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martedì 5 luglio 2016

La Potenza del Nome

La preghiera di Gesù nella spiritualità ortodossa

dell’Archimandrita Kallistos Ware, oggi vescovo di Diokleia

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Preghiera e silenzio

“Quando preghi”, ha detto saggiamente uno scrittore ortodosso che abita in Finlandia, “devi fare silenzio... Devi far tacere il tuo ‘io’; lascia che parli la preghiera”. Raggiungere il silenzio: questo è quanto di più difficile e di più decisivo si debba fare per apprendere l’arte della preghiera. Il silenzio non è semplicemente cosa negativa - una pausa tra le parole, un’interruzione temporanea del discorso - ma, inteso in modo retto, è estremamente positivo: un atteggiamento di premurosa attenzione, di vigilanza e soprattutto di ascolto. L’esicasta, l’uomo che ha raggiunto la hésychya, quiete intima o silenzio, è per eccellenza una persona che ascolta: ascolta la voce della preghiera nel suo cuore e comprende che questa voce non è sua ma di un Altro che parla dentro di lui. La relazione tra preghiera e osservanza del silenzio diverrà più chiara se consideriamo quattro brevi definizioni. La prima è del Concise Oxford Dictionary, che definisce la preghiera come “una richiesta solenne a Dio... una formula usata quando si prega”. La preghiera è intesa qui come un qualcosa espresso in parole e, più specificamente, come un atto di domanda a Dio per ottenere qualche beneficio. Siamo indubbiamente al livello della preghiera esterna piuttosto che interna. Pochi di noi restano soddisfatti di tale definizione.

La seconda definizione, presa da uno starets russo del secolo scorso, è molto meno esteriore. “Quando si prega”, dice il vescovo Teofane il Recluso (1815 - 94), “la cosa principale è stare davanti a Dio con la mente nel cuore, e continuare a stare davanti a lui incessantemente giorno e notte, fino alla fine della vita”. La preghiera intesa in questo modo non è più soltanto chiedere qualcosa, e di fatto può esistere senza l’impiego di alcuna parola. Non è tanto attività di un momento, ma un atteggiamento prolungato. Pregare è stare davanti a Dio, entrare in un rapporto immediato e personale con lui; è conoscere ad ogni livello del nostro essere, dall’istintivo all’intellettuale, dall’inconscio al perfettamente conscio, che noi siamo in Dio e lui è in noi. Per confermare e approfondire la nostra relazione personale con gli altri esseri umani, non è necessario presentare continuamente domande o dire parole. Più noi ci conosciamo e ci amiamo l’un l’altro, meno bisogno abbiamo di esprimere a parole il nostro atteggiamento reciproco. Avviene la stessa cosa nella nostra relazione personale con Dio.

In queste prime due definizioni l’accento è posto principalmente su ciò che è fatto dall’uomo piuttosto che da Dio. Ma nella relazione personale di preghiera è il partner divino, non quello umano, che prende l’iniziativa e la cui azione è fondamentale. Questo emerge dalla terza definizione, presa da san Gregorio il Sinaita (m. 1346). In un brano assai complesso, in cui affastella un aggettivo sopra l’altro nello sforzo di descrivere la vera realtà della preghiera interiore, egli improvvisamente termina con una semplicità inaspettata: “Perché parlare a lungo? La preghiera è Dio, il quale opera tutte le cose in tutti gli uomini”. La preghiera è Dio: non è qualcosa di cui io assumo l’iniziativa, ma cosa alla quale io partecipo; non è principalmente qualcosa che io faccio, ma cosa che Dio sta compiendo in me, secondo l’espressione di san Paolo: “Non io, ma Cristo in me”[1]. La via della preghiera interiore è indicata perfettamente nelle parole di san Giovanni Battista riguardo al Messia: “È necessario che egli cresca e io diminuisca”[2]. È in questo senso che pregare significa fare silenzio. “Tu devi tacere; lascia che parli la preghiera”: più precisamente, lascia che parli Dio. La vera preghiera interiore è smettere di parlare e ascoltare l’ineffabile voce di Dio dentro il nostro cuore; è smettere di fare le cose per conto nostro ed entrare nell’azione di Dio.

All’inizio della liturgia bizantina, quando la preparazione preliminare è completata e tutto è pronto per iniziare l’eucaristia, il diacono si avvicina al sacerdote e dice: “È tempo per il Signore di agire”. Tale è esattamente l’atteggiamento dell’adoratore non solo nella liturgia eucaristica ma in tutta la preghiera, pubblica o privata. La quarta definizione, presa ancora una volta da san Gregorio il Sinaita, indica in modo più preciso il carattere di questa azione del Signore dentro di noi. “La preghiera - egli dice - è la manifestazione del battesimo”. L’azione del Signore, non è limitata, naturalmente, solo ai battezzati; Dio è presente e operante nell’intimo di tutti gli uomini, in virtù del fatto che ciascuno è creato secondo la sua divina immagine.

Questa immagine però è stata oscurata e offuscata, anche se non cancellata totalmente, dalla caduta dell’uomo nel peccato. Essa è restituita alla sua primitiva bellezza e splendore attraverso il sacramento del battesimo, per mezzo del quale Cristo e lo Spirito Santo vengono a dimorare in quella che i padri chiamano “la cella più intima e segreta del nostro cuore”. Per la stragrande maggioranza, tuttavia, il battesimo è un qualcosa ricevuto nell’infanzia, del quale non si ha una memoria consapevole. Sebbene il Cristo del battesimo e lo Spirito Santo, il Paraclito, intimo ospite non cessino neppure un istante di operare dentro di noi, la maggior parte di noi, salvo rare occasioni, rimane praticamente ignara di quest’intima presenza e attività. La vera preghiera, allora, significa riscoperta e “manifestazione” di questa grazia battesimale. Pregare è passare da uno stato in cui la grazia è presente nei nostri cuori segretamente e inconsapevolmente, al grado d’una piena percezione interiore e totale consapevolezza, nel quale sperimentiamo e sentiamo l’attività dello Spirito direttamente e immediatamente.

Secondo le parole di san Callisto e sant’Ignazio Xanthopoulos (XIV secolo), “lo scopo della vita cristiana è il ritorno alla grazia perfetta dello Spirito Santo datore di vita, grazia che ci viene conferita all’inizio dell’esistenza nel santo battesimo”. “Nel mio inizio è il mio fine”. Lo scopo della preghiera può essere riassunto nell’espressione: “Divieni quello che sei”. Divieni, consapevolmente e attivamente, quello che tu già sei potenzialmente e segretamente in virtù della tua creazione secondo l’immagine divina e della tua ricreazione nel battesimo. Divieni quello che sei: più esattamente, ritorna in te stesso; scopri Colui che è già tuo; presta ascolto a lui che non cessa mai di parlare nel tuo intimo; possiedi lui, il quale già da ora possiede te. Tale è il messaggio di Dio a tutti coloro che desiderano pregare: “Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”.

Ma come dobbiamo iniziare? Come dobbiamo, una volta entrati nella nostra camera e chiusa la porta, cominciare a pregare, non soltanto ripetendo parole prese da un libro, ma offrendo preghiera intima, la preghiera viva del silenzio creativo? Come dobbiamo imparare a smettere di parlare e a cominciare a stare in ascolto? Invece di parlare semplicemente a Dio, come possiamo fare nostra la preghiera nella quale Dio parla a noi? Come possiamo passare dalla preghiera espressa in parole alla preghiera silenziosa, dalla preghiera “attiva” a quella “automatica” (per usare la terminologia del vescovo Teofane), dalla “mia” preghiera alla preghiera di “Cristo in me”? La via per intraprendere questo viaggio verso il nostro intimo passa attraverso l’invocazione del Nome.

“Signore Gesù...”

Non è, naturalmente, l’unica via. Non può esistere un rapporto autentico tra persone senza una vicendevole familiarità e spontaneità; ciò è vero specialmente per la preghiera interiore. Non vi sono regole fisse e invariabili, imposte necessariamente a tutti coloro che cercano di pregare; allo stesso modo, non vi è una tecnica meccanica, sia fisica sia mentale, che costringa Dio a manifestare la sua presenza. La sua grazia è sempre conferita come dono gratuito e non può essere ottenuta meccanicamente con alcun metodo o tecnica. L’incontro tra Dio e l’uomo nel regno del cuore è perciò caratterizzato da una varietà infinita di modelli.

Nella Chiesa ortodossa vi sono dei maestri di vita spirituale che dicono poco o nulla sulla preghiera di Gesù. Ma anche se non gode del monopolio esclusivo nel campo della preghiera interiore, la preghiera di Gesù è divenuta per innumerevoli cristiani d’Oriente, attraverso i secoli, la via maestra, la strada regale. E non soltanto per i cristiani d’Oriente. Nell’incontro tra l’Ortodossia e l’Occidente che si sta realizzando in quest’ultimo ottantennio, probabilmente nessun elemento nell’eredità dell’Ortodossia ha suscitato un così profondo interesse come la preghiera di Gesù, e nessun altro libro ha esercitato un’attrattiva più vasta dei Racconti di un pellegrino russo. Quest’opera enigmatica, praticamente sconosciuta in Russia prima della rivoluzione, ha avuto un successo sorprendente nel mondo non ortodosso e dal 1920 è stata pubblicata in un numero considerevole di lingue. Donde mai - ci chiediamo - ha origine l’attrattiva particolare e l’efficacia della preghiera di Gesù? Forse soprattutto in quattro elementi:

- nella sua semplicità e flessibilità; 

- nella sua completezza; 

- nella potenza del Nome;
 
- nella disciplina spirituale di una persistente ripetizione.

