Fate ogni cosa per la gloria di Dio (1Cor. 10, 31)

Lo scopo finale della musica non deve essere altro che la gloria di Dio e il sollievo dell'anima (Johann Sebastian Bach)

giovedì 15 settembre 2016

La Fede Della Chiesa – di Pavel Evdokimov

Tratto dal libro “L’Orthodoxie” - Delachaux & Niestlé, Neuchâtel-Paris, 1959
 
Capitolo I
 
Il Dogma
 
La parola greca “Dogma” significa “verità indiscutibile”; negli Atti degli Apostoli, i dogmi sono le “decisioni” prese dagli Apostoli e dagli anziani di Gerusalemme[1]. Per i Padri essi esprimono “la dottrina del Signore e degli Apostoli”[2] Il dogma, linfa vivificante delle Scritture, deve richiamarsi al testo sacro e rendere così ragione all'espressione usata dai Padri: “dogmi divini” o “evangelici”. La Chiesa, “colonna e base della verità”[3], confessa i dogmi e testimonia della loro natura rivelata, da cui il nome di “dogmi della Chiesa”; nel loro valore assoluto di verità, essi sono gli elementi costitutivi e normativi della fede: la regola della fede.

Il primo canone del IV Concilio afferma: “Chi non riceve e non confessa i dogmi della fede, sia anatema: scomunicato”. Per il fatto stesso di distaccarsi dalla confessione unanime, egli diviene estraneo, constata da se stesso che egli non appartiene alla Chiesa. È questo il senso dell’anatema, che non è un castigo (inapplicabile a chi è fuori), ma una proclamazione della rottura consumata: “Questa gente si condanna da sé”[4]. Tuttavia non è neppure lo cherem ebraico, la maledizione attiva; infatti, dopo aver constatato la separazione, la Chiesa prega: “Trinità Santa! Fa’ che essi vengano alla comunione della tua verità eterna”.

I dogmi, segnati dal sangue dei martiri, si riferiscono solo alle questioni di vita o di morte, come è detto nel Vangelo di San Giovanni: si è ben lontani dall'aver riferito ogni cosa, ma quel che è stato rivelato è sufficiente alla salvezza, è l’“unica cosa necessaria” del Regno. Perciò il neofita entrando nella Chiesa confessa il “Simbolo della Fede” e afferma: “Credo”, mentre il candidato alla dignità episcopale professa la fede ortodossa in una forma esplicita e completa. Del resto la Chiesa, dinanzi alla marea montante delle false dottrine, ha dovuto difendere sin dall'inizio della sua esistenza la purezza e l’integrità del deposito dogmatico e contrapporre alle eresie il consensus delle cattedre apostoliche.
 
Fin dall'inizio si è affermata in occidente la teologia agostiniana della Trinità, che ripone una grande fiducia nell'intelligenza umana; il pensiero greco sprofonda invece nel silenzio dell’apofasi[5] divina di fronte al Mistero. I cappadociani proteggono la forma dogmatica, senza esplicitarla, parlano del mistero trinitario solo nelle loro opere polemiche. Sant'Ilario esprime efficacemente questa esigenza: “La, malvagità degli eretici e dei blasfemi ci costringe a fare cose illecite, ad accendere vette inaccessibili, a parlare di argomenti ineffabili, a intraprendere spiegazioni vietate. Sarebbe dovuto bastare compiere per sola fede ciò che è prescritto, cioè adorare il Padre, venerare con lui il Figlio e riempirci dello Spirito Santo. Ecco invece che siamo costretti ad applicare la nostra umile parola al mistero più inenarrabile. La colpa altrui precipita noi pure nella colpa di esporre al rischio del linguaggio umano i misteri che dovevano rimanere chiusi nella religione delle nostre anime”. San Giovanni Crisostomo dirà che i Vangeli ci sono stati dati in forma scritta per della nostra debolezza: la venuta di Cristo è sufficiente a sconvolgere tutti gli uomini e a segnarli per sempre.
 
Pur tracciando un confine tra la verità e la menzogna, il dogma conserva pienamente il suo valore positivo di affermazione. Le parole ispirate, necessarie a delimitare correttamente i misteri della Parola, provengono dalla “memoria” carismatica della Chiesa. Accanto alla poesia liturgica e al linguaggio ricco d’immagini delle omelie, la Chiesa crea il linguaggio metalogico e antinomico dei dogmi, dotato di una mirabile precisione. Non si tratta di filosofia pura, sia pure religiosa, perché i dogmi non si fondano sulle idee, ma su realtà divine, tracciandone l’“icona” verbale; esse afferrano la “parola interiore”, come l’icona afferra la “forma interiore”. In rapporto alla logica e al pensiero ogni dogma è simbolico: nel loro insieme essi costituiscono il Simbolo della Fede, la sintesi degli antitipi delle realtà esistenti.
 
1. L’aspetto apofatico del dogma
 
Quando si confessa un dogma, occorre sempre tenere presente il principio della teologia apofatica. Ogni affermazione umana è di per se stessa una negazione, perché non va mai fino in fondo, resta al di qua del pleroma; la sua fondamentale insufficienza la nega: “L’uomo non può vedermi e vivere”[6] esprime per San Gregorio Nisseno il pericolo mortale di limitare Dio con definizioni umane. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri ... le mie vie sono alte al di sopra delle vostre vie”[7] e “la pazzia di Dio è più savia degli uomini”[8]. Il “totalmente altro” di Dio non ha termini di paragone; nella sua radicale trascendenza egli è diverso dal mondo nella sua totalità e senza eccezione. D’altra parte Dio trascende nelle sue manifestazioni la sua stessa trascendenza. La grazia rivela i limiti del creato, che essa medesima fa improvvisamente superare, appunto perché è grazia, filantropia divina. “In Dio non vi è che il sì”, insegna San Paolo. Il “sì” umano si pone all'interno del “sì” divino dell’incarnazione, ed è il “sì” teandrico di Cristo, l’“ intelligenza di Cristo”, luogo della Sapienza di Dio. Anche i pensieri umani sono inadeguati, perché ogni parola umana è contraddittoria nel suo sforzo incessante di superare ciò che è espresso (ogni pensiero enunciato, fissato, oggettivato, è menzogna per difetto). La “coincidenza dei contrari” si opera solo in Dio. È proprio per questo che i dogmi non sono “parole umane”; la legge dell’identità e della contraddizione non è qui normativa e neppure applicabile.
 
Così Dio è Uno e Trino al tempo stesso, e non è “né la triade né la monade come le conosciamo nei numeri”[9]; le due nature si uniscono nella sola ipostasi divina del Cristo; non è più l’Apostolo Paolo che vive, ma è il Cristo che vive in lui[10]; come si vede, non è l’uno o l’altro, ma l’uno e l’altro insieme. In questo mondo di pure evidenze il tertium sempre datur, ma per affermarlo occorre passare attraverso la metanoia evangelica. Sul piano della conoscenza questa significa “ravvedimento intellettuale” nel senso più forte, che scende fino alla radice delle facoltà del nostro spirito. La grazia battesimale ci viene in aiuto, ristabilisce “l’immagine” e condiziona il metodo esicasta nella sua aspirazione alla restaurazione della natura adamitica e della sua ricettività totalmente aperta alla risposta marcata.
 
La sua operazione essenziale di interiorizzazione rappresenta un ritorno in se stessi, un rientrare in se stessi, una enstasis al fine di afferrare per purificazione (catarsi ascetica) quello che fu creato e rimane “sepolto sotto la nebbia delle passioni”[11]: “il sovrannaturale schiudersi della nostra anima”[12], la nostra originaria “identità con la luce celeste del nostro Archetipo incorruttibile”[13].
L’irriducibile trascendenza di Dio - l’assoluta alterità divina - esclude radicalmente la coincidenza o l’identificazione “panteista” e anche “panenteista” dell’anima e di Dio propria delle religioni orientali. Tuttavia il Dio personale - e proprio perché personale, Creatore dell’uomo a sua immagine - non assorbe e non sminuisce l’anima, ma la deifica, con la sua presenza. La grazia è un fine mai raggiunto e non implica confusione alcuna, nemmeno al limite. La metanoia, nella sua potenza di pentimento, distrugge perciò anzitutto l’aspirazione demoniaca ad uno stato coestensivo all’essenza divina. L’“espectasis” - tensione - di San Gregorio Nisseno, è uno slancio di fede che supera il tempo fino a traversare l’eternità, senza mai arrestarsi né saziarsi. La grande affermazione dell’esicasmo viene ben definita da Evagrio: Dio è Sorgente e Fine del conoscere perché Inconoscibile e solo Intelligibile. Ma, come a Mosè, Dio accorda la sua visione soltanto rifiutandola. L’intelligenza logica non può afferrare Dio che nelle sue “concomitanze intelligibili”. Il modo fondamentale dell’errore è infatti l’identificazione prematura. L’intelletto associato al cuore, e reso alla sua nudità preconcettuale supera la ragione discorsiva (dianoia), abbandona le armonie di giudizio (metodo scolastico) e postula l’elevazione a livelli sempre più profondi del suo essere, fino a divenire “luogo di Dio”.
 
