito Russo o Complesso Aleksandrov, fu creato dal Club Centrale dell'Esercito a Mosca nel 1928. Era ed è composto da sole voci maschili, un’orchestra e un corpo di danza. Il suo repertorio ha sempre compreso canti popolari e canti patriottico-militari russi. Ora comprende anche inni ecclesiastici ortodossi.

[17] La Cantoria è degli anni 1431-1438. L’esame particolareggiato degli atteggiamenti articolatori dei putti rappresentati in questa e nelle altre formelle della Cantoria, stante l’attenta osservazione e fedele riproduzione da parte dello scultore, mostra come forse in nessun altro caso della storia dell’arte la variabilità del comportamento articolatorio in soggetti che pure erano stati selezionati per le loro doti naturali.

[18] Cfr. M. Uberti, «Tecnica vocale naturale» in Acustica musicale e architettonica, p. 518.

[19] Il maestro di canto, incisione di Richard Dalton tratta da: Eighty-Two Prints engraved by Bartolozzi &c from the Original Drawings of Guercino, in the Collection of His Majesty,
John& Josiah Boydell, London, ca. 1800.

[20] L’abbigliamento del Cantore è quello di un popolano e non di un “cortegiano”, ma la classe sociale del personaggio raffigurato è fatto indipendente dal suo atteggiamento nel canto.

[21] C. Maffei, op. cit., lettera «All’Illustrissimo Signor Conte d’Alta Villa», p. 34. La lettera è pubblicata anche all’indirizzo: http://www.maurouberti.it/vocalita/maffei/lettera.html dove è possibile ascoltare la sintesi elettronica degli esempi musicali in essa compresi.

[22] Andrea Vesalio, Andreae Vesalii bruxellensis, scholae medicorum Patavinae professoris, de Humani corporis fabrica Libri septem, Basilea, ex officina Ioannis Oporini, 1543, p. 153. A. Vesalio: «Ac caput quidem hoc asperae arteriae [= trachea] (…) primum tribus constituitur cartilaginibus, quarum prima maxima amplissimaque & anterior est, foris quidem gibba, intus autem sima, scuto quodammodo similis, non rotundo, sed praelongo, quali veteres in praelijs usos, & Turcarum aliquot adhuc, in navibus praesertim, uti cernimus. C. Maffei: «Il capo de la canna [= trachea] è composto di tre cartilaggini, delle quali la più grande à guisa di scudo à noi si mostra: et è quel nodo, che nella gola di ciascun'huomo si vede, la qual'essendo fatta per difesa di quello luogo cosi dura, e simile allo scudo, si fa chiamare scudiforme». Diversa fra i due è la relazione stabilita fra il nome e la causa di questo.

[23] Giovanni Battista Mancini, Riflessioni pratiche sul canto figurato..., Terza edizione, Milano, Galeazza, 1777 p. 65. La prima edizione era apparsa a Vienna col titolo: Pensieri e riflessioni pratiche sopra il canto figurato nel 1774.

[24] Girolamo Mercuriale, Artis gymnasticae apud antiquos celeberrimae, nostris temporibus ignoratae, libri sex, Venezia, Giunta, 1601, p. 155.

[25] Mauro Uberti, «Dell'esercizio della voce, e prima della vociferazione e del canto», «Hieronimus Mercurialis Forlivensis» - Colloquio in omaggio al primo medico dello sport - Olimpiadi Invernali 2006, Università di Torino - Dipartimento di Biologia Animale e dell'Uomo, Torino, 26-28 gennaio 2006. http://www.maurouberti.it/mercuriale/mercuriale.html

[26] Gabriele Falloppio (1523 ca. – 1562), citato da Bernardino Ramazzini da Carpi, in De morbis artificum diatriba, Pavia, Conzatti, 1718, p. 295: «Id potissimum in Cantoribus, & et Monachis observavit Fallopius noster: Cantores, ait ille, qui gravem vocem faciunt, Bassum vulgo vocant, necnon cucullati isti Monachi sunt ut plurimum herniosi, nam continuo clamitant, ad clamorem autem, & magnam vocem concurrunt musculi abdominis». Prima edizione: Modena, Capponi, 1700.

[27] L. Zacconi, op. cit., I, c. 58v.

[28] Joan Baez, all'anagrafe Joan Chandos Baez (New York, 9 gennaio 1941), è una cantante statunitense di musica folk.

[29] Des'ree, nome d'arte di Desirée Annette Weeks (Barbados, 30 novembre 1968), è una cantautrice britannica di origine barbadiana.

[30] Dagli elenchi dei cantori della Cappella Giulia negli anni 1571-89, pubblicati da Giancarlo Rostirolla nel suo studio La Cappella Giulia in San Pietro negli anni palestriniani (Atti del Convegno di studi palestriniani - 1975, Palestrina, 1977, pp. 172-202) appare che in quegli anni il numero dei cantori era variato fra un minimo di 13 ed un massimo di 19.