Esaminiamo per ordine questi quattro punti.

Semplicità e flessibilità

L’invocazione del Nome è una preghiera di estrema facilità, accessibile a tutti i cristiani, ma nello stesso tempo porta ai più profondi misteri di contemplazione. Chi si propone di dire la preghiera di Gesù per spazi abbondanti di tempo ogni giorno - e, ancor più, chi intende usare il controllo del respiro e altri esercizi fisici in connessione con la preghiera - senza dubbio ha bisogno di uno starets, di una guida spirituale sperimentata. Ai nostri giorni tali guide sono rare. Ma coloro che non hanno contatto personale con uno starets possono senz’altro applicarsi alla preghiera senza timore, quando sostengano tale esercizio solo per periodi limitati - all’inizio non superiore ai dieci o quindici minuti per volta - senza fare alcun tentativo per ostacolare i ritmi naturali del corpo.

Non è richiesta una conoscenza specializzata o un esercizio particolare prima di iniziare la preghiera di Gesù. A chi inizia è sufficiente dire: Inizia con semplicità! “Per camminare, bisogna muovere un primo passo; per nuotare, bisogna buttarsi in acqua. È la stessa cosa con l’invocazione del Nome. Incomincia a pronunciarlo con sentimenti di adorazione e di amore. Sii fedele a questo esercizio. Ripetilo. Non pensare che tu stai invocando il Nome; pensa solo allo stesso Gesù. Pronuncia il suo nome adagio, sottovoce e con calma”. La forma esteriore della preghiera è facilmente imparata. Fondamentalmente consiste nelle seguenti parole: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me”. Tuttavia, non c’è stretta uniformità. La formula verbale può essere abbreviata; possiamo dire: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”, oppure, “Signore Gesù”, o semplicemente “Gesù”, anche se quest’ultima forma è meno comune. Di tempo in tempo la formula delle parole può essere ampliata con l’aggiunta “di me peccatore” allo scopo di sottolineare l’aspetto penitenziale. Possiamo dire, richiamando la confessione di Pietro sulla strada di Cesarea di Filippo: “... Figlio del Dio vivente...”. Qualche volta si può inserire un’invocazione alla Madre di Dio o ai santi.

Il solo elemento essenziale e invariabile è l’inclusione del nome divino “Gesù”. Ognuno è libero di scoprire, attraverso la propria esperienza personale, la formula particolare delle parole che risponde nel modo più adatto alle sue necessità. Si può naturalmente variare qualche volta la formula precisa che viene usata, purché tale cambiamento con avvenga troppo spesso; infatti, come ammonisce san Gregorio il Sinaita, “gli alberi che vengono trapiantati ripetutamente non mettono radici”.

Vi è un’analoga flessibilità anche riguardo alle circostanze esterne nelle quali la preghiera viene recitata. Si possono distinguere due modi nell’uso della preghiera: il modo “libero” e il modo “formale”. Per modo “libero” si intende la recita della preghiera mentre siamo impegnati nelle nostre attività abituali lungo tutta la giornata. Può essere recitata, una o più volte, nei momenti sparsi che in altro modo sarebbero spiritualmente sciupati: quando si è impegnati in alcuni lavori abituali e semiautomatici, come vestirsi, lavarsi o ripulire il giardino; quando si cammina o si guida l’auto; quando si è in attesa del’autobus o bloccati per il traffico; in un momento di calma prima di qualche incontro particolarmente doloroso o difficoltoso; quando non si riesce a dormire o prima del pieno risveglio. Parte del valore caratteristico della preghiera di Gesù sta esattamente nel fatto che, a motivo della sua radicale semplicità, può essere recitata in condizioni di confusione quando sono impossibili formule più complesse. Essa è particolarmente utile nei momenti di tensione e di grande ansietà.

Quest’uso “libero” della preghiera di Gesù ci rende capaci di stabilire un collegamento tra i nostri espliciti “tempi di preghiera” - sia durante le funzioni in chiesa sia da soli nella nostra camera - e le attività normali della vita quotidiana. “Pregate senza interruzione”, insiste san Paolo[3]. Ma come è possibile ciò dal momento che noi abbiamo anche molte altre cose da fare? Il vescovo Teofane indica il giusto metodo con questa sentenza: “Le mani al lavoro, la mente e il cuore con Dio”. La preghiera di Gesù, divenendo per la frequente ripetizione quasi abituale e spontanea, ci aiuta a stare alla presenza di Dio in qualsiasi luogo ci troviamo: non solo nel santuario o nella solitudine, ma in cucina, in fabbrica, in ufficio. Così noi diventiamo come fratel Lorenzo, il quale “era più unito a Dio durante le sue attività ordinarie che non durante gli esercizi religiosi”. “È una grande delusione - notava - immaginare che il tempo della preghiera dovrebbe essere diverso da ogni altro tempo, perché noi siamo ugualmente impegnati a vivere uniti a Dio con il lavoro durante il tempo del lavoro e con la preghiera durante il tempo della preghiera”.

Questa recita “libera” della preghiera di Gesù è completata e rafforzata dall’uso “formale”. In questo secondo caso noi concentriamo tutta l’attenzione in questa preghiera ed escludiamo ogni attività esterna. Allora l’invocazione del Nome è parte dello specifico “tempo di preghiera” che consacriamo a Dio ogni giorno. Normalmente, insieme alla preghiera di Gesù, useremo in questo tempo anche altre forme di preghiera prese dai libri liturgici, come anche letture, suppliche e simili prese dai salmi e in genere dalla Scrittura. Alcuni possono sentirsi chiamati a una quasi esclusiva concentrazione sulla preghiera di Gesù, ma ciò non avviene per la maggioranza. Infatti, molti preferiscono semplicemente usare questa preghiera in maniera “libera”, e in questo non c’è niente d’inquietante o di sbagliato. L’uso “libero” può certamente esistere senza quello “formale”.

Nell’uso “formale”, come in quello “libero”, non vi sono regole rigide, ma varietà e flessibilità. Non è essenziale alcuna posizione particolare. Nella pratica ortodossa questa preghiera viene recitata quasi abitualmente stando seduti, ma la si può dire anche in piedi o in ginocchio, e anche, in caso di debolezza corporale o di esaurimento fisico, quando si è sdraiati. La si recita abitualmente in una più o meno completa oscurità o con gli occhi chiusi, oppure con gli occhi aperti dinanzi a un’icona illuminata da candele o da una lampada votiva. Starets Silvano del Monte Athos[4], quando recitava la preghiera, era solito collocare il suo orologio lontano, in un armadio, in modo da non sentire il suo ticchettio, e abbassava il pesante cappuccio del suo abito monastico di lana sugli occhi e sulle orecchie.

L’oscurità, si sa, può avere effetti soporiferi! Se ci coglie la sonnolenza quando ci sediamo o inginocchiamo per recitare la preghiera, allora dovremmo alzarci qualche volta, fare il segno di croce alla fine di ciascuna invocazione, e quindi curvare i fianchi in una profonda prostrazione, toccando il suolo con le dita della mano destra. Possiamo anche fare una prostrazione ogni volta, toccando il suolo con la fronte. Quando recitiamo la preghiera stando seduti, dovremmo fare in modo che la sedia non sia troppo confortevole: preferibilmente non dovrebbe avere braccioli o spalliera. Nei monasteri ortodossi si usa abitualmente uno sgabello basso senza schienale. La preghiera può anche essere recitata stando in piedi con le braccia allargate in forma di croce. Una cordicella per la preghiera o rosario (komvoskinion, ciotki), normalmente con un centinaio di nodi, è spesso usata in relazione con la preghiera di Gesù, non con lo scopo di contare il numero delle volte che viene ripetuta, ma piuttosto come un aiuto per concentrarsi e per raggiungere un ritmo regolare. È un fatto accertato che, se facciamo un tantino uso delle mani quando preghiamo, ciò è d’aiuto alla quiete del corpo e a raccogliere le nostre energie nell’atto stesso della preghiera. Ma la misurazione quantitativa, con una cordicella nodulosa oppure con altro mezzo, non è da incoraggiarsi.