Ogni acquisizione non è tanto l’atto dell’intelligenza che afferra l’oggetto, quanto l’atto di Dio che afferra l’intelligenza e la rende deiforme mostrandola perciò in questa verità che la supera, senza principio né fine. Essa sussiste nella sua funzione di contemplare l’inafferrabile solo nella misura in cui si supera e non si appartiene più. Il Deus absconditus è inaccessibile non a causa delle nostre limitate conoscenze, ma in se stesso; è caratteristico dell’essenza della libertà divina di essere misteriosa in modo estremo, illimitato, trascendente. Il senso della distinzione, per noi reale, tra l’essenza inaccessibile e le Energie increate e partecipabili è tutto in queste affermazioni. La sintesi tra l’interiorità dello spirito umano, dove esso incontra lo Spirito, e la trascendenza assoluta di Dio, essenziale per ogni corretta esperienza mistica, non è di carattere speculativo, ma operativo e viene mantenuta l’antinomia irriducibile dal punto di vista concettuale: “grazie a questa inconoscenza, anche conoscendo al di là di ogni intelligenza”[14].
 
Dio non è l’Uno plotiniano, né l’Uno, né il Multiplo, ma Uno e Trino al tempo stesso. Il Dio-Monade e l’Unità di Origene non è che l’assoluto dei filosofi. “Noi possiamo raggiungere Dio non in ciò che egli è, ma in ciò che egli non è”[15]. Poiché Dio è “al di sopra dell’essere stesso”[16] le nostre parole possono applicarsi solo a ciò che è “intorno” a Dio. Solo la grazia del Filantropo opera l’autentico incontro tra Dio che discende nei suoi “nomi”, nelle sue energie, e l’uomo che si innalza nelle “unioni”. I dogmi appaiono in questa prospettiva nel loro vero significato: la loro forma negativa rende relativa ogni teologia dei concetti e ne fa una “teologia dei simboli”; d’altra parte la loro forma positiva postula il ravvedimento, la metanoia dello spirito umano dinanzi alla tenebra, frangia della luce divina. Al limite, insegna San Simeone, il teologo è condotto alla “teologia dei silenzi ineffabili”, al Silenzio pieno del Verbo; i dogmi - parole divine - lo scoprono e tracciano l’itinerario delle ascensioni.
 
2. L’evoluzione dei dogmi

La rivelazione si chiude con l’era apostolica e i dogmi non aggiungono nuovo contenuto alle Scritture; non esiste un progresso dogmatico sostanziale, ma soltanto la scelta nella formulazione delle verità consegnate nella Bibbia. È dunque un’evoluzione nell’esplicitazione e nella precisazione, è lo sviluppo del germe. San Vincenzo esorta: “Insegna le medesime cose che ti sono state insegnate. Parla in modo nuovo, ma non dire novità”[17].
 
L’Enciclica dei patriarchi orientali del 1848 riafferma: “Da noi le innovazioni non hanno potuto essere introdotte, né dal patriarca né dai concili: perché ... il Corpo intero della Chiesa ... vuole che il suo dogma resti eternamente immutabile e conforme a quello dei suoi Padri”. Per certi teologi occidentali la netta distinzione tra l’età apostolica dei dogmi e il tempo post apostolico dell’interpretazione si evolve nel principio delle “verità velate”. I dogmi possono contenere nuove verità “implicite”. Ma il testo di Galati 1, 8: “se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema” è categorico. Così anche i Padri del V Concilio dichiarano: “Noi conserviamo la medesima fede che il Signore Gesù Cristo ha trasmesso ai suoi Apostoli e per mezzo loro alle Sante Chiese e che i Padri e i dottori hanno trasmesso al popolo”. “Chi aggiunge o toglie qualche cosa alla dottrina della Chiesa, sia anatema” dicono i Padri del VII Concilio.
 
I dogmi sono l’“analisi di ciò che è stato detto”, afferma Sant’Ireneo. La Chiesa costruisce i suoi dogmi per mezzo del verbo spirituale, quello che i semplici pescatori (Apostoli) comunicavano con parole semplici. Formule fatte da accenti di eternità, costituivano un insieme di nozioni limite e tracciavano l’icona verbale della verità. Lo sforzo eroico dei Padri martiri addita nel dogma la parola crocifissa: “il giudizio del giudizio”, in cui la Sapienza di Dio ha preso dimora. La Chiesa ci inizia al suo pensiero eonico, passato attraverso l’epiclesi della cattolicità: “È parso bene allo Spirito Santo”.
 
3. I libri simbolici

L’ortodossia non possiede “libri simbolici”. La professio fidei tridentinae, i “39 articoli” degli anglicani, la Formula concordiae dei luterani, la Confessione dei riformati, sono frutti tardivi dell’epoca della Riforma e della Controriforma in Occidente. Essi testimoniano la confusione che è stata fatta di frequente tra i dogmi e la loro interpretazione puramente teologica, scolastica, rivelando una pericolosa tendenza ad imporre un sistema teologico normativo (l’agostinismo, il nominalismo, il tomismo, l’integrismo, il fondamentalismo). L’ortodossia protegge e favorisce una grande libertà di opinioni teologiche nel quadro della tradizione unica. La Chiesa supera ogni scuola e al tempo stesso le contiene tutte. Al di fuori delle definizioni dogmatiche dei concili nessun testo può protendere ad un valore “simbolico”. Il dogma è sufficiente e, per la sua posizione chiave, esclude ogni monotipo o “linea generale” nella teologia.
 
I testi specificamente dogmatici sono:
 
1) il Credo Niceno-costantinopolitano. Il III Concilio (can. 7) vieta di avere un’altra confessione di fede o di modificarne il testo considerato sacro. Il II Concilio (can. 1) aveva redatto la stesura definitiva e l’aveva proclamata intangibile. Il IV e il VII Concilio lo riaffermano solennemente. Questo testo ha sostituito tutti i simboli locali; anche Roma ha venerato il suo antico simbolo battesimale, detto “degli Apostoli”, che rimase per l’Occidente il Credo catechetico, mai usato in Oriente. Le sue origini direttamente apostoliche sono state negate da San Marco d’Efeso al Concilio di Firenze; nella sua redazione attuale esso risale probabilmente al IV secolo, essendo il simbolo battesimale di Roma.
 
2) Le definizioni dogmatiche dei sette concili ecumenici.
 
3) I testi dogmatici dei nove concili locali e delle “istituzioni apostoliche” ricevute e confermate al VI Concilio (can. 2) e al VII Concilio (can. 1).
 
4) I testi dei Sinodi di Costantinopoli dell’861 e dell’879, e quelli del XIV secolo (1341-1351) riguardanti la dottrina di San Gregorio Palamas sulle energie divine.
 
Si possono menzionare ancora dei testi venerati, che non hanno però il valore imperativo dei dogmi: il simbolo di San Gregorio Taumaturgo (III secolo) con la chiara esposizione della dottrina trinitaria (che ha ricevuto il consenso del VI Concilio, can. 2); il simbolo di Sant’Atanasio, detto “Quicumque” (risale al V secolo; il testo latino contiene il Filioque); la confessione di fede di San Giovanni Damasceno; la confessione esplicita della fede ortodossa per l’ordinazione episcopale. Infine vi sono alcuni testi di natura dogmatica, rispettati ma senza autorità normativa: la Confessione del metropolita Pietro Moghila, fortemente influenzata dalla teologia latinizzante di Kiev del XVII e del XVIII secolo; la Confessione del patriarca di Gerusalemme, Dositeo, accettata dal Sinodo di Gerusalemme, del 1672, inviata alla Chiesa anglicana e al Sinodo della Chiesa russa; la sua esposizione è di natura polemica (contro la teologia della Riforma); il grande catechismo del metropolita Filarete di Mosca, accettato per l’insegnamento nelle scuole (la redazione definitiva approvata dal Sinodo è del 1870).
 
