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Lo scopo finale della musica non deve essere altro che la gloria di Dio e il sollievo dell'anima (Johann Sebastian Bach)

domenica 26 marzo 2017

Quarta domenica di Quaresima - di san Giovanni Climaco

di Roberto Pagani

La quarta domenica della Grande Quaresima è incentrata su san Giovanni Climaco, monaco delle cui origini si hanno scarse notizie, vissuto nella prima metà del VII secolo e divenuto egumeno del famoso monastero del Sinai dedicato a santa Caterina. Più che sulla figura di Giovanni, il tema quaresimale è incentrato sui contenuti dell’opera più famosa di Giovanni, la Scala del Paradiso, che, scritta in greco, fu da subito tradotta in latino, siriaco, armeno, arabo e slavo.

La pericope evangelica domenicale è Mc 9, 17 – 31:

Uno della folla disse a Gesù: “Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto. Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”. Egli allora in risposta, disse loro: “O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me”. E glielo portarono. Alla vista di Gesù lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava spumando. Gesù interrogò il padre: “Da quanto tempo gli accade questo?”. Ed egli rispose: “Dall’infanzia; anzi, spesso lo ha buttato persino nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede”. Il padre del fanciullo rispose ad alta voce: “Credo, aiutami nella mia incredulità”. Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito immondo dicendo: “Spirito muto e sordo, io te l’ordino, esci da lui e non vi rientrare più”. E gridando e scuotendolo fortemente, se ne uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: “È morto”. Ma Gesù, presolo per mano, lo sollevò ed egli si alzò in piedi. Entrò poi in una casa e i discepoli gli chiesero in privato: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?”. Ed egli disse loro: “Questa specie di demòni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera”. Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: “Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà”.

Gesù continua ad istruire i suoi discepoli: stanno attraversando la Galilea in direzione di Gerusalemme, e il viaggio non è soltanto uno spostarsi da un luogo all’altro, ma è teso verso il compimento della Pasqua. È sempre l’immagine biblica del Figlio dell’uomo quella che Gesù usa per parlare di sé e della sua missione, nella duplice accezione di mitezza e di gloria. Ma i discepoli non sono ancora in grado di capire il senso pieno e la portata di quanto Gesù sta dicendo. Così anche noi, dopo aver sostato all’ombra della Croce, dopo averla venerata durante tutti gli uffici celebrati nella settimana appena trascorsa, siamo chiamati a riflettere sui limiti della nostra fede. La nostra incredulità permane, non siamo in grado di essere segno nel mondo della potenza del Cristo che ha vinto la morte, l’opacità del nostro essere non riflette adeguatamente la luce divina. Può essere utile continuare questa considerazione attraverso una particolarità liturgica interessante. A partire dalla quarta settimana, le rubriche della liturgia dei presantificati, ufficio vesperale dei giorni di digiuno in cui viene distribuita la comunione consacrata nella liturgia domenicale precedente, prevedono una litania specificatamente rivolta agli illuminandi, ovvero a coloro che nella notte di Pasqua riceveranno la santa Illuminazione, i sacramenti dell’iniziazione cristiana, cioè battesimo, cresima ed eucaristia.

Dopo aver congedato i catecumeni al termine dell’ufficio vesperale, e prima dell’ufficio di comunione, il diacono invita “coloro che sono stati ammessi al battesimo ad avvicinarsi”. E prosegue, mentre i presenti rispondo ad ogni invocazione con il Kyrie, elèison: “Voi che riceverete l’illuminazione, pregate il Signore”, “Fedeli, preghiamo il Signore per i nostri fratelli che si preparano alla santa illuminazione e per la loro salvezza, affinché il Signore nostro Dio li confermi e li fortifichi, li illumini con la luce della conoscenza e della fede, li renda degni nel tempo propizio del Lavacro di rigenerazione, della remissione dei peccati e della veste incorruttibile, li rigeneri per mezzo dell’Acqua e dello Spirito, doni loro la pienezza della fede, li annoveri nel suo gregge santo ed eletto”. Nel frattempo il Sacerdote recita questa preghiera: “Signore, mostra il tuo volto a coloro che si preparano alla santa Illuminazione battesimale e desiderano scuotersi di dosso la macchia del peccato. Rischiara, la loro mente, confermali nella fede, fortificali nella speranza, rendili perfetti nell’amore, e membra degne del tuo Cristo che ha donato se stesso in riscatto per le nostre anime, poiché tu sei la loro Illuminazione, e noi ti rendiamo gloria, Padre, Figlio e Spirito Santo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli”.