È vero che nella prima parte dei Racconti di un pellegrino russo viene data grande importanza dallo starets al numero preciso di volte in cui si deve dire la preghiera ogni giorno: 3.000 volte, aumentando a 6.000 e quindi a 12.000. Al pellegrino si ordina di dirne un numero esatto, né di più né di meno. Una tale attenzione alla quantità, tuttavia, non è abituale. Certamente l’importante qui non è la pura quantità, ma l’atteggiamento interiore del pellegrino: lo starets desidera mettere alla prova la sua obbedienza e prontezza a compiere una regola prescritta, senza alcuna deviazione. Più tipico è il consiglio del vescovo Teofane: “Non preoccuparti per il numero delle volte che dici la preghiera. La tua unica preoccupazione sia questa: la preghiera sgorghi nel tuo cuore con una forza travolgente come una fonte di acqua viva. Espelli totalmente dalla tua mente qualsiasi pensiero di quantità”. La preghiera qualche volta viene recitata in gruppo, ma più comunemente da soli; le parole si possono dire a voce alta o silenziosamente. Nella tradizione ortodossa, quando viene recitata a voce alta, è parlata piuttosto che cantata. Non dovrebbe esservi nulla di forzato o di artificioso nella recitazione.
Le parole non dovrebbero venire espresse con enfasi eccessiva o con violenza interiore, ma la preghiera dovrebbe permettere di stabilire un suo ritmo e una propria accentuazione, così che a suo tempo essa giunge a “cantare” dentro di noi in virtù della sua intrinseca melodia. Starets Partenio di Kiev paragonava il fluido movimento della preghiera a un corso d’acqua che mormora sommessamente. Da tutto questo si può comprendere che l’invocazione del Nome è una preghiera per tutte le stagioni. Può essere usata da tutti, in ogni luogo e in ogni tempo. È adatta per il “principiante” come per chi ha più esperienza; può essere offerta a Dio in compagnia con altri o da soli; è ugualmente appropriata nel deserto come nella città, negli ambienti di una raccolta tranquillità o in mezzo al massimo chiasso e all’agitazione. Non è mai fuori posto.

Completezza

Teologicamente, come afferma il pellegrino russo, la preghiera di Gesù “reca in se stessa la pienezza della verità evangelica”; è un “sommario dei vangeli”. In una breve affermazione include i due misteri principali della fede cristiana, l’Incarnazione e la Trinità. Essa parla, prima, delle due nature di Cristo, l’Uomo-Dio (Theanthropos): della sua umanità, poiché egli è invocato con il nome umano, “Gesù”, che sua Madre Maria gli impose dopo che nacque a Betlemme; della sua divinità eterna, perché egli è anche riconosciuto “Signore” e “Figlio di Dio”. In secondo luogo, la preghiera parla, anche se non esplicitamente, delle tre Persone della Trinità. Mentre si rivolge alla seconda persona, Gesù, include anche l’invocazione al Padre, poiché Gesù è chiamato “Figlio di Dio”; e lo Spirito Santo è ugualmente presente nella preghiera, perché “nessuno può dire ‘Signore Gesù, se non nello Spirito Santo”[5]. In tal modo la preghiera di Gesù è cristocentrica e trinitaria.

Dal punto di vista della devozione, essa non è meno comprensiva. Infatti abbraccia i due “momenti” principali della devozione cristiana: il “momento” dell’adorazione, del tendere totalmente alla gloria di Dio e al raggiungimento di Dio nell’amore; e il “momento” della penitenza, il senso dell’indegnità e del peccato. Vi è un movimento circolare all’interno della preghiera, una sequenza di ascesa e una di ritorno. Nella prima metà della preghiera tendiamo a Dio: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio...”, e quindi nella seconda metà ritorniamo verso noi stessi nella compunzione: “... abbi pietà di me peccatore”. “Coloro che hanno gustato il dono dello Spirito - si afferma nelle Omelie di Macario - sperimentano due cose allo stesso tempo: da un lato, sperimentano gioia e consolazione; dall’altro, tremore e timore e lutto”. Tale è la dialettica interiore della preghiera di Gesù.

Questi due “momenti” - la visione della gloria divina e la coscienza del peccato umano - sono uniti e riconciliati in un terzo “momento” quando noi pronunciamo la parola “pietà”. “Pietà” indica il collegamento dell’abisso tra la giustizia di Dio e la creazione decaduta. Colui che dice a Dio: “Abbi pietà”, riconosce la propria impotenza, ma al tempo stesso lancia un grido di speranza. Egli parla non solo di peccato ma anche della vittoria su di esso.

Egli afferma che Dio nella sua gloria accoglie noi anche se siamo peccatori, chiedendo a noi come risposta di accettare la realtà che noi siamo accettati. In tal modo la preghiera di Gesù contiene non solo un invito al pentimento, ma anche la certezza del perdono e della salvezza. Il cuore della preghiera - il nome “Gesù” - reca precisamente il senso di salvezza: “Tu gli porrai nome Gesù: egli, infatti, salverà il popolo suo dai suoi peccati”[6]. Nella preghiera di Gesù vi è dispiacere per il peccato, ma non privo di speranza: è un “dispiacere ricreatore di gioia”, secondo l’espressione di san Giovanni Climaco (m. 649 ca.). Queste sono le ricchezze, sia teologiche sia devozionali, presenti nella preghiera di Gesù; presenti, per di più, non semplicemente in astratto ma in un modo vivificante e dinamico. Il valore particolare della preghiera di Gesù sta nel fatto che essa fa sì che queste verità diventino vive e vivificanti, così che vengono apprese non solo esternamente e in modo teorico ma con tutta la pienezza del nostro essere. Per comprendere perché la preghiera di Gesù possiede tale efficacia, dobbiamo passare ai due aspetti successivi: la potenza del Nome e la disciplina della ripetizione.

La potenza del Nome

“Il nome del Figlio di Dio è grande e infinito, e sostiene l’intero universo”. Così si afferma ne Il Pastore di Erma. Non possiamo tenere nel giusto conto il ruolo della preghiera di Gesù nella spiritualità ortodossa, se non percepiamo un po’ il senso dell’intrinseca potenza e della virtù del Nome divino. Se la preghiera di Gesù è più efficace di altre invocazioni, è perché contiene il nome di Dio. Nell’Antico Testamento, come presso altre culture antiche, c’è una sostanziale identità tra l’essere di un uomo e il suo nome. La sua personalità completa, con tutte le sue caratteristiche e tutta la sua energia, è presente nel suo nome. Conoscere il nome di una persona significa realizzare una chiara penetrazione nell’intimo della sua natura e, perciò, acquistare un rapporto duraturo con essa, e anche, probabilmente, un certo controllo sulla medesima. Questo è il motivo per cui il misterioso personaggio che lotta con Giacobbe al guado dello Jabbok si rifiuta di rivelare il suo nome[7]. Si nota lo stesso atteggiamento nella risposta dell’angelo a Manoach: “Perché domandi il mio nome? Esso è misterioso”[8]. Un cambiamento di nome indica un cambiamento decisivo nella vita di un uomo, come quando Abram diventa Abramo[9] o Giacobbe diventa Israele[10]. Allo stesso modo Saulo, dopo la sua conversione, diventa Paolo[11]. Al monaco, alla sua professione, viene dato un nome nuovo, abitualmente non scelto da lui, per indicare il rinnovamento radicale al quale si sottopone.

Nella tradizione ebraica fare una cosa nel nome di un’altra persona o invocare e implorare nel suo nome sono atti della massima gravità e potenza. Invocare il nome di una persona vuol dire rendere effettivamente presente tale persona. “Si rende un nome vivente, pronunciandolo. Il nome richiama immediatamente la persona che designa: per questo vi è un significato così profondo nell’atto stesso in cui si pronuncia un nome”. Tutto ciò che è vero per i nomi umani, è vero in una misura incomparabilmente più grande per il Nome divino. La potenza e la gloria di Dio sono presenti e attive nel suo Nome. Il nome di Dio è numen praesens, Dio con noi, Emmanuel. Invocare il nome di Dio con attenzione e proposito deliberato è porre se stessi alla sua presenza, aprire se stessi alla sua azione, offrirsi come strumento e sacrificio vivente nelle sue mani. Così appassionato fu il senso della maestà del Nome divino nel tardo giudaismo che il tetragramma sacro non veniva pronunciato a voce alta nel culto della sinagoga: il nome dell’Altissimo era considerato troppo fatale per poter essere pronunciato.

Questa comprensione ebraica del Nome passa dall’Antico Testamento al Nuovo. I diavoli vengono scacciati e gli uomini sono sanati nel nome di Gesù, perché il Nome è potenza. Quando questo potere del Nome viene inteso nel senso giusto, molte citazioni familiari acquistano un significato e una forza più piena: la proposizione nella preghiera del Signore: “Sia santificato il tuo Nome”; la promessa di Cristo nell’ultima Cena: “Qualunque cosa chiederete al Padre, egli ve la concederà in Nome mio”[12]; il suo comando finale agli apostoli: “Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”[13]; la proclamazione di san Pietro secondo cui vi è salvezza solo “nel nome di Gesù Cristo di Nazaret”[14]; le parole di san Paolo: “Nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio”[15]; il nome nuovo, che nessuno conosce, scritto sulla pietra bianca che ci viene data nel secolo futuro[16].

È questa venerazione biblica per il Nome che costituisce la base e il fondamento della preghiera di Gesù. Il nome di Dio è congiunto sostanzialmente alla sua persona, e così l’invocazione del Nome divino possiede un carattere genuinamente sacramentale e costituisce un segno efficace della sua invisibile presenza e azione. Per i cristiani credenti di oggi, come per quelli dei tempi apostolici, il nome di Gesù è potenza. Secondo le parole dei due anziani di Gaza, san Barsanufio e san Giovanni (VI secolo), “la memoria del nome di Dio distrugge completamente tutto ciò che è male”. “Frusta i tuoi nemici con il nome di Gesù - raccomanda san Giovanni Climaco - perché non vi è arma più potente in cielo o in terra ... Il ricordo di Gesù sia unito ad ogni tuo respiro, e allora tu sperimenterai il valore della quiete”.