4. Il Simbolo della Fede

Fin dagli inizi era necessario trarre l’essenziale dalla tradizione orale e più tardi dai primi scritti, per formulare un testo normativo della fede, una regola che rispondesse alle esigenze del catechismo. Bisognava trovare il fulcro del messaggio, il suo cuore[18], testimoniare della sua origine apostolica di fronte ai testi locali e conferirgli l’autorità della tradizione universale, cattolica. Il contenuto normativo doveva porsi allo stesso livello degli scritti del Nuovo Testamento. Cosi Tertulliano fa risalire a Cristo stesso la formula battesimale, e la chiama “giuramento militare dei cristiani”. Ad un certo momento appare anche la leggenda del contributo diretto dei dodici Apostoli al testo del Credo.
Sant’Ireneo parla della “regola di verità” che il neofita riceve col battesimo, il che indica già una liturgia battesimale. In breve tempo il battesimo viene ad essere proceduto dalla traditio et redditio symboli, sotto forma di un questionario battesimale, che voleva essere una completa confessione de fide. Inoltre l’invocazione del Nome costituiva la formula corrente di esorcismo e alla confessione civica, Kyrios Kaisar, la Chiesa rispondeva per bocca dei suoi martiri Kyrios Christos. La missione della Chiesa esigeva dal canto suo una confessione molto precisa: “un solo Padre, un solo Signore, Gesù Cristo”[19].
 
La confessione cristologica, o quella bipartita (Padre e Cristo), presuppone sempre la confessione pienamente trinitaria. Questa non si pone al termine di una evoluzione progressiva, ma rimane sottintesa sin dall’inizio. Nei Simboli l’aspetto cristologico è certo sempre quello più sviluppato: l’accentuazione cristologica risponde al fatto centrale dell’incarnazione che ci conduce alla piena rivelazione. Ma la formula trinitaria, divenuta dominante, corregge la particolarità locale delle antiche formule e indica la norma. La teologia orientale, molto più sintetica, afferma nelle sue dossologie e nella sua liturgia la netta predominanza del Nome della Santa Trinità. I “sospiri ineffabili” della vita cristiana non si fermano in Cristo[20] né nello Spirito Santo, ma sono sempre portati dinanzi al Padre: è questo il senso preciso del “memoriale” liturgico.
 
Capitolo II
 
Il compito dogmatico dei concili e la loro eredità
 
Se osserviamo in modo retrospettivo l’insieme dei concili, vediamo che essi disegnano l’icona dogmatica della rivelazione. Nella profonda unità della visione vi sono tuttavia accentuazioni diverse. L’importanza maggiore va alla definizione di Nicea sulla consustanzialità del Figlio e del Padre, al dogma di Calcedonia sull’unità delle due nature nell’ipostasi divina del Verbo, alla precisazione del Sinodo di Costantinopoli del XIV secolo sulla dottrina palamita delle energie divine deificanti e sulla grazia increata. Per vedere nella giusta luce lo sviluppo della coscienza dogmatica, bisogna prendere in considerazione il contesto delle circostanze storiche su cui prende rilievo, ed anche l’immensa distanza tra il dogma, verità cristallizzata, definita, proclamata, e la teologia dell’epoca nella quale la questione dogmatica veniva a porsi. I Padri entrano in dialogo con gli eretici, e nel loro atto di fede, che va fino al martirio, procedono verso la generazione della verità.
 
Fin dagli inizi, al centro della discussione vi è l’incarnazione nel suo aspetto soteriologico: Cur Deus Homo? - perché Dio-Uomo? È la questione di vita o di morte, la teologia della salvezza in pieno dramma e in piena storia. Il mistero è anzitutto cristologico, senza essere tuttavia “pancristico”. Il punto di partenza della riflessione ha origine nelle teologie devianti, che cercano di conciliare il monoteismo ereditato dall’Antico Testamento con la fede nella divinità di Cristo, postulando un Cristo uomo adottato da Dio (Teodato, Artemone, più tardi Paolo di Samosata e il nestorianesimo) oppure la concezione dei “due nomi in una sola persona”, per cui Cristo non sarebbe altro che una modalità del Padre (modalismo, dinamismo, patripassionismo: Noto, Prassèa, Sabellio).
 
Per la ragione umana è sempre più logico attenersi al monoteismo giudaico, al teismo di Aristotele, perfino al panteismo stoico o all’emanatismo plotiniano. Il dogma trinitario in cui Dio è Uno e Trino al tempo stesso, crocifigge la ragione, la sua verità vi si pianta come una scheggia e costituirà sempre, la formula stessa dello “scandalo” per i greci e della “pazzia” per i giudei - in verità “il Cristo crocifisso è il giudizio dei giudizi”. La gloria del I Concilio niceno - il termine omoousios, consustanziale - ha troncato e condannato l’eresia di Ario[21]: volto verso Dio nella sua divinità, il Figlio unigenito è consustanziale al Padre: “Luce da Luce, vero Dio da vero Dio, nato e non creato, consustanziale al Padre”. Dopo Sant’Atanasio, i Padri Cappadoci (San Basilio e i due Gregori) elaborano la teologia trinitaria più progredita rispetto alla terminologia di Nicea: una sostanza e tre ipostasi, e accentuano la consustanzialità al Padre dello Spirito Santo[22].
 
Ma la risposta porrà un’altra questione dogmatica, sull’umanità di Cristo: che cosa significa “la Parola è stata fatta carne”? Apollinare, vescovo di Laodicea, scivola nell’eresia: egli rifiuta a Cristo un’anima umana razionale, cui sostituisce il Verbo divino. San Gregorio Nazianzeno, di rimando, difende energicamente l’integrità della natura umana del Cristo, il quale “salva solo ciò che assume”. Ma la questione si rivela molto complessa e spinosa. Dialetticamente la tesi viene presentata dalla scuola di Alessandria (Panteno, Clemente, Origene, Cirillo) e l’antitesi dalla scuola di Antiochia (Luciano, Teodoro di Mopsuestia, San Giovanni Crisostomo, Teodoreto di Ciro). Questi si rinchiudono in una certa imprecisione, dovuta alla loro diffidenza per la dialettica, e pur tuttavia vitale, tra la tradizione biblica e la ragione dogmatica.
 
L’accento verrà posto - ad Alessandria - sull’unità delle due nature di Cristo, che al limite può approdare alla fusione monofisita, il dissolversi della goccia (l’umanità) nell’oceano (la divinità); oppure - ad Antiochia - per salvare la pienezza umana, si procede nella distinzione radicale, fino alla separazione delle due nature (Nestorio). Per Cirillo di Alessandria il Cristo nell’unione ipostatica è Uno, risultando da due nature; Antiochia invece va fino alla dualità delle due Persone esistenti in una ipostasi complessa (accordo soltanto morale delle due Persone). Dopo la condanna dei “macedoniani” (negatori della divinità dello Spirito Santo) nel II Concilio (381) e di Nestorio (Antiochia) al III Concilio (431), la gloria della sintesi dogmatica rifulge nel IV Concilio di Calcedonia (451). Essa si fonda sul Dei et hominis una persona, formula del papa San Leone, nella sua lettera a Flaviano di Costantinopoli (Tomo a Flaviano). Egli dichiara l’esistenza in Cristo di due nature, la divina e l’umana, distinte e perfette, unite senza confusione né mescolanza, né separazione, in una sola Persona o Ipostasi del Dio Verbo.
 
Il vicolo cieco in cui sono rimaste chiuse le due scuole antagoniste, quella di Alessandria e quella di Antiochia, indica chiaramente il limite di ogni ragionamento umano sulle realtà divine. La risposta viene da Dio, come un miracolo, sotto forma di un cristallo dogmatico limpido e semplice. Non era una sintesi teologica (e ancor meno una sintesi filosofica sul tipo della triade di Hegel), ma dogmatica, al di sopra di ogni impossibile analisi teologica: una definizione limite. Questo spiega la lunga resistenza del monofisismo siriano ed egiziano nella forma attenuata (ancora attuale nelle Chiese nestoriana e giacobita), che prende la forma eretica del monotelismo (una sola volontà in Cristo: il grande difensore del diotelismo ortodosso fu San Massimo il Confessore). Dopo la condanna dei Tre Capitoli (scritti di Teodoro, di Teodoreto e di Ibas) di tendenza nestoriana, fatta dal V Concilio (553), il VI Concilio condanna il monotelismo e dichiara l’esistenza di due volontà in Cristo. La volontà umana segue volontariamente la volontà divina.
 