[31] In Buccinate in neomenia tuba (Symphoniae Sacrae, 1615) si trovano quattro cori, dei quali tre a cinque voci ed uno a quattro.

[32] G. Mercuriale, op. cit., III, «De Vociferatione, & risu». Cap. VII.

[33] Il medico e trattatista Bernardino Ramazzini (1633–1714) prese in esame ed analizzò le condizioni di lavoro e le malattie da esse derivanti di un elevato numero di mestieri. La sua De morbis artificum diatriba (Modena, Capponi, 1700) è considerata l'atto fondante della medicina del lavoro.

[34] B. Ramazzini, op. cit., Pavia, Conzatti, 1718, p. 294: «Nullum xercitii genus reperire est tam salubre, tam innoxium, quod intemperanter adhibitum graves noxas non inferat, quod satis experiuntur Phonasci, Cantores, Oratores Sacri, Monachi, Moniales quoque ob continuam in Templis Psalmodiam, Rabulae forenses, Praecones, Anagnostae, Philosophi in Scholis ad ravim usque disputantes, & quotquot alii, quibus cantus, & vocis exercitatio Artis loco est. Hi ergo, ut plurimum, herniosi fieri solent, si Spadones excipias, quibus execti sunt testes. Ob longam enim, arctatamque aeris expirationem pro cantus modulatione, seu recitatione, musculi abdominis respirationis muneris inservientes, necnon Peritonaeum laxitatem contrahunt, unde Herniae inguinales facili negotio succedunt, non secus ac in Pueris, quibus ob nimiam vociferationem, & ploratum tumores in inguinibus apparent».

[35] Claudio Monteverdi, Lettere, dediche e prefazioni (a cura di D. De' Paoli), Roma, De Santis, 1973, p. 48.

[36] Gian Giorgio Trissino, Epistola de le lettere nuovamente aggiunte alla lingua italiana, 1524. (http://hal9000.cisi.unito.it/wf/BIBLIOTECH/Umanistica/Biblioteca2/Libri-anti1/Libri-anti/image230.pdf).

[37] Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, libro secondo, X, Venezia, Tacuino, 1525.

[38] Hector Berlioz, Grand traité d'instrumentation et d'orchestration modernes: contenant le tableau exact de l'etendue, un appercu du mecanisme et l'etude du timbre et du caractere expressif des divers instrumens, accompagné d'un grand nombre d'exemples en partition, tirés des oeuvres des plus grands maîtres, et de quelques ouvrages inedits de l'auteur: oeuvre 10.me / par H. B., Paris, Schonenberger, 1843.

[39] Emanuele Thesauro, Cannocchiale aristotelico, ossia Idea dell'arguta et ingeniosa elocutione che serve a tutta l'Arte oratoria, lapidaria, et simbolica esaminata co’ Principij del divino Aristotele, Torino, Sinibaldo, 1654.

[40] Claudio Monteverdi, Il Secondo Libro de Madrigali a cinque voci, 1590.

[41] Pierfrancesco Tosi, Opinioni de' cantori antichi, e moderni o sieno osservazioni sopra il canto figurato, Bologna, Lelio dalla Volpe, 1723, p. 51.

[42] Federico Mompellio, «Un certo ordine di procedere che non si può scrivere» in Scritti in onore di Luigi Ronga, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1973.

[43] Horatio Vecchi, L’Amfiparnaso comedia armonica…, Venezia, Gardano, 1597.

[44] Giovanni Bonifacio, L’arte de’ cenni…, Vicenza, Grossi, 1616.

[45] Vincenzo Galilei, Fronimo Dialogo di V.G. fiorentino [ ... ], Venezia, Girolamo Scotto, 1568, p. 30. Cfr. F. Mompellio, op. cit.

[46] Mauro Uberti- Oskar Schindler, Contributo alla ricerca di una vocalità monteverdiana: il ‘colore’, in «Claudio Monteverdi e il suo tempo". Congresso Internazionale Monteverdiano - Venezia, Mantova, Cremona: 3-7.5.1968, Scuola di Paleografia Musicale, Cremona, 1968, pp. 519-53.

[47] Giaches Wert, Di G. de W. l'ottavo libro de madrigali a cinque voci, Venezia, Angelo Gardano, 1586.

[48] Lodovico Zacconi, Prattica di musica, Girolamo Polo, Venezia, 1592, I, c. 54r. Ed. anastatica Forni, Bologna, 1967.

[49] Claudio Monteverdi, Lettere, dediche e prefazioni (a cura di D. De' Paoli), Roma, De Santis, 1973, p. 48.

[50] Laura Peperara (1563-1600), Anna Guarini (1563-1598) e Livia D’Arco (?-?).

[51] Luzzasco Luzzaschi, Madrigali di L.L. per cantare et sonare a uno, e doi, e tre soprani…, Roma, Verovio, 1601.

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