Il Nome è potenza, ma una ripetizione puramente meccanica non raggiungerà nulla da se stessa. La preghiera di Gesù non è un talismano magico. Come in tutte le operazioni sacramentali, si richiede che l’uomo cooperi con Dio con la fede attiva e lo sforzo ascetico. Siamo chiamati a invocare il Nome con raccoglimento e vigilanza interiore, orientando le nostre menti entro le parole della preghiera, sapendo chi è colui al quale ci stiamo rivolgendo e che ci risponde nel nostro cuore. Tale vigorosa preghiera non è mai facile nelle tappe iniziali ed è descritta giustamente dai padri come un martirio nascosto. San Gregorio il Sinaita parla ripetutamente della “costrizione e della fatica” sostenute da coloro che seguono la via del Nome; è necessario uno “sforzo continuo”; essi saranno tentati di smettere “a causa dell’insistente sofferenza che deriva dall’intima invocazione della mente”. “Le tue spalle saranno doloranti e tu sentirai spesso dolerti il capo - ammonisce - ma persevera insistentemente e con ardente brama, contemplando il Signore nel tuo cuore”. Soltanto attraverso tale paziente fedeltà scopriremo la reale potenza del Nome. Questa fedele perseveranza assume la forma, specialmente, di una ripetizione premurosa e frequente. Cristo disse ai suoi discepoli di non usare “vane ripetizioni”[17]; ma la ripetizione della preghiera di Gesù, quando è compiuta con interiore sincerità e concentrazione, non è assolutamente “vana”. L’atto di invocare ripetutamente il Nome ha un duplice effetto: unifica maggiormente la nostra preghiera e nello stesso tempo la rende più intima.

Unificazione

Non appena noi compiamo un serio tentativo per pregare in spirito e verità, subito diveniamo acutamente consapevoli della nostra interiore disintegrazione, della nostra mancanza di unità e integrità. Malgrado tutti i nostri sforzi per stare alla presenza di Dio, i pensieri continuano a muoversi febbrilmente e senza scopo nella nostra testa, come il ronzio delle mosche (vescovo Teofane) o il capriccioso saltellare di scimmiette da un ramo all’altro (Ramakrishna). Contemplare significa, prima di tutto, essere presente dove uno si trova: essere qui e ora. Ma abitualmente ci accorgiamo che siamo incapaci di trattenere la nostra mente dal vagabondare a casaccio al di là del tempo e dello spazio. Ricordiamo il passato, anticipiamo il futuro, programmiamo che cosa fare subito dopo; persone e luoghi ci passano davanti in una successione ininterrotta. Ci manca la forza di raccogliere noi stessi nel solo luogo dove dovremmo essere: qui, alla presenza di Dio; siamo incapaci di vivere pienamente nel solo istante di tempo che esiste pienamente: ora, l’immediato presente.

Questa disintegrazione interiore è una delle conseguenze più tragiche della caduta originale. Le persone che portano a termine i lavori iniziati, è stato giustamente osservato, sono quelle che fanno una cosa sola per volta. Ma fare una cosa per volta è impresa non da poco. Mentre è già abbastanza difficile nel lavoro esteriore, è ancora più difficile nell’attività della preghiera interiore. Che cosa si deve fare? Come impareremo a vivere nel presente, nell’eterno ora? Come possiamo impadronirci del kairòs, il momento decisivo, il momento opportuno? E appunto in questo campo che la preghiera di Gesù può dare aiuto. L’invocazione ripetuta del Nome può portarci, per grazia di Dio, dalla divisione all’unità, dalla dispersione e molteplicità alla semplicità. “Per fermare la lotta continua dei tuoi pensieri - dice il vescovo Teofane - devi legare la mente con un unico pensiero o con il pensiero dell’Unico”.

I padri del deserto, in particolare Barsanufio e Giovanni, distinguono due vie per combattere i pensieri. Il primo metodo è adatto ai “forti” o “perfetti”: costoro possono “contraddire” i loro pensieri, cioè confrontarli faccia a faccia e respingerli in campo aperto. Ma per la maggior parte di noi un tale metodo è troppo irto di difficoltà e può, davvero, condurre a un danno reale. Il confronto diretto, il tentativo di estirpare ed espellere dei pensieri con uno sforzo di volontà spesso serve semplicemente a conferire una forza maggiore alla nostra immaginazione. Represse violentemente, le nostre fantasie tendono a ritornare con una forza accresciuta. Invece di combattere direttamente i nostri pensieri e di cercare di eliminarli con uno sforzo di volontà, è più saggio raggirare l’ostacolo e puntare la nostra attenzione verso altri obiettivi.

Piuttosto che guardare fisso dall’alto al basso nella nostra turbolenta immaginazione e concentrare tutte le nostre forze nell’opporci ai nostri pensieri, dovremmo guardare verso l’alto al Signore Gesù e affidare noi stessi nelle sue mani con l’invocazione del suo Nome; e la grazia, che agisce attraverso il suo Nome, vincerà i pensieri che noi non possiamo cancellare con le sole nostre forze. La nostra strategia spirituale sarebbe positiva e non negativa; invece di vuotare la nostra mente di ciò che è male, noi la riempiremmo con il pensiero di ciò che è buono. “Non contraddire i pensieri suggeriti dai tuoi nemici - ammoniscono Barsanufio e Giovanni - perché è esattamente ciò che desiderano, e non cesseranno dall’importunarti. Ma rivolgiti al Signore per avere aiuto contro di loro, deponendo dinanzi a lui la tua impotenza; perché egli è in grado di respingerli e di ridurli a nulla”.

La preghiera di Gesù, allora, è la via per aggirare l’ostacolo e volgere l’attenzione verso altri obiettivi. Pensieri e immaginazioni ci assalgono inevitabilmente quando preghiamo. Non possiamo impedire il loro flusso con la semplice azione della nostra volontà. Nemmeno abbiamo un interruttore dentro che basti girare perché tutto si spenga! Vale poco o niente dire a noi stessi: “Smetti di pensare”; potremmo dire allo stesso modo: “Smetti di respirare”. “La mente razionale non può rimanersene oziosa”, dice san Marco il Monaco; i pensieri continuano ad alimentarla con un chiacchierio incessante.

Ma, mentre non possiamo fare nulla perché questo chiacchierio cessi all’istante, possiamo però allontanarci da esso “vincolando” la nostra mente attiva “con un solo pensiero, o con il pensiero di Uno soltanto”: il nome di Gesù. Certo non possiamo arrestare del tutto il flusso dei pensieri, ma grazie alla preghiera di Gesù possiamo sottrarci progressivamente ad esso lasciandolo depositare sul fondo, cosicché ne diveniamo sempre meno coscienti. Secondo Evagrio Pontico († 399), “la preghiera è un mettere da parte i pensieri”. Un mettere da parte: non un conflitto selvaggio, non una repressione violenta, ma un delicato e tuttavia perseverante atto di distacco. Mediante la ripetizione del Nome, riceviamo l’aiuto per “mettere da parte”, per “abbandonare” le nostre immaginazioni frivole o dannose e per sostituirle con il pensiero di Gesù. Ma sebbene l’immaginazione e il ragionamento discorsivo non si debbano sopprimere violentemente nella recita della preghiera di Gesù, senza dubbio non si devono incoraggiare attivamente.

La preghiera di Gesù non è una forma di meditazione su episodi particolari della vita di Cristo o su qualche detto o parabola contenuti nei vangeli; ancor meno è un metodo per ragionare e discutere profondamente qualche verità teologica, per esempio il significato di homooùsios o la definizione di Calcedonia. A questo proposito, la preghiera di Gesù è da distinguere nettamente dai metodi di meditazione discorsiva diffusi in Occidente fin dal periodo della Controriforma (Ignazio di Loyola, Francesco di Sales, Alfonso de Liguori, ecc.). Quando invochiamo il Nome, non dovremmo deliberatamente modellare nelle nostre menti alcuna immagine visiva del Salvatore. Questo è uno dei motivi per cui recitiamo la preghiera nell’oscurità, piuttosto che con gli occhi aperti di fronte a un’icona. “Mantieni la tua mente libera dai colori, dalle immagini e dalle forme”, raccomanda san Gregorio il Sinaita; stai in guardia dall’immaginazione (phantasìa) nella preghiera, altrimenti ti accorgerai che sei diventato un phantastès invece di un hèsychastès! “Così, per non cadere nell’illusione (prelest’), mentre ti eserciti nella preghiera interiore - afferma san Nilo Sorskij († 1508) - non concederti alcuna raffigurazione, immaginazione o visione”.

“Non usare alcuna immagine intermedia tra la mente e il Signore quando ti eserciti nella preghiera di Gesù - scrive il vescovo Teofane. - L’essenziale è dimorare in Dio, e questo camminare dinanzi a Dio significa che vivi con la convinzione, ancor prima della consapevolezza, che Dio è in te come è in ogni cosa: tu vivi nella salda certezza che egli vede tutto ciò che è nel tuo intimo e ti conosce meglio di quanto tu conosca te stesso. Questa consapevolezza dell’occhio di Dio che guarda nella profondità del tuo essere non può essere accompagnata da alcun concetto visualizzato, ma deve essere rinchiusa in una semplice convinzione o sensazione”. Solo quando invochiamo il Nome in questo modo - non con la rappresentazione di immagini del Salvatore, ma sentendo semplicemente la sua presenza - sperimentiamo pienamente la potenza della preghiera di Gesù per completarci e unificarci.