Secondo San Giovanni Damasceno, colui che desidera è uno, e l’oggetto del desiderio è perciò ugualmente uno. Il grande avversario dei monofisiti, Leone di Bisanzio, introduce il termine di “en-ipostasi”: la natura umana è “en-ipostatizzata” nell’Ipostasi divina del Verbo. Le definizioni conciliari, benché molto salvifiche, non potevano però ancora rispondere ad ogni questione, e soprattutto a questa: come vive la medesima ipostasi nelle due nature? La soluzione classica e semplicista è chiaramente insufficiente: l’umanità di Cristo soffre e la divinità fa i miracoli. Essa spezza e divide il mistero dell’unità ed è troppo razionale, passa accanto alla verità, sempre antinomica. Si arresta dinanzi a: Dio e l’uomo, sopprime il mistero stesso del Dio-Uomo. La dottrina detta della communicatio idiomatum, o pericoresi, sfiora questo mistero (San Giovanni Damasceno): il divino penetra nell’umano e lo deifica; ma la questione rimane aperta quanto all’azione reciproca dell’umano sul divino.
 
L’autore sconosciuto degli scritti intitolati “Gerarchia celeste”, Gerarchia ecclesiastica” e “Teologia mistica”, che hanno esercitato un’influenza considerevole in Oriente e in Occidente, tradotti in latino da Scoto Eriugena nell’850 e che egli fa passare col nome di Dionigi l’Aeropagita (ma che provengono da ambienti siriani della fine del V secolo), dà una felice definizione dell’energia teandrica divino-umana, nella IV lettera a Gaio: essa è “la diunità di due volontà e di due libertà in una sola energia”. Le due nature si uniscono in una sola coscienza teandrica, la coscienza umana si pone all’interno della coscienza divina. Il VII Concilio (787) condanna gli iconoclasti e con il suo dogma sull’icona completa la cristologia: l’umanità di Cristo è la figura umana della sua divinità, l’icona di Cristo rivela il mistero dell’unità e disegna l’immagine teandrica.
I concili lasciano in eredità il problema grandioso di Calcedonia: le tossine del monofisismo sono ben lungi dall’essere eliminate; la teocrazia occidentale del Medio Evo o quella di Bisanzio non davano un posto sufficiente all’aspetto umano: il Rinascimento prende la rivincita e sfocia nel monofisismo umanista. L’equilibrio del teandrismo cristologico viene spezzato: ritrovarlo è il problema più attuale del nostro tempo. I “credo alludono a una localizzazione simbolica: se il Padre è al di sopra di tutte le cose, il Figlio è alla destra del Padre e lo Spirito Santo è nella Chiesa. I recenti studi sul Simbolo degli Apostoli rettificano il testo risalendo a Ippolito di Roma: “Io credo allo Spirito Santo, nella Santa Chiesa, per la resurrezione della carne”. Ippolito aderisce all’idea cara a Sant’Ireneo, che attribuisce allo Spirito Santo la resurrezione della carne affermando: “là dov’è lo Spirito, qui è la Chiesa e ogni grazia” e lancia un appello a ogni fedele perché “si affretti alla Chiesa, nella quale fiorisce lo Spirito”. “Nella Chiesa è stata disposta la comunione del Cristo, ovvero lo Spirito Santo”.
Anche l’anafora della tradizione apostolica spiega: “raccogliendo nell’unità tutti i santi che comunicano, per riempirli dello Spirito Santo”. Colui che ha parlato “per mezzo dei profeti” inizia all’intelligenza delle Scritture e dei dogmi - è la chiara affermazione dell’epiclesi dogmatica.
 
La koinonia ton aghion del Simbolo degli Apostoli può significare la comunione ai sancta - cioè all’Eucaristia, il che si accorda anche ugualmente col senso dell’unione dei sancti - dei santificati. È la fede sacramentale trasmessa dagli Apostoli: l’agape della Chiesa “nella quale fiorisce lo Spirito”. Ritroviamo il medesimo ordine nel Simbolo Niceno, in cui la cristologia si schiude alla pneumatologia e alla santificazione ecclesiale. La realtà della grazia deificante si pone al centro dell’economia filantropica di Dio. I sinodi di Costantinopoli (1341-1352) canonizzano la dottrina di San Gregorio Palamas come autentica espressione della fede ortodossa ed anche come il suo compimento. Essa distingue in Dio le tre Ipostasi, processioni ipostatiche; la natura o essenza una; le energie o processioni naturali. Le energie sono inseparabili dalla natura di Dio e Dio vi è totalmente presente. Inaccessibile, radicalmente trascendente nella sua essenza, Dio è immanente e si manifesta nelle sue energie, determinando i due modi dell’esistenza divina: intradivina in lui ed extradivina nel mondo liberamente creato. Le energie increate non implicano affatto l’idea di causalità, cioè la grazia come effetto della causa divina. Dio non agisce come causa della grazia, ma vi si manifesta e opera nella reciprocità del sì dell’incarnazione e del fiat della creatura.
 
I teologi occidentali sottovalutano il significato e la portata del palamismo e questo traccia un profondo solco dogmatico tra Occidente e Oriente. È il medesimo tragico disprezzo che i teologi di Carlo Magno manifestano verso le definizioni del VII Concilio. La dottrina palamita non rappresenta una novità, non innova nulla, ma sintetizza e compie la tradizione patristica. Da questo punto di vista l’Occidente non si sofferma a sufficienza, per gli Orientali, sul mistero dell’ineffabilità divina e non avendo la dottrina della theosis non giustifica la natura della comunione. La comunione non è né sostanziale, né ipostatica, né nella grazia creata (tre casi impossibili); non può essere che energetica (palamismo), la sola comunione possibile ed efficace. Dio si comunica e deifica per mezzo delle energie deificanti, l’uomo “partecipa della natura divina” senza confondersi con l’essenza di Dio. Tutta la dottrina orientale della natura umana e della grazia è connessa a questo principio. La teologia epicletica dello Spirito Santo, che soggiace a tutto il pensiero patristico, ristabilisce l’equilibrio trinitario perché porta tutta l’economia della creazione ricapitolata in Cristo dinanzi al Monarchos celeste. Con le sue “due mani”[23], il Verbo e lo Spirito, il Padre scolpisce il volto eonico degli “dei per grazia” del Regno.
 
Capitolo III
 
Il Diritto Canonico
 
“Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni … insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato”[24]. La Chiesa, in quanto custode della legge divina, attinge alla sua costituzione divina il diritto di stabilire i canoni (da kanon, regola), di giudicare e all’occorrenza di applicare le sanzioni: “Chi ascolta voi ascolta me; chi disprezza voi disprezza me”[25]. Fin dalle sue origini la Chiesa è cosciente della sua responsabilità nei riguardi dell’ordine storico, incarnato. Il Concilio di Gerusalemme regola le questioni relative ai cristiani di origine giudaica, San Paolo si occupa nelle sue epistole del modo di tenere le assemblee, delle qualità richieste ai vescovi, dell’uso dei carismi.
 
Per i primi tre secoli la Chiesa usa il diritto consuetudinario che si trova nella Didaché (fine del I secolo e inizio del II), la tradizione apostolica di Ippolito (inizio del III secolo), la Didascalia degli Apostoli (verso il 250), le Costituzioni apostoliche (verso il 380). Con il IV secolo la Chiesa entra nel tempo dei concili regolari. Numerose “Collezioni” contengono raccolte di canoni (per esempio la Collezione di Giovanni Scolastico nel 550). La “sinfonia” dei due poteri, quello della Chiesa e quello dello Stato, spiega perché sia presente il diritto ecclesiastico nelle Collezioni di diritto dell’Impero di Teodosio e di Giustiniano (il Digesto, le Novelle, ecc.). Più tardi appariranno le opere dei canonisti Balsamon, Zonaras, ecc.
 
L’ortodossia non possiede un codice unificato per tutte le Chiese, come ad esempio il Corpus juris canonici della Chiesa Romana. Esistono soltanto codici locali, il cui corpo risale al Medio Evo e che non sempre sono in accordo tra loro. Non è sempre facile stabilire, in mancanza di un lavoro di scienza critica, quali siano i canoni che conservano tuttora il loro valore e quelli che non sono più in funzione, caduti in disuso a causa delle mutate situazioni storiche; vi sono anche canoni “in sordina”, che attendono la loro applicazione (ad esempio quelli che regolano la convocazione dei concili). Anche se questo stato di cose presenta i suoi inconvenienti, l’unificazione delle forme canoniche presupporrebbe quel “monotipo” normativo delle Chiese locali che è estraneo allo spirito ortodosso. L’unità della fede e del culto può essere espressa in modi diversi nelle forme storiche locali.
 