La preghiera di Gesù è dunque una preghiera fatta con parole, ma poiché le parole sono molto semplici, minime e sempre uguali, questa preghiera sfocia al di là delle parole nel vivente silenzio dell’Eterno. Essa è una via per raggiungere, con l’aiuto di Dio, quel genere di preghiera non discorsivo e non iconico in cui non soltanto non affermiamo niente a o su Dio né ci formiamo alcuna immagine di Cristo nella nostra fantasia, ma siamo “soli” con lui in un incontro immediato che tutto abbraccia. Grazie all’invocazione del Nome sentiamo la sua vicinanza con i nostri sensi spirituali, così come sentiamo il calore con i sensi corporali quando entriamo in un ambiente riscaldato. Conosciamo Gesù non attraverso una serie di immagini e concetti susseguenti, ma con la sensibilità unificata del cuore. Così la preghiera di Gesù ci fa convergere verso il qui e ora, concentrandoci e orientandoci sull’“uno”, traendoci dalla molteplicità dei pensieri verso l’unione con il solo Cristo. “Con il ricordo di Gesù Cristo - dice san Filoteo Sinaita (sec. IX-X?) - raccogli la tua mente dispersa”: raccoglila dalla pluralità del pensiero discorsivo nella semplicità dell’amore.

Molti, udendo che l’invocazione del Nome deve essere non discorsiva e non iconica, mezzo per trascendere immagini e pensieri, sono forse tentati di concludere che un tale modo di pregare è assolutamente al di sopra delle loro capacità. A costoro si deve dire: la via del Nome non è riservata a pochi eletti; è alla portata di tutti. Quando cominci a praticare la preghiera di Gesù, non affannarti troppo a cacciare pensieri e immaginazioni. L’abbiamo già detto: fate sì che la vostra strategia sia positiva, non negativa. Richiamate alla memoria quello che volete metterci dentro, non quello che volete escludere da essa; pensate a Gesù, non ai vostri pensieri e a come eliminarli. Concentratevi interamente, con tutto l’ardore e la devozione sulla persona del Salvatore; sentite la sua presenza; parlategli con amore. Se la vostra attenzione vacilla - come indubbiamente accadrà - non scoraggiatevi: dolcemente, senza esasperazione né rabbia, riportatela al suo posto; se torna ripetutamente a vagare, di nuovo ripetutamente la richiamate. Ritornate al centro: il centro vivente che è una persona, Gesù Cristo.

Considerate l’invocazione del Nome come preghiera riempita con l’Amato, non come preghiera vuotata dei pensieri. Nel senso migliore della parola, sia una preghiera affettiva, quantunque non carica d’emozione autoindotta. Perché, mentre la preghiera di Gesù è certamente molto più che una preghiera “affettiva” nel senso tecnico occidentale, è con la nostra affezione amorosa che facciamo bene a cominciarla. Il nostro atteggiamento interiore, quando cominciamo l’invocazione del Nome, sia quello di san Riccardo di Chichester:

O mio misericordioso Redentore, amico e fratello,
possa io vederti più chiaramente,
amarti più teneramente
e seguirti più da vicino”.

Senza negare né sminuire l’insegnamento classico dei monasteri esicasti sulla preghiera di Gesù come “eliminazione dei pensieri”, si deve riconoscere che lungo i secoli moltissimi cristiani d’Oriente hanno usato questa preghiera semplicemente come espressione della loro tenera, amorosa fiducia in Gesù “amico divino”. E questo certamente non è male.

Interiorità

La ripetuta invocazione del Nome, rendendo la nostra preghiera più unificata, la rende nello stesso tempo più interiore, più parte di noi stessi: non qualcosa che noi facciamo in particolari momenti, ma qualcosa che noi siamo in ogni momento; non un atto occasionale, ma uno stato permanente. Un tal modo di pregare diviene realmente preghiera dell’uomo totale; in essa le parole e il significato della preghiera si identificano completamente con la persona che prega. Tutto ciò è ben espresso da Pavel Evdokimov (1901-70): “Nelle catacombe l’immagine che ricorre più frequentemente è la figura della donna in preghiera, la Orans. Essa rappresenta la sola vera attitudine dell’anima umana. Non è sufficiente possedere la preghiera, dobbiamo diventare preghiera: preghiera incarnata. Non è sufficiente avere momenti di lode; la nostra vita intera, ogni atto e ogni atteggiamento, anche un sorriso, devono diventare un inno di adorazione, un’offerta, una preghiera. Dobbiamo offrire non ciò che abbiamo, ma ciò che siamo”. E ciò di cui il mondo ha bisogno più di ogni altra cosa: non persone che dicono preghiere con più o meno regolarità, ma persone che sono preghiera.

Il genere di preghiera che qui descrive Evdokimov può essere definito più esattamente come “preghiera del cuore”. Nell’Ortodossia, come in altre tradizioni, la preghiera viene distinta comunemente in tre categorie, che si devono considerare come livelli che si compenetrano piuttosto che come tappe successive: preghiera delle labbra (preghiera orale); preghiera del nous, cioè della mente o intelletto (preghiera mentale); preghiera del cuore (o della mente nel cuore). L’invocazione del Nome comincia, come ogni altra preghiera, come una preghiera orale, in cui le parole vengono pronunciate dalla lingua mediante uno sforzo deliberato di volontà. Nello stesso tempo, ancora una volta per uno sforzo deliberato, concentriamo la nostra mente sul significato di ciò che la lingua dice. Col passare del tempo e con l’aiuto di Dio la nostra preghiera tende a una maggiore interiorità. La partecipazione della mente diventa più intensa e spontanea, mentre i suoni emessi dalla lingua diventano meno importanti; a un certo punto possono cessare e il Nome viene invocato silenziosamente, senza alcun movimento delle labbra, solo con la mente.

Quando ciò si verifica, per grazia di Dio siamo passati dal primo al secondo grado. Non che l’invocazione vocale cessi del tutto, perché vi saranno dei momenti in cui anche i più “sperimentati” nella preghiera interiore sentiranno il desiderio di invocare a gran voce il Signore Gesù (e chi, di grazia, può pretendere di essere “sperimentato” nelle vie della preghiera? Tutti quanti siamo dei “principianti” nelle cose dello Spirito). Ma il viaggio diretto verso l’interno non è ancora completo. L’uomo è molto più della sua mente; al di là del suo cervello e delle facoltà intellettive vi sono le sue emozioni e gli affetti, la sua sensibilità estetica, insieme con gli stati istintivi profondi della sua personalità. Tutti questi elementi hanno una funzione da compiere nella preghiera, poiché l’uomo completo è chiamato a partecipare all’atto totale di adorazione. Come una goccia di inchiostro che cade sulla carta assorbente, così l’atto della preghiera deve espandersi regolarmente verso l’esterno partendo dal centro conscio e ragionevole del cervello fino ad abbracciare ciascuna parte di noi.

In termini più tecnici, ciò significa che noi siamo chiamati ad avanzare dal secondo stadio al terzo: dalla “preghiera della mente” alla “preghiera della mente nel cuore”. “Cuore” in questo contesto è da intendersi in senso semitico e biblico piuttosto che in senso moderno, cioè nel significato non solo di emozioni e di affetti ma di totalità della persona umana. Il cuore è l’organo principale dell’essere umano, l’uomo intimo, “l’essere più profondo e più vero, non raggiungibile se non attraverso il sacrificio, attraverso la morte”. Secondo Boris Vyšeslavčev, il cuore è “il centro non solo della coscienza ma anche dell’inconscio, non solo dell’anima ma anche dello spirito, non solo dello spirito ma anche del corpo, non solo del comprensibile ma anche dell’incomprensibile; in una parola, il cuore è il centro assoluto”. Inteso in questo modo, il cuore è molto più che un organo materiale nel corpo; il cuore fisico è simbolo delle illimitate potenzialità spirituali della creatura umana, fatta a immagine di Dio e chiamata a conseguire la sua somiglianza.

Per compiere il viaggio verso l’interno e per raggiungere la vera preghiera è necessario entrare in questo “centro assoluto”, cioè discendere dalla mente al cuore. Più esattamente, siamo chiamati a discendere non da ma con la mente. Lo scopo non è solo la “preghiera del cuore”, ma la “preghiera della mente nel cuore”, perché le nostre forme consapevoli di comprensione, inclusa la ragione, sono un dono che ci viene da Dio e si devono usare per il suo servizio, e non sono assolutamente da rigettarsi. Questa “unione della mente con il cuore” significa la reintegrazione della natura umana decaduta e frammentaria, la sua restaurazione secondo l’originale totalità. La preghiera del cuore è un ritorno al paradiso, un capovolgimento della colpa, un recupero dello status ante peccatum. Ciò significa che è una realtà escatologica, un pegno e un’anticipazione dell’età futura: qualcosa che, nel tempo presente, non è mai completamente raggiunto né pienamente realizzato.