Il canone e i dogmi

I dogmi rappresentano l’immutabile della rivelazione, i canoni ciò che è mobile nelle forme storiche; non bisogna mai confondere i due piani, che sono ben distinti; soprattutto non si devono mai dogmatizzare i canoni. Detto questo bisogna però mettere in evidenza il legame diretto che li pone in una funzionale reciprocità. I canoni sono l’espressione esteriore, visibile, storica e mobile dell’immutabilità dei dogmi. L’espressione e le forme esistenziali mutano secondo le circostanze e l’epoca storica in cui vive la cristianità; lo scopo dei canoni è quello di delimitare in base alle epoche l’esse dogmatico della Chiesa, aiutando così i fedeli ad incarnarlo nella loro esistenza. L’ordine canonico è dunque sempre in funzione dell’insegnamento dogmatico.
 
Nessuna forma istituzionale è però adeguata al dogma, ma costituisce soltanto un’approssimazione relativa alla verità, in funzione del suo tempo. Si comprende perciò l’impossibilità di dogmatizzare, di assolutizzare una forma canonica temporale e relativa; d’altra parte ogni modifica di un elemento divenuto “tradizione” deve essere giustificata da una migliore espressione della verità dogmatica. Pur senza tendere alla pienezza delle sue forme disciplinari, il diritto canonico realizza l’ordine carismatico nel modo più corretto possibile, nella situazione storica data, onde preservarlo da ogni deviazione che lederebbe l’esse immutabile della Chiesa. I canoni dunque, mediante la loro interpretazione dei dogmi, cercano, designano e regolano l’incarnazione dei medesimi nelle forme concrete dell’esistenza.
 
Se l’insieme dei canoni traccia in modo molto preciso la forma visibile della Chiesa locale, la “coscienza canonica”, un certo senso di ortodossia, vanno al di là dell’immediato e aspirano alla comunione nel dogma, mediante le nobili forme delle regole disciplinari, ma anche superandole. Questo è possibile appunto soltanto in funzione della stabilità e dell’immutabilità della “coscienza dogmatica”, che è una per tutte le Chiese. La coscienza canonica cercherà dunque non le forme storiche rivoluzionarie dell’epoca apostolica, ma lo spirito che le ha animate e che animerà ogni forma ed ogni epoca, in una perfetta identità con se stesso. Il dogma di Calcedonia sull’unità delle due nature, il suo teandrismo, si riflettono nella coscienza canonica e uniscono lo jus divinum e lo jus humanum nello jus ecclesiasticum; l’unità dogmatica garantisce la medesima fonte d’ispirazione attraverso il variare delle forme empiriche. I canoni coordinano l’esse metastorico della Chiesa e il suo corpo storico, partecipano alle verità dogmatiche e da questo livello indicano il “come” della loro applicazione al fine di salvaguardare la Chiesa da ogni deviazione eretica: cioè da ogni disaccordo con i dogmi.
 
Capitolo IV
 
La Bibbia
 
1. La lettura in Cristo: l’“a priori” ortodosso

Il modo migliore di definire la spiritualità ortodossa è affermare che essa è essenzialmente biblica: occorre però afferrare il senso ortodosso, ecclesiale di questo termine. I Padri della Chiesa vivevano della Bibbia, pensavano e parlavano mediante la Bibbia, con quella mirabile penetrazione che va fino all’identificazione del loro essere con la sostanza biblica stessa. L’esegesi pura, in quanto scienza autonoma, non esisteva al tempo dei Padri. Mettendosi alla loro scuola si comprende immediatamente che non si tratta di una scuola esegetica, storica o allegorica, secondo il metodo di Antiochia o quello di Alessandria: l’esegesi patristica rappresenta la gamma completa in cui ogni tendenza trova il suo legittimo posto.
 
Il fatto fondamentale di ogni lettura biblica è che la Parola letta e ascoltata conduce sempre alla Persona vivente del Verbo. Il Cristo non è limitato dal senso dialettico o catechetico, né da alcun altro senso delle sue parole. Tutti i nostri significati utilitari e pragmatici, tutto ciò che è curiosità e domanda, sono subordinati al fatto della rivelazione della più reale Presenza e della sua illuminazione. San Giovanni Crisostomo prega così dinanzi al libro santo: “Signore Gesù Cristo, apri gli occhi del mio cuore affinché comprenda e compia la tua volontà … illumina i miei occhi con la tua luce ... Tu solo, unica Luce”. E San Marco: “L’Evangelo è chiuso per gli sforzi umani, aprirlo è il dono di Cristo”. Sant’Efrem consiglia: “Prima di ogni lettura prega e supplica Iddio affinché egli ti si riveli”.
 
Si potrebbe dire che per i Padri la Bibbia è il Cristo, perché ciascuna delle sue parole ci conduce verso colui che le ha pronunciate e ci pone alla sua presenza: “Lui che io cerco nei tuoi libri”, dice Sant’Agostino[26]. L’aspirazione legittima a comprendere e a trovare le risposte si sottomette al “più grande” e si pone nella prospettiva sacramentale. Si consuma “eucaristicamente” la “parola misteriosamente spezzata”[27], in vista della comunione col Cristo. Provvidenzialmente il verbo conoscere nella Bibbia significa sia in ebraico che in greco “conoscere mediante comunione”, con un senso nuziale: il grande simbolo della conoscenza ultima di Dio è quello delle nozze dell’Agnello.
 
Il Vangelo di San Luca ci dice (24, 25) che il Cristo “apre l’intelligenza dei discepoli” mostrando loro come si deve leggere la Bibbia per scoprirvi “tutto ciò che è scritto di me” – “cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo riguardavano”[28], e rivelando che la Bibbia è l’icona verbale del Cristo. Da allora è sempre il medesimo dogma di Calcedonia, che, insegnando l’“a priori ortodosso del “teandrismo”, introduce alla giusta lettura delle Scritture.
 
Dio ha voluto che Cristo formasse il Corpo nel quale le sue parole vengono a risuonare in modo autentico, come parole di Vita: è dunque in Cristo, all’interno del suo Corpo, nella Chiesa, che si deve leggere la Bibbia e ascoltare Dio. Quando il fedele legge la Bibbia, l’“a priori li pone ambedue nella Chiesa ed è all’interno di questo atto di “ecclesiastificazione” che si compie il miracolo: un documento storico appare come il Libro Santo ricolmo di presenza. Il grado della mia ricettività è in funzione dell’approfondimento del mio luogo ontologico nel Corpo, della mia vita nella Chiesa che struttura “teandricamente” il mio spirito, per far comprendere che in ultima analisi quando si aprono le pagine della Bibbia è la Chiesa che le legge. La lettura della Bibbia, anche se da soli, è fatta insieme, liturgicamente. Dio ha voluto così, il vero soggetto della conoscenza non è l’uomo isolato, staccato dal Corpo, ma l’uomo in quanto membro, l’uomo liturgico.
 
2. La Bibbia e la Tradizione

All’epoca della Riforma si videro i suoi teologi opporre violentemente la Sacra Scrittura alla Tradizione, la parola divina alla parola umana. Abusi reali e un malinteso tragico per il cristianesimo occidentale hanno irrigidito elementi complementari in un’opposizione del tutto falsa. I libri biblici rappresentano in gran parte cronache della vita della Chiesa conservate dalla tradizione. Prima di essere consegnata nel canone neotestamentario, la parola di Cristo è stata ricevuta dalla comunità apostolica sotto forma di tradizione orale. Passato rapidamente in forma di tradizione scritta, il suo contenuto è in continuo aumento e condivide la sorte di ogni documento storico di testimonianza e di cronaca, alla mercé delle fluttuazioni cui soggiacciono le cose umane. Ora, “nessuno conosce le cose di Dio, se non lo Spirito di Dio”[29]. Egli non cessa di attestare e di testimoniare all’interno della Chiesa e ne fa la “colonna e base della verità”[30].
 
È la Chiesa “ricolma della Trinità” che sceglie e conserva della moltitudine degli scritti quelli che sono “ispirati”, vi mette il suggello dell’autenticità e se ne rende garante, rifiuta gli uni come apocrifi e definisce gli altri come deuterocanonici. La Bibbia è data alla Chiesa. È la Chiesa che la riceve fissando il suo canone; è lei che la porta nel suo grembo come “Parola di Verità”; non si può perciò portarla fuori della Chiesa senza rischiare di deformarla.
 
La testimonianza della Parola su se stessa non è un principio formale preso in se stesso e reso autonomo; questo principio rischia di essere falsato a causa della insufficienza umana: le sètte tutte “bibliche” lo dimostrano. Soltanto la “grazia colma ogni insufficienza” ed è per questo che la Chiesa dà la Bibbia agli uomini e presenta se stessa come l’“a priori fondamentale della sua lettura. Tutte le sètte, pur opponendosi alla Chiesa, ricevono nondimeno la Bibbia dalle mani della Chiesa insieme con la nozione di ispirazione dei testi sacri. Mettendo la Bibbia al di sopra della Chiesa si falsa l’atteggiamento normativo, la volontà del Signore che essa sia letta nella Chiesa[31].
 
La linfa delle meditazioni dei Padri, l’innografia liturgica, l’icona, la coscienza dogmatica e canonica, tutti questi elementi costitutivi della tradizione formano un mondo essenzialmente dinamico, una sfera vivente della risonanza della Parola, inseparabile dalla Parola stessa, il suo corollario vivente, il suo corpo edificato che proviene dalla medesima sorgente di ispirazione. Non si tratta di cercare risposte già pronte negli archivi del passato, ma di raggiungere le limpide sorgenti della tradizione, per entrare in possesso della grande esperienza della Chiesa e veder germogliare in sé l’istinto dell’ortodossia, che guiderà il cammino all’interno del consensus patrum e apostolicus della Chiesa; fino al momento in cui si comprende improvvisamente che attraverso le molteplici forme della Chiesa, attraverso tutti gli elementi della tradizione è Cristo stesso che commenta le sue parole.
 
Lo Spirito attesta, ma la testimonianza interiore dello Spirito Santo, l’epiclesi scritturale, si operano soltanto nella cattolicità del Corpo; lo Spirito riposa sull’umanità di Cristo divenuto Chiesa. La testimonianza interiore dello Spirito Santo poggia sull’ispirazione del testo sacro; non bisogna confondere questa testimonianza molto particolare con l’interpretazione del testo. La Chiesa è il Cristo totale, e questa realtà pone nel contesto sempre vivente del Cristo le parole che egli ha pronunciato durante la sua vita terrena. Dio ha parlato e continua a commentare le sue parole. Così la Bibbia, divinamente commentata, include nella sua pienezza la tradizione come suo corollario vivente, come la sua interpretazione sempre in cammino. La tradizione rende testimonianza alle Scritture, e queste fanno parte della tradizione, tuttavia la Bibbia rimane la sorgente prima della fede, con valore assoluto di primato e di autorità.
 
“Il Vangelo eterno”[32] è il riferimento ineguagliabile ad ogni altra forma, ed è il criterio della verità. Ogni tradizione e dogma devono sempre essere in accordo con le Scritture. A parte il campo molto preciso e ristretto dei dogmi, la tradizione non possiede alcun criterio formale o organo esteriore che avrebbe il potere di codificare una lettura normativa del testo. Dall’interno della sua stessa vita essa conduce all’evidenza di ciò che è ortodosso o eterodosso. Si possono tuttavia rilevare alcune indicazioni preliminari ad ogni lettura sacra.
 
1) Ogni passo deve essere letto nel contesto di un dato libro, poi in quello della Bibbia e in quello della Chiesa; ogni elemento deve essere commentato alla luce del suo intero. I paralleli aiutano ad afferrare il tono particolare della pericope. L’impiego liturgico apporta precisazioni preziose, mettendo il testo letto in relazione con il tempo celebrato e con il suo commentario innografico (così ad esempio 1Cor. 10, 1-4 viene letto il giorno dell’Epifania, la fine del Vangelo di Matteo al momento del sacramento dell’unzione, ecc.). La lettura liturgica prende valore dall’avvenimento riferito e diviene il suo “avvenimento” presente.
 
2) Vi è un solo criterio immutabile: tutto ciò che contraddice la verità dogmatica deve venire messo da parte. Ad esempio le ipotesi sui figliuoli di Maria contraddicono il dogma della sua eterna verginità. Tra le ipotesi si deve scegliere quella che è in accordo con la verità dogmatica, perché questa rappresenta il significato infallibile dei testi biblici più importanti, dati alla Chiesa da Dio stesso. La comprensione di Giovanni (14, 28) nel senso della subordinazione è condannata dal dogma dell’eguaglianza delle Persone divine. Il concetto di “Figlio di Dio” come “figliuolo di Dio” nel senso della filiazione universale è in conflitto con il dogma del Monogenito. Chi non crede alla risurrezione di Cristo come è vissuta nella Chiesa e proclamata nel Credo non potrà mai leggere correttamente le Scritture.
 
3) Nelle precisazioni storiche, nella forma umana delle Scritture (lingua, epoca, luogo e ambiente, immagine e simbolismo) si richiede invece la più grande libertà, utilizzando tutte le scoperte della scienza oggettiva. Il problema dell’autenticità di certi testi, la loro origine e l’attribuzione degli scritti all’uno o all’altro autore (Mosè, Isaia, Epistola agli Ebrei) non presenta alcuna difficoltà. I testi che probabilmente non appartengono alla redazione primitiva[33], sono accettati come varianti del testo originale, santificate dal loro uso liturgico.
 
Attraverso questi testi Dio ha parlato. Come le varianti dei testi, anche i modi di comprenderli e di commentarli dimostrano che la ricchezza del contenuto supera ogni intendimento umano monotipo. Sebbene tutta la Scrittura sia divinamente ispirata [34], l’importanza dottrinale di certi passi se ne sprigiona soltanto attraverso le definizioni dogmatiche della Chiesa. Tutti i tentativi di scrivere una Vita di Gesù vengono a trovarsi dinanzi a un residuo irriducibile all’umano; tutte le costruzioni “scientifiche” dell’essenza del Cristianesimo cadono nell’arbitrario delle scelte soggettive prive di autorità apostolica.
 
4) I racconti biblici si pongono chiaramente in una duplice prospettiva: quella storica e quella metastorica. Ogni fatto narrato ha avuto il suo luogo e il suo momento, e al tempo stesso è sintomo di un’ampiezza metafisica che supera lo storico puro. Vi sono passi che denotano chiaramente una struttura “mitologica” indispensabile e voluta tale (per esempio il racconto della creazione e della caduta situati in un tempo diverso dalla storia attuale. Adamo ha valore di archetipo, precede la durata temporale e con ciò la impone a tutti). La comunione liturgica di preghiera con Adamo o con Lazzaro non permette di ridurre la loro persona a puro simbolo; l’interpretazione liturgica, nella celebrazione della loro festa, indica in Adamo l’uomo universale, Adamo Primo o Adamo Kadmon, e in Lazzaro l’anticipazione profetica della risurrezione. Per i Padri, l’Antico Testamento era storia nel senso più concreto, ed era al tempo stesso la prefigurazione di Cristo, la tipologia della salvezza. Un quadro religioso disegna una realtà storica in modo molto realistico, l’icona rivela invece la sua profondità silenziosa, il suo volto metafisico. Nell'ortodossia la lettura biblica cerca l’equilibrio mai spezzato tra le due prospettive: partendo dal quadro contempla l’icona.
 
3. Il problema dell’ispirazione delle Scritture

Le Scritture medesime affermano chiaramente la loro ispirazione divina: “Ogni Scrittura è ispirata da Dio”[35] – “degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo”[36], ma non è una nozione facile. La registrazione automatica di un dettato, la teopneustia di ogni lettera fa degli autori scrivani passivi. Il medesimo automatismo, in forma più attenuata, si riscontra nella nozione causale: Dio è il solo autore - causa principalis - causa prima, e l’uomo - causa instrumentalis - causa seconda; nell'infinito delle causalità che si moltiplicano, la vera partecipazione umana è attenuata. Il sinergismo orientale offre invece una soluzione di reciprocità, che salvaguarda la libertà dell’uomo, la sua dignità di figlio che si rivolge al Padre.
 
San Basilio dice chiaramente che lo Spirito non priva mai della ragione colui che ispira: un tale effetto sarebbe demoniaco. L’umano rimane inviolato in ciò che gli è proprio, ma viene arricchito, ispirato, orientato dall’ispirazione dello Spirito. Ogni libro della Bibbia porta indubbiamente il marchio del genio umano proprio a ciascun autore. I Padri sottolineano fortemente (una volta terminato il compito eccessivamente semplicistico degli apologisti del II secolo) il carattere umano degli autori.
 
Quando l’uomo ascolta la Parola di Dio non è passivo, ma vi è sempre da parte sua una reazione attiva, creatrice nella sua stessa ricettività. Gli autori dei libri sacri sono certo autori profeti, la loro opera risale alla captazione intuitiva del messaggio e dipende dall'ispirazione carismatica, ma questa, fedele al suo principio, salvaguarda pienamente tutta la realtà umana non violandola mai. Ogni profeta riceve la sua missione di trasmettere la parola ricevuta alla comunità ecclesiale; le interpretazioni patristiche e liturgiche dimostrano che la rivelazione, pur essendo stata data una volta per tutte, non è però mai limitata nella ricchezza del suo contenuto e passa attraverso la ricettività creatrice della Chiesa.
 