Coloro che, sebbene in modo imperfetto, hanno raggiunto un qualche grado della “preghiera del cuore”, hanno iniziato a fare il passaggio di cui abbiamo parlato in precedenza, cioè il passaggio dalla preghiera “attiva” alla preghiera “automatica”, dalla preghiera che io recito alla preghiera che “si dice da se stessa” o, piuttosto, che Cristo dice in me. Perché il cuore ha un duplice significato nella vita spirituale: esso è sia il centro dell’essere umano sia il punto d’incontro tra l’uomo e Dio. Il cuore è sia il luogo della piena autoconoscenza, dove l’uomo vede se stesso come è realmente, sia il luogo dell’autotrascendenza, dove l’uomo comprende il suo essere come tempio della santissima Trinità, dove l’immagine raggiunge l’Archetipo faccia a faccia. Nella “dimora più intima” del suo cuore egli trova la base del suo essere e così attraversa le misteriose frontiere tra il creato e l’Increato. “Vi sono delle profondità insondabili nel cuore - si afferma nelle Omelie di Macario. - Vi è Dio con gli angeli, vi è luce e vita, il regno e gli apostoli, le città celesti e i tesori di grazia: tutto è nel cuore”.

La preghiera del cuore, allora, indica il punto in cui la “mia” azione, la “mia” preghiera, si identifica esplicitamente con l’azione continua di un Altro in me. Non è più preghiera a Gesù, ma la preghiera di Gesù stesso. Questo passaggio dalla preghiera “attiva” alla preghiera “automatica” è indicato con precisione nei Racconti di un pellegrino russo: “Un mattino presto fui, per così dire, svegliato dalla preghiera”. Finora il pellegrino aveva “detto la preghiera”; ora sperimenta che la preghiera “si dice”, anche quando lui dorme, perché si è unita alla preghiera di Dio dentro di lui.

I lettori dei Racconti di un pellegrino russo possono avere l’impressione che questo passaggio dalla preghiera orale alla preghiera del cuore si possa raggiungere facilmente, quasi in un modo meccanico, scontato. Il pellegrino, così sembra, raggiunge la preghiera “automatica” nel giro di poche settimane. Bisogna sottolineare che la sua esperienza, anche se non unica, è nell’insieme eccezionale. Più comunemente la preghiera del cuore viene, semmai, solo dopo un periodo abbondante di esercizio ascetico. C’è davvero pericolo, nei primi stadi della preghiera di Gesù, che troppo facilmente si presuma di passare dalla preghiera orale alla preghiera del cuore. Potremmo essere tentati d’immaginare d’aver già raggiunto la preghiera silenziosa, senza parole, quando in realtà non preghiamo affatto, ma semplicemente siamo scivolati in una vuota sonnolenza o in un sonno ad occhi aperti. Per difenderci da questo i maestri della tradizione esicasta insistono sulla necessità dello sforzo energico allorché si inizia a praticare la preghiera di Gesù. Sottolineano quanto sia importante concentrare tutta l’attenzione sulla recita delle parole concrete piuttosto che concepire grandi ambizioni sulla preghiera del cuore.

Ecco, per esempio, i consigli di un celebre padre spirituale del Monte Athos, l’anziano Giuseppe del Nuovo Skit († 1959): “La fatica della preghiera interiore sta nel forzare te stesso a dire la preghiera continuamente con la bocca, senza cessare... Bada soltanto alle parole: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me” … Devi dire la preghiera ad alta voce, senza interruzione... Ogni tuo sforzo dev’essere concentrato sulla lingua, fino a quando comincerai ad abituarti alla preghiera. L’importanza attribuita qui al potere della parola pronunciata è davvero sorprendente. Dice san Giovanni Climaco: “Cerca di elevare la mente a Dio o piuttosto di tenerla chiusa dentro le parole della tua preghiera”. Ma naturalmente non consideriamo mai in modo esclusivo le parole in se stesse, piuttosto siamo sempre consapevoli della persona di Gesù che le nostre parole invocano.

La preghiera del cuore, se autentica, arriva come un libero dono che Dio concede quando vuole. Non è effetto inevitabile di qualche tecnica. Sant’Isacco il Siro (VII secolo) sottolinea l’estrema rarità del dono quando afferma che “scarsamente uno su diecimila” è ritenuto degno del dono della preghiera pura, e aggiunge: “Come per il mistero che si trova al di là della pura preghiera, si può a mala pena trovare un solo uomo in ciascuna generazione che si sia avvicinato a questa conoscenza della grazia di Dio”. Uno su diecimila, uno solo in una generazione: anche se ridimensionati da questo avvertimento, non dovremmo scoraggiarci eccessivamente. La via verso il regno interiore è aperta a tutti, e tutti ugualmente possono percorrerne qualche tratto. Nel tempo presente pochi sperimentano in pienezza i misteri profondi del cuore, ma moltissimi ricevono, in un modo più umile e ad intervalli, delle autentiche illuminazioni su ciò che è la preghiera spirituale.

Esercizi di respirazione

È tempo di esaminare un punto controverso, in cui l’insegnamento degli esicasti orientali viene spesso interpretato erroneamente: il ruolo del corpo nella preghiera. Il cuore, è stato detto, è l’organo principale dell’essere umano, il centro sia della costituzione fisica sia della sua struttura psichica e spirituale. Poiché il cuore ha questo duplice aspetto, nello stesso tempo visibile e invisibile, la preghiera del cuore è preghiera del corpo e nello stesso tempo preghiera dell’anima: se si include il corpo, può essere realmente preghiera dell’uomo totale.

Un essere umano, nella visuale biblica, è una totalità psicosomatica: non un’anima imprigionata in un corpo e alla ricerca della fuga, ma un’unione armonica dell’anima e del corpo. Il corpo non è solo un ostacolo da abbattere, una massa di materia da ignorare, ma ha una sua parte positiva da svolgere nella vita spirituale ed è dotato di energie che possono essere utilizzate per l’esercizio della preghiera. Se ciò è vero della preghiera in generale, è vero in un modo ancora più specifico per la preghiera di Gesù, poiché questa è appunto un’invocazione rivolta al Dio incarnato, al Verbo fatto carne. Cristo nella sua incarnazione assunse non soltanto una mente e una volontà umana, ma un corpo umano, e così ha fatto della carne una sorgente inesauribile di santificazione. Come può questa carne, che il Dio-uomo ha reso portatrice di Spirito, partecipare all’invocazione del Nome e alla preghiera della mente nel cuore?

Per aiutare tale partecipazione e come sussidio per la concentrazione, gli esicasti hanno elaborato una “tecnica fisica”. Essi compresero che ogni attività fisica ha ripercussioni a livello psichico e a livello fisico; dipendentemente dal nostro stato intimo diveniamo caldi o freddi, respiriamo più celermente o più lentamente, il ritmo dei battiti del cuore accelera o rallenta e così via. Viceversa, ogni alterazione nella nostra condizione fisica procura una reazione negativa o positiva nell’attività psichica. Se allora possiamo imparare a controllare e a regolare alcuni dei nostri processi fisici, tale tecnica può essere usata per rafforzare la nostra concentrazione interiore nella preghiera. Tale è il principio base del “metodo” esicasta, la cui tecnica fisica, in particolare, presenta tre aspetti principali:

1) Posizione esterna. San Gregorio il Sinaita consiglia di sedere su uno sgabello alto appena una ventina di centimetri; si dovrebbero chinare la testa e le spalle, e gli occhi dovrebbero essere fissi al luogo dov’è il cuore. San Gregorio riconosce che dopo un certo tempo questa posizione risulterà estremamente scomoda. Alcuni scrittori raccomandano una posizione ancora più esigente, con la testa posta tra le ginocchia, secondo l’esempio di Elia sul monte Carmelo.

2) Controllo della respirazione. Si deve respirare più adagio e nello stesso tempo con un ritmo coordinato con quello della preghiera. Spesso la prima parte, “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio”, viene pronunciata mentre si inspira; la seconda parte, “abbi pietà di me peccatore”, mentre si espira. Sono possibili altri metodi: per esempio, la recita della preghiera può anche essere sincronizzata con il battito del cuore.

3) Esplorazione interna. Proprio come l’aspirante yoga viene ammaestrato a concentrare i suoi pensieri in parti specifiche del corpo, così l’esicasta concentra i suoi pensieri nel centro del cuore. Mentre inspira attraverso il naso e spinge l’aria nei polmoni, egli fa sì che la sua mente “discenda” con l’aria e intanto cerca interiormente il luogo del cuore. Non si possono affidare allo scritto istruzioni dettagliate riguardo a questo esercizio, per il timore che possano venire fraintese; i dettagli del processo sono così delicati che è indispensabile la guida personale di un maestro esperto. Il principiante che, in assenza di tale guida, cerca di trovare il centro del cuore, è in pericolo di orientare i suoi pensieri inconsciamente nell’area che giace immediatamente sotto il cuore, cioè tra l’addome e gli intestini. L’effetto sulla sua preghiera sarà allora disastroso, perché questa regione inferiore è la sorgente dei pensieri carnali e delle sensazioni che macchiano la mente e il cuore.

Per ovvie ragioni è necessaria la massima discrezione quando si interferisce con le attività istintive corporali, come il controllo della respirazione o del battito del cuore. Un uso improprio della tecnica fisica può danneggiare la salute di un uomo e recare disturbo al suo equilibrio mentale; di qui l’importanza di un maestro fidato. Se non è possibile trovare uno starets all’altezza del compito, è meglio per il principiante limitarsi alla recita pura e semplice della preghiera di Gesù, senza voler alterare il ritmo del respiro o dei battiti del cuore. Più spesso di quanto possa sembrare, si accorgerà che, senza alcun consapevole sforzo da parte sua, le parole dell’invocazione si adatteranno spontaneamente al ritmo del respiro e del cuore. Se ciò non dovesse accadere, non c’è motivo di allarmarsi; continui serenamente l’uso dell’invocazione mentale.