Le Scritture sono la forma umana della parola divina e nella loro unità si rivelano come teandriche. La Parola di Dio e la parola umana, è un’espressione della separazione nestoriana; la Parola di Dio soltanto o la parola umana soltanto, è espressione del monofisismo eretico. La Bibbia è la parola divino-umana. L’uomo non diviene un medium, non vi è posto per l’automatismo spirituale. Accanto alla purezza assoluta dei passi dogmatici e all'ispirazione generale di tutti i testi vi è legittimamente posto per le preoccupazioni umane, vi è il “prisma” umano, e questo giustifica tutto il lavoro scientifico compiuto sui testi e l’evoluzione storica di questa ricerca.
 
Si può anche parlare dell’ispirazione delle letture. La Bibbia si rivolge anzitutto al cuore, organo della sapienza: “O tardi di cuore nel credere alle parole dei profeti!”[37]. Il cuore include l’aspetto intellettuale, ma lo supera, e ciò permette ad ogni nuova lettura di scoprire un nuovo livello di profondità. Così l’interpretazione tipologica dell’Antico Testamento alla luce del Nuovo toglie il velo e reca una visione ciclica del cammino anagogico degli eventi. Parimenti il battezzato passa attraverso tutta la curva figurativa della salvezza e vive realmente la totalità degli eventi biblici riprodotti nella sua esistenza. A questo modo di essere, ispirato dalla vita sacramentale, fa anche riferimento la parola del Signore: “Chi ha orecchi per intendere, intenda!”.
 
“In dubiis libertas”

La libertà illimitata è una nozione assurda, l’“oggettività scientifica” non è che un mito. Ogni sapiente è un essere vivente animato da passioni, la cui ragione segue le simpatie del cuore, e ogni scienza ha le sue preferenze e i suoi pregiudizi. La teologia è il vertice di tutte le scienze e possiede anch’essa le sue premesse. La fedeltà senza riserve ai dogmi e il suo accordo con la libertà della ricerca teologica costituiscono tuttavia una norma metodologica fondamentale; essa traccia il limite che preserva da ogni idolatria dell’umano e da ogni automatismo del divino.
 
I Padri affermano che la Verità si rivela progressivamente: “occorreva che la luce trisolare illuminasse per anagogie graduali”[38]. In questo progredire la Chiesa si riserva un giudizio molto sfumato, che dimostra come i gradi di elevazione verso l’assoluto formino tutta una gamma di successivi accostamenti, ciò che preserva dall'idolatria delle forme approssimative. Il consensus patrum della tradizione rimane la guida sicura, le opere dei Padri contengono tuttavia passi chiaramente manchevoli e vi sono nella tradizione elementi di turbamento.
 
Secondo il pensiero profondo di Padre Bulgakov èil dogma che postula la libertà del pensiero teologico. Infatti, quando il dogma passa nella nostra carne e nel nostro sangue, lavora lo spirito umano per comprendere i compiti del secolo alla sua luce, e questo presuppone una immensa libertà creatrice dello spirito. I concili hanno lasciato in eredità la loro problematica e postulano una continuazione organica della riflessione. La teologia è chiamata a rispondere ad una folla di domande rimaste senza risposta o a questioni che sorgono soltanto per il nostro tempo. L’ortodossia è però refrattaria alle definizioni dogmatiche non assolutamente necessarie. Il minimo di dogmi e il massimo di opinioni - theologumena: in dubiis libertas rimane la sua regola d’oro.
 
La nozione dell’infallibilità dei Padri e di tutti gli elementi della tradizione proviene da una concezione rabbinica o dall’ignoranza dell’esatta situazione. Il neoplatonismo presente in San Gregorio Nisseno o nel corpus aeropagiticum, l’accusa di messalianismo in San Macario l’Egiziano, l’origenismo di Evagrio, certi elementi equivoci negli scritti di Sant’Isacco Siriaco e di Sant’Efrem, l’ascetismo inquietante nella sua esagerata accentuazione presente in numerose opere di grandi spirituali e in numerosi passi della Filocalia, l’aristotelismo di San Giovanni Damasceno, ecc. dimostrano che non è operabile nessuna dogmatizzazione, neppure delle autorità maggiori.
 
La scoperta dei Padri non deve scadere in una teologia “neopatristica”, che verrebbe a sostituire semplicemente una teologia neo-scolastica. Di fronte ai Gentili San Paolo ha dovuto “inventare”: insieme con le parole dei Padri occorre scoprire anche il loro atteggiamento creatore, imparare i gesti della Chiesa che ci trasmette il suo tesoro sempre nuovo. Lo studio approfondito del pensiero dei Padri, una certa identificazione alla loro esperienza, alla loro cattolicità, sono però la conditio sine qua non per ogni teologia attuale: un ritorno alle fonti nel passato, ma anche e soprattutto in avanti, nell’escatologia; come diceva San Gregorio Nisseno “ci si ricorda di ciò che viene”.
 
Accanto ai dogmi la Chiesa contiene alcuni “fatti di natura dogmatica, ai quali non dà tuttavia l’armatura dogmatica delle definizioni conciliari; sono soprattutto i fatti che dipendono dalla lex orandi (culto della Vergine, dei Santi, dottrina dei sacramenti, dell’escatologia, ecc.) inseparabili dal corpo dell’ortodossia. La teologia non sente oggi alcun bisogno di giustificazione. Lo scientismo, lo scetticismo, senza parlare dell’impossibile materialismo, non possono dire nulla all’uomo di oggi. Tutti gli ostacoli vengono spazzati via dalla marcia regale della teologia (tranne forse quello degli “integristi” del suo stesso ambiente e del loro tremendo oscurantismo). È l’offerta più splendida dei figli di Dio al loro Creatore, nella coscienza della loro libertà: cantare la sua lode e servire la sua Gloria. In questo ministero la teologia è ben di più la preghiera della Chiesa, che essa ha sempre coltivato con predilezione: “teologo è colui che sa pregare”.
 
La Tradizione

La rivelazione si chiude con l’era apostolica; Dio non aggiunge nulla al contenuto oggettivo della sua parola. Ma il giorno di Pentecoste comincia il tempo della Chiesa: ciò postula una trasmissione, una tradizione. La Chiesa non trasmette documenti da tenere in archivio ma la Parola vivente e sempre attuale: Dio stesso continua a farla e a rivolgerla agli uomini, in ogni tempo. La tradizione è dunque la coscienza della Chiesa di essere il luogo vivente della Parola operante, senza mai esaurire ciò che essa porta in sé di vita e di forme di espressione.
 
Già San Paolo sottolinea tutta l’importanza della paradosis: “Così dunque, fratelli, state saldi e ritenete gli insegnamenti che vi abbiamo trasmessi sia con la parola, sia con una nostra epistola”[39] - essa assicura la continuità sia in forma orale che scritta. Il grande teologo della tradizione è Sant’Ireneo, per il quale essa è “la parola che parla”; il primato rimane alla Scrittura, ma questa rimanda continuamente alla tradizione - sfera vivente in cui deve essere ascoltata. La continuità dell’amore e della fedeltà diviene la continuità dell’interpretazione e del discernimento: la Chiesa appare come un concilio perpetuo - disperso nello spazio e nel tempo, ma sempre attualmente convocato sempre in atto di esprimere la Verità vissuta nella sua tradizione.
 
Prende qui tutto il suo valore il pensiero di Sant’Ireneo sull’unanimità della dottrina e del culto. La Chiesa, benché disseminata nel mondo intero, conserva la predicazione apostolica “come se abitasse in un’unica casa, avesse un’anima sola ... e una sola bocca”[40]. La tradizione degli Apostoli secondo lui è visibile “in ogni Chiesa”. Così la bella definizione degli Atti fatta dal Concilio di Costantinopoli del 553 dichiara: “Noi confessiamo di ritenere e di predicare la fede che fu data fin dal principio dal nostro grande Iddio e Salvatore Gesù Cristo ai Santi Apostoli, e che fu da essi predicata nel mondo intero. È questa la fede che hanno confessato, esposto e trasmesso alle Chiese i Santi Padri, e noi li seguiamo in ogni cosa”.
 
Ciò che si professa e si trasmette risale a Cristo e porta il marchio dell’origine divina: ogni elemento della fede si riferisce e si fonda perciò sulla Scrittura. È essa che dà i semi, i quali germogliano poi nella tradizione. Per comprendere e interpretare correttamente le “parole ispirate” occorre possedere l’identica ispirazione dello Spirito Santo, ed è questo il compito che spetta alla Chiesa - Tradizione vivente. Il passato ecclesiale non uccide mai il presente, ma lo ispira a progredire attenendosi al contesto della tradizione e alla sua norma interiore: l’accordo della cattolicità nel medesimo Signore e nel medesimo Spirito.
 