In ogni caso le tecniche fisiche sono soltanto un elemento accessorio, un aiuto che si è rivelato utile per alcuni, ma che non è affatto indispensabile per tutti. La preghiera di Gesù può essere benissimo praticata senza alcun metodo fisico. San Gregorio Palamas (1296 - 1359), pur considerando l’uso delle tecniche fisiche come teologicamente legittime, considerava tali metodi come un qualcosa di secondario e di adatto specialmente per i principianti. Per lui, come per tutti i maestri esicasti, l’essenziale non è il controllo esterno della respirazione, ma l’intima, personale invocazione del Signore Gesù. Gli scrittori ortodossi negli ultimi centocinquant’anni hanno riservato in genere un’attenzione minima alle tecniche fisiche. Il consiglio dato dal vescovo Ignazio Brjančaninov (1807 - 1867) è tipico: “Consigliamo i nostri amati fratelli di non voler instaurare questa tecnica in loro, se essa non si accorda facilmente e quasi spontaneamente. Molti, nel desiderio di impararla a forza d’esercizio, hanno danneggiato i loro polmoni e non hanno raggiunto nulla.

Il punto essenziale della questione sta nell’unione della mente con il cuore durante la preghiera e ciò è raggiunto per grazia di Dio a suo tempo, secondo il volere del Signore. La tecnica della respirazione è pienamente sostituita dalla enunciazione non affrettata della preghiera, da una breve sosta o pausa alla fine, ogni volta che la si recita, dalla respirazione calma e lenta e dalla concentrazione della mente nelle parole della preghiera. Con l’aiuto di questi mezzi possiamo raggiungere facilmente un certo grado di attenzione”. Riguardo al tempo e al ritmo della recitazione, il vescovo Ignazio propone: “Per dire la preghiera di Gesù un centinaio di volte, attentamente e senza fretta, si richiede circa mezz’ora; ma alcuni asceti richiedono un tempo anche più lungo. Non dire le invocazioni affrettatamente, una subito dopo l’altra, ma fai una breve pausa dopo ciascuna di esse, così aiuterai la mente a concentrarsi. Il dire la preghiera senza pause stordisce la mente. Respira con cura, serenamente e adagio”.

I principianti nell’uso di questa preghiera probabilmente preferiranno una recita un po’ più veloce di quella proposta qui, per esempio venti minuti per un centinaio di invocazioni. Di fatto, nella tradizione greca, ci sono maestri che raccomandano un ritmo molto più svelto: la stessa rapidità dell’invocazione, essi affermano, aiuterebbe a tenere attenta la mente. Sorprendenti paralleli esistono tra le tecniche fisiche consigliate dagli esicasti bizantini e quelle praticate nello yoga indù e nel sufismo. In che misura le somiglianze sono il risultato di mere coincidenze ovvero di uno sviluppo indipendente benché analogo in tradizioni diverse? Se vi è una relazione diretta tra l’esicasmo e il sufismo - e alcuni paralleli sono così stretti che sembra si debbano escludere pure coincidenze -, quale dei due deriva dall’altro?

Vi è qui un campo appassionante di ricerca, anche se l’evidenza è forse troppo frammentaria onde permetterci conclusioni definitive. Tuttavia non si deve dimenticare un punto importante. Oltre alle somiglianze vi sono anche delle differenze. Tutti i quadri hanno una cornice e tutte le cornici dei quadri hanno delle caratteristiche comuni; tuttavia i dipinti dentro le cornici possono essere completamente differenti. Ciò che importa è il quadro, non la cornice. Nel caso della preghiera di Gesù, le tecniche fisiche sono come la cornice, mentre l’invocazione di Cristo fatta con la mente è la pittura dentro la cornice. La “cornice” della preghiera di Gesù assomiglia certamente a varie “cornici” non cristiane, ma ciò non dovrebbe renderci indifferenti all’unicità della pittura che vi è racchiusa, al contenuto della preghiera che è tipicamente cristiano. Il punto essenziale nella preghiera di Gesù non è l’atto della ripetizione in se stesso, non come ci sediamo o come respiriamo, ma a chi ci rivolgiamo; e qui le nostre parole sono rivolte espressamente e chiaramente al Salvatore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio e Figlio di Maria.

L’esistenza di una tecnica fisica in connessione con la preghiera di Gesù non dovrebbe renderci ciechi riguardo al suo carattere distintivo. La preghiera di Gesù non è soltanto un mezzo o un aiuto per la concentrazione o il rilassamento; non è semplicemente un saggio di “yoga cristiano”, una specie di “meditazione trascendentale”, o un “mantra cristiano”, anche se alcuni hanno tentato di interpretarla in questo modo. Al contrario, è un’invocazione che in modo specifico viene indirizzata da noi a un’altra Persona: al Dio fatto uomo, Gesù Cristo nostro vero Salvatore e Redentore. La preghiera di Gesù, perciò, è molto più che un metodo o una tecnica considerabile di per sé. Esiste entro un certo contesto, e se strappata da tale contesto perde il suo significato specifico.

Il contesto della preghiera di Gesù è anzitutto un contesto di fede. L’invocazione del Nome presuppone che chi dice questa preghiera creda in Gesù Cristo Figlio di Dio e Salvatore. Al di là della ripetizione di una formula fatta di parole deve esserci una fede viva nel Signore Gesù: in Colui che è e in ciò che ha fatto per me personalmente. Forse in molti di noi la fede è molto incerta e vacillante; forse coesiste con il dubbio; forse spesso ci troviamo costretti a gridare con il padre del ragazzo indemoniato: “Signore, io credo, ma aiuta la mia poca fede”[18]. Almeno, però, ci deve essere il desiderio di credere; almeno deve esserci, fra tutte le incertezze, una scintilla di amore per Gesù che noi conosciamo in modo ancora così imperfetto.

In secondo luogo, il contesto della preghiera di Gesù è un contesto di comunità. Noi non invochiamo il Nome come individui isolati, confidando unicamente sulle nostre risorse interiori, ma lo invochiamo come membri della comunità ecclesiale. Per scrittori della levatura di san Barsanufio, san Gregorio il Sinaita o il vescovo Teofane era pacifico che coloro ai quali si raccomandava la preghiera di Gesù dovevano essere membri battezzati della Chiesa e partecipare regolarmente alla vita sacramentale mediante la confessione e la santa comunione.  Neppure per un istante essi considerarono l’invocazione del Nome come un surrogato dei sacramenti, ma ritenevano che chi la recitava doveva essere un membro praticante e in comunione con la Chiesa.

Ancora oggi, tuttavia, in quest’epoca di curiosità insaziabile e di disgregazione ecclesiastica, di fatto vi sono molti che usano la preghiera di Gesù senza essere membri praticanti di alcuna Chiesa, forse senza avere nemmeno una fede chiara nel Signore Gesù né in altro. Dobbiamo condannarli? Dobbiamo impedire loro di usare questa preghiera? No di certo, dal momento che sono sinceramente alla ricerca della Fonte della Vita. Gesù non condannò nessuno, se non gli ipocriti. Ma, con tutta umiltà e profondamente consci della nostra stessa infedeltà, siamo costretti a considerare la situazione di tali persone come anomala e ad ammonirli di questo fatto.

La fine del viaggio

Lo scopo della preghiera di Gesù, come di tutte le preghiere cristiane, è che la nostra preghiera si identifichi progressivamente con la preghiera offerta da Gesù sommo Sacerdote dentro di noi, che la nostra vita diventi una con la sua vita, il nostro respiro uno con il divino Respiro - lo Spirito - che sostiene l’universo. L’obiettivo finale può essere descritto adeguatamente dal vocabolo patristico théosis, “deificazione” o “divinizzazione”. Secondo le parole dell’archimandrita Serghjej Bulgakov, “il nome di Gesù, presente nel cuore umano, gli conferisce il potere della deificazione”. “Il Lògos divenne uomo - dice sant’Atanasio - perché noi potessimo diventare Dio”. Colui che è Dio per natura assunse la nostra umanità perché noi uomini potessimo condividere, per grazia, la sua divinità: divenire “partecipi della natura divina”[19]. La preghiera di Gesù, rivolta al Verbo incarnato, è un mezzo per realizzare in noi stessi questo mistero della theosis, in cui l’uomo raggiunge la reale somiglianza con Dio.

La preghiera di Gesù, unendo a Cristo, ci fa partecipare alla reciproca inabitazione, o perichòresis, delle tre Persone della santissima Trinità. Più la preghiera diventa parte di noi stessi, più noi entriamo nella corrente di amore che circola incessantemente tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Di questo amore ha scritto, con squisita bellezza, sant’Isacco il Siro: “L’amore è il regno del quale nostro Signore parlò con linguaggio simbolico quando promise che i suoi discepoli avrebbero mangiato nel suo regno: ‘Voi mangerete e berrete al banchetto del mio regno’. Che cosa dovrebbero mangiare se non amore? ... Quando abbiamo raggiunto l’amore, noi abbiamo raggiunto Dio e il nostro cammino è giunto al termine: siamo giunti fino all’isola che si trova al di là del mondo, dove è il Padre con il Figlio e lo Spirito Santo: ai quali è la gloria e il dominio”.

Nella tradizione esicasta, il mistero della théosis ha assunto molto spesso la forma esteriore di una visione di luce. Questa luce che i santi vedono durante la preghiera non è né una luce simbolica dell’intelletto né una luce - fisica e creata - dei sensi. È nientemeno che la mirabile e increata luce della Divinità che irradiò da Cristo nella sua trasfigurazione sul monte Tabor e che illuminerà il mondo intero alla sua seconda venuta nell’ultimo giorno. Ecco una citazione caratteristica sulla luce divina tratta da san Gregorio Palamas. Egli descrive la visione dell’Apostolo quando venne rapito al terzo cielo[20]: “Paolo vide una luce senza alcun confine sopra o sotto o ai lati; non vide alcun limite da nessuna parte alla luce che gli apparve e lo circonfuse, ma era come un sole infinitamente più luminoso ed era più estesa dell’universo; ed egli stette nel mezzo di questo sole, essendo divenuto nient’altro che occhio”.

Tale è la visione di gloria alla quale possiamo avvicinarci con l’invocazione del Nome. La preghiera di Gesù fa sì che la luminosità della trasfigurazione penetri in ogni angolo della nostra vita. La ripetizione abituale ha due effetti, secondo l’autore dei Racconti di un pellegrino russo.

Primo, trasforma il suo rapporto con la creazione materiale attorno a lui, rendendo trasparenti tutte le cose, trasformandole in un sacramento della presenza di Dio. Così scrive: “Quando io pregavo nel profondo del cuore, tutto ciò che mi stava intorno mi appariva sotto un aspetto stupendo: gli alberi, l’erba, gli uccelli, la terra, l’aria, la luce, tutto sembrava dirmi che ogni cosa esiste per l’uomo, testimonia e manifesta l’amore di Dio per lui, e tutte le cose pregavano Dio e cantavano la sua gloria. Così compresi quella che la Filocalia chiama ‘la conoscenza del linguaggio di tutte le creature’ ... Sentivo un amore bruciante per Gesù Cristo e per tutte le creature di Dio”. Secondo le parole di padre Bulgakov, “splendendo su tutta quanta la terra, la luce del nome di Gesù illumina l’intero universo”.

In secondo luogo, la preghiera trasformò la relazione del pellegrino non solo con la creazione materiale ma anche con gli uomini: “Ripresi a peregrinare da un luogo all’altro, ma non avevo più l’ansia di prima: l’invocazione del nome di Gesù mi rallegrava durante il cammino, e tutta la gente mi trattava con maggior bontà, quasi che tutti avessero preso ad amarmi... Se qualcuno mi offende, non ho che da ricordare la dolcezza della preghiera di Gesù: umiliazione e collera scompaiono, dimentico tutto”. “Ogni volta che avete fatto questo a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me”[21]. La preghiera di Gesù ci aiuta a vedere Cristo in tutti gli uomini, e tutti gli uomini in Cristo.

L’invocazione del Nome è, perciò, più gioiosa che penitenziale e ci fa guardare positivamente le realtà del mondo, non negativamente. A qualcuno, che ode per la prima volta parlare della preghiera di Gesù, potrà sembrare che sedere solitari nell’oscurità con gli occhi chiusi e ripetere all’infinito “... abbi pietà di me” sia un modo ben triste e malinconico di pregare. E magari si sarà anche tentati di guardare questa preghiera come egocentrica ed elusiva, favorevole cioè da una parte all’introversione e dall’altra all’evasione dalle responsabilità verso la comunità umana. Ma questo sarebbe un grave malinteso. Per chi realmente pratica la via del Nome, questa risulta essere non cupa e oppressiva, ma sorgente di liberazione e di salute. Il calore e la gioia che sprigionano dalla preghiera di Gesù sono particolarmente evidenti negli scritti di sant’Esichio Sinaita (sec. VIII-IX?): “Perseverando nella preghiera di Gesù la mente raggiunge uno stato di dolcezza e di pace. Come la pioggia, quanta più ne scende sulla terra, tanto più l’ammorbidisce, così anche il santo nome di Cristo, gridato e invocato frequentemente da noi, fa gioire e allieta la terra del nostro cuore. Il sole, passando sopra la terra, fa il giorno; ugualmente il santo e adorabile nome del Signore Gesù, risplendendo di continuo nella mente, genera innumerevoli pensieri fulgidi come il sole”.

Inoltre, ben lungi dal volgere le spalle agli altri e dal ripudiare la creazione di Dio quando diciamo la preghiera di Gesù, di fatto affermiamo il nostro impegno verso il prossimo e la nostra stima per il valore di ognuno e di ogni cosa in Dio. “Acquista la pace interiore - dice san Serafino di Sarov (1759 - 1833) - e migliaia intorno a te troveranno la salvezza”. Stando alla presenza di Cristo anche soltanto pochi minuti ogni giorno, invocando il suo Nome, diamo profondità e trasformiamo tutto il tempo rimanente della giornata, rendendoci disponibili verso gli altri, efficienti ed efficaci in un modo che altrimenti non sarebbe possibile. E anche se adoperiamo in maniera “libera” la preghiera di Gesù lungo il giorno, essa ci rende capaci di “porre il sigillo divino sul mondo”, per dirla con Nadežda Gorodetzkij: “Possiamo applicare questo Nome alla gente, ai libri, ai fiori, a tutte le cose che incontriamo, vediamo e pensiamo. Il nome di Gesù può diventare una chiave mistica per il mondo, uno strumento dell’offerta nascosta di ogni cosa e di ciascuno, l’impressione del sigillo divino sul mondo. Qualcuno forse potrebbe parlare qui del sacerdozio di tutti i credenti. In unione con il nostro sommo Sacerdote, imploriamo lo Spirito: Trasforma la mia preghiera in sacramento”.

“Possiamo applicare questo Nome alla gente ...”. Qui Gorodetzkij suggerisce una possibile soluzione alla questione che è sorta spesso: la preghiera di Gesù può essere usata come forma d’intercessione? La risposta può essere che, strettamente parlando, essa è diversa dalla preghiera d’intercessione. Come espressione di “servizio divino” non discorsiva e priva d’immagini, essa non implica il ricordo o la menzione di nomi particolari. Semplicemente ci rivolgiamo a Gesù. Però è vero che, volgendoci a Gesù, non per questo ci allontaniamo dai nostri simili. Tutti quelli che noi amiamo sono già posti nel suo cuore e sono amati da lui infinitamente più che da noi, e così in definitiva attraverso la preghiera di Gesù noi li troviamo di nuovo in lui; invocando il Nome, noi veniamo immersi sempre più profondamente nell’amore sovrabbondante di Cristo per il mondo intero. Ma se seguiamo il modello tradizionale esicasta della preghiera di Gesù, davanti a lui non portiamo gli altri specificamente per nome né li teniamo di proposito in mente quando recitiamo l’invocazione.

Tutto ciò, comunque, non esclude la possibilità di dare alla preghiera di Gesù anche un valore d’intercessione. All’occorrenza, nell’uso “libero” come in quello “formale”, possiamo sentirci spinti ad “applicare” il Nome a una o più persone particolari invocando Gesù su di esse quando diciamo “... abbi pietà di noi” o anche includendo il nome o i nomi concreti: “... abbi pietà di Mario”. Anche se ciò non è proprio quanto i testi esicasti contemplano, tuttavia è sicuramente una legittima e utile estensione della pratica della preghiera di Gesù. La via del Nome ha un’ampiezza e una duttilità che non vanno confinate entro regole troppo rigide e uniformi. “La preghiera è azione: pregare è essere attivi in grado massimo”. Per nessun’altra preghiera è più vera questa affermazione che per la preghiera di Gesù. Pur entrando a motivo di un’allusione particolare nella liturgia della professione monastica, come preghiera per monaci e monache”, essa è ugualmente una preghiera per laici, per coppie di sposi, per medici e psichiatri, per operatori sociali e per conducenti di autobus.

L’invocazione del Nome, praticata nel modo giusto, impegna ciascuno molto profondamente nel suo dovere, lo rende più efficiente nelle sue azioni, non lo separa dagli altri ma lo vincola ad essi rendendolo sensibile ai loro timori e alle loro ansietà in un modo mai provato prima. La preghiera di Gesù trasforma ogni uomo in “una persona per gli altri”, vivente strumento della pace di Dio, centro dinamico di riconciliazione.

[1] Gal. 2, 20
[2] Gv. 3, 30
[3] 1Ts. 5, 17
[4] 1866-1938
[5] 1Cor. 12, 3
[6] Mt. 1, 21
[7] Gn. 32, 29
[8] Gdc. 13, 18
[9] Gn. 17, 5
[10] Gn. 32, 28
[11] At. 13, 9
[12] Gv. 16, 23
[13] Mt. 28, 19
[14] At. 4, 10-12
[15] Fil. 2, 10
[16] Ap. 2, 17
[17] Mt. 6, 7
[18] Mc. 9, 24
[19] 2Pt. 1, 4
[20] 2Cor. 12, 2-4
[21] Mt. 25, 40






























































































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