Paradossalmente - grazie al Testimonio che rimane - la tradizione concorda con il futuro che sta nel passato. “Lo Spirito ha parlato per mezzo dei profeti” e in questa dimensione profetica della Chiesa esso attinge indietro, in Cristo, ciò che annunzia in avanti[41]. Questo spiega subito che non esiste un criterio normale della tradizione. Il Vangelo proclama, in mezzo e di mezzo al mondo, l’eone del secolo futuro e la Chiesa, attestando il passato messianico di Cristo, testimonia già della presenza del suo Regno. Essa annunzia e giudica, ma il suo compito è quello di convertire, il campo della sua missione sono il mondo intero e la storia nella sua totalità.
 
Essa dispone della dottrina, ma anche dei principi di Vita; l’eucarestia, e i sacramenti. Lo Spirito di Vita è in questa prospettiva lo Spirito di Trasmissione. Con il “passaggio al Padre” Cristo ha terminato la sua missione, e tuttavia egli riafferma “io verrò e parlerò”[42]. Il Cristo non è assente dal suo Corpo che si edifica, ma il modo della sua presenza è diverso: egli ritorna ed è presente nello Spirito Santo. Per Nicola Cabasilas “i sacramenti: ecco la via … la porta che egli ha aperto ... egli ritorna agli uomini passando per questa via e per questa porta”[43]. Cristo ritorna nei sacramenti, è la presenza sacramentale sospesa all’epiclesi. Allo stesso modo, la continuità di Cristo nella missione degli apostoli e della Chiesa dipende dalla venuta del Paraclito.
 
Lo Spirito rende testimonianza, “ricorda” tutto ciò che Cristo ha detto, compie e perfeziona la sua missione attuando negli uomini l’umanità di Cristo, cristificandoli. Durante la sua vita terrena è Cristo che opera e lo Spirito è all’interno dei suoi atti. Ora è lo Spirito che opera per rivelare il Cristo all’interno delle sue operazioni. Il tempo della Chiesa è il tempo dello Spirito e si pone tra le due parusie del Signore. La Chiesa è costituita sul Cristo storico, nei suoi acta et passa in carne, e se “lo Spirito non era ancora stato dato, perché Gesù non era ancora stato glorificato”[44], è perché il “suo invio” è in relazione di origine con l’immolazione dell’Agnello.
 
Mons. Cassiens pone la Pentecoste giovannica nel giorno di Pasqua, sottolineando il vincolo che lega la Pentecoste al Cristo storico (rappresentato meravigliosamente a Vézelay). Così, nella celebrazione delle feste, Pasqua e Pentecoste rappresentano un solo tempo liturgico, che si apre sulla Pasqua parusiaca delle nozze dell’Agnello e unisce il Cristo storico al Cristo di gloria. Lo Spirito, attraverso il tempo della Chiesa, “plenifica”[45] il Cristo: “Il capo sarà compiuto soltanto quando il corpo sarà reso perfetto, quando saremo tutti uniti e legati insieme”, spiega San Giovanni Crisostomo. La Chiesa è veramente l’estensione e la pienezza del Cristo incarnato.
 
Al “dato” di Cristo si aggiunge “l’attuato” degli uomini operato dallo Spirito: esso ricolmò i testimoni e stabili i vescovi; per loro testimonianza, i Padri dei concili si riuniscono con lo Spirito Santo, che presiede e li illumina; tutto nella Chiesa è carismatico, nella molteplicità dei ministeri e dei doni, poiché lo Spirito opera nell’epiclesi dei sacramenti, in quella della nostra cristificazione e della nostra adozione da parte del Padre. Gli Atti degli Apostoli, Atti della Chiesa sino alla fine del mondo, costituiscono il Vangelo dello Spirito Santo. Accanto alle forme istituzionali e gerarchiche che costituiscono il Corpo, vi sono le operazioni dell’“evento” (San Paolo, “Apostolo per effrazione”, per evento, omologato nondimeno dal collegio apostolico); accanto alla mediazione regolare vi è quella imprevedibile della santità e della vita mistica, in cui la grazia non è organizzabile; accanto alla teologia dogmatica vi è la teologia vissuta della tradizione; accanto alla struttura vi è la vita.
 
In questa totalità dell’economia in cui si realizza il Cristo totale, il tempo dello Spirito è il tempo della tradizione, con la qualificazione essenziale di essere apostolica e aperta alla Parusia. La dottrina concorda con l’Eucaristia, ma l’Eucaristia è già l’eone futuro e per questa sua pienezza essa è il criterio della tradizione; essa giudica ogni stato sclerotizzato, “rabbinico”, ogni insediamento nella storia, ed essa ispira, operando l’apertura della storia e mettendo in movimento il suo cammino verso l’eschaton.
 
Il tempo dell’incarnazione si attualizza nell’Eucaristia, la continuità del Cristo storico si proietta già nella gloria della sua venuta. Accanto alle “tradizioni” più o meno umane vi è la Tradizione, la trasmissione della Presenza di Cristo, “piena della Trinità”: è qui l’Unico nella molteplicità delle sue forme. La rivelazione data una volta per tutte è data di nuovo ad ogni momento della storia dalla Chiesa, la continuità ininterrotta di un atto unico viene così assicurata dalla Paradosis. Anche al di fuori dei concili riuniti, l’epiclesi della conciliarità è in funzione permanente, epiclesi della tradizione, della vita interrotta della Chiesa. Alcuni elementi sono già normativi (il dogma, il culto), altri si collocano nella prospettiva della riflessione e del passaggio attraverso la ricezione. Il Corpo dei fedeli procede incessantemente nel manifestare il suo accordo e nel testimoniare della loro apostolicità, al momento voluto dallo Spirito.
 
[1] At. 16, 4
[2] Sant’Ignazio, Lettera ai Magnesii, XIII
[3] 1Tim. 3, 14
[4] Tt. 3, 11
[5] La “via della negazione” del pensiero teologico. Il Dio vivente nella sua esistenza personale trascende ogni concetto umano, quindi l’apofasi rifiuta tutte le immagini ed i concetti per suggerire, attraverso la via della negazione, la pienezza inconoscibile della Trinità.
[6] Es. 33, 20
[7] Is. 55, 8-9
[8] 1Cor. 1, 25
[9] Dionigi, Div. Nom., 13
[10] Gal. 2, 20
[11] San Simeone il Nuovo Teologo
[12] San Gregorio Sinaita
[13] San Macario
[14] San Dionigi
[15] San Clemente Alessandrino
[16] San Giovanni Damasceno
[17] Common., I, 22
[18] I Riformatori rimproverano ai simboli di non contenere la “giustificazione per fede”!
[19] 1Cor. 8, 6
[20] Secondo il Concilio latino di Lione del 1274 non vi è che una sola corrente di grazia, quella di Cristo, il cui Spirito è lo Spirito Santo. Per l’Oriente la grazie del Figlio ci fa accedere allo Spirito Santo e alle energie deificanti che provengono dalla Santa Trinità. L’Ortodossia è profondamente triadocentrica.
[21] Sacerdote di Alessandria. Ario insegnava che il Verbo, estraneo alla sostanza del Padre, è strato tratto da lui nel tempo, quindi è a lui inferiore.
[22] Vedere: Lo Spirito Santo di San Basilio, i cinque Discorsi teologici di San Gregorio di Nazianzo e il Discorso catechetico di San Gregorio di Nissa
[23] Sant’Ireneo di Lione chiama il Figlio e lo Spirito “ le due mani di Dio” (Adv. haeres., IV)
[24] Mt. 28, 20
[25] Lc. 10, 16
[26] Confessioni, II, 2
[27] Origene
[28] Lc. 24, 27 e 32
[29] 1Cor. 2, 11
[30] 1Tim. 3, 15
[31] Se non si legge la Bibbia nella Chiesa si trae fatalmente dalla Bibbia una nozione esteriore della Chiesa.
[32] Ap. 14, 6
[33] Per esempio: Mc. 16, 9-20; Gv. 7, 53-8, 11; 1Gv. 5, 7
[34] 2Tim. 3, 16
[35] 2Tim. 3, 15-17
[36] 2Pt. 1, 20-21
[37] Lc. 24, 25
[38] San Gregorio di Nazianzo, Orazione XXXI, 25, 26
[39] 2Ts. 2, 15; 1Tt. 4, 2
[40] Adv. haeres., 1, 3
[41] Gv. 16, 15
[42] Gv. 17, 4; Mt. 16, 18
[43] “La vita in Cristo”, libro I
[44] Gv. 7, 39
[45] Ef. 1, 23

Nessun commento:

Posta un commento