Il richiamo che questa litania esercita su ciascun cristiano potrebbe essere forse sufficiente per far sì che il Signore, guardando alla nostra vita, non debba risottolineare la nostra incredulità, non debba costatare che il suo stare con noi è per lui una perdita di tempo, non debba sopportarci. La risposta del padre del fanciullo: “Credo, aiutami nella mia incredulità”, è il paradigma antinomico della nostra condizione. Non siamo come all’inizio del cammino, questo no, ma la mèta è ancora lontana, la nostra fede, come dice san Giovanni Crisostomo, è ancora molto debole, perché tutto è possibile per chi crede. È troppo più comodo delegare al Cristo l’intervento onnipotente e risolutore (Se tu puoi qualcosa), ma anche in questa condizione Gesù richiede il coinvolgimento totale della nostra libertà. Sant’Agostino ci dice che “se manca la fede, la preghiera è impossibile. Chi mai prega ciò che non crede? Per pregare dobbiamo dunque credere e, perché non venga meno la fede con cui preghiamo, dobbiamo pregare. La fede fa sgorgare la preghiera, la preghiera sgorgata ottiene la stabilità della fede”. Preghiera e fede sono due atti intrinsecamente congiunti.

Nelle sue conferenze ai monaci, san Giovanni Cassiano, commentando la richiesta del padre del ragazzo epilettico, dice: “ecco un altro che, avvertendo in se stesso il medesimo rischio e vedendo in un certo qual modo che la sua fede, tra i flutti dell’infedeltà, stava per infrangersi contro gli scogli di un funesto naufragio, si rivolge al Signore chiedendo il suo aiuto in soccorso alla propria fede. Questi uomini del Vangelo, e anche quelli chiamati apostoli, erano persuasi a tal punto che tutto il bene si compie unicamente con l’aiuto del Signore e che neppure la fede stessa, se si presume di potersi fidare solo delle proprie forze e della libertà del proprio arbitrio, avrebbero potuto conservarla, da domandare essi stessi al Signore che in loro essa fosse preservata o addirittura tutta donata”. Ai discepoli increduli e, forse, delusi della loro impotenza, Gesù sottolinea che con la preghiera si scacciano anche i demoni che ci possiedono, e proprio quando la tentazione si fa più forte, più alto deve salire il grido del nostro cuore. Nel passo parallelo di Matteo (Mt 17, 21), oltre alla preghiera Gesù cita anche il digiuno come potente arma per la battaglia. Tertulliano, nel suo discorso sul digiuno, afferma: “Gesù insegnò che il digiuno è l’arma migliore per combattere la peggiore specie di demoni. Cosa c’è di strano se con la medesima operazione con la quale si fa entrare lo Spirito Santo, si fa uscire lo spirito iniquo?”.

Preghiera e digiuno ci riconducono direttamente al tema dell’ufficiatura. La scala del Paradiso si presta a diversi piani di lettura. Nel suo senso letterale, la scala era quella scavata nella roccia del Sinai, che già dal IV secolo ricordava ai cristiani del tempo l’esperienza biblica dell’Esodo e l’ascensione di Mosè sul monte. San Giovanni vedeva nella scala di trenta gradini i trenta anni della vita di Gesù che hanno preceduto la sua vita pubblica, quelli della crescita e della maturazione di Gesù in vista della sua missione, scala sulla quale si incamminano i monaci desiderosi di raggiungere Cristo e, passo dopo passo, in una progressiva purificazione, giungono alla mistica unione.

Se si avvicina l’opera del Climaco con un interesse filosofico-religioso o semplicemente teologico la si può forse apprezzare come trattato sistematico di spiritualità. Ma il padre Placide Deseille, a differenza di altri, ci tiene a precisare: “Giovanni è un monaco che ha fatto esperienza del fine della vita spirituale: le deificazione dell’uomo per la luce increata e la via che vi conduce. È questa via che egli traccia, in modo essenzialmente pratico. L’unico mezzo per acquisirne una vera intelligenza, è quello del coinvolgimento personale. La Scala non è un trattato di ascetica né un codice di morale. Vuole soprattutto indicare, con molteplici annotazioni che non pretendono di avere un carattere normativo, il senso e la direzione della cooperazione della libertà umana all’opera di crocifissione della nostra individualità non trasfigurata, e della trasfigurazione del nostro intero essere nella luce della risurrezione, opera che non può realizzarsi se non sotto l’azione della grazia divina”. Da un punto di vista biblico, l’immagine della scala risale a Giacobbe, che nel sogno descritto in Gn 28, 10-17 “vide una scala che appoggiava sulla terra e la sua cima raggiungeva il cielo, e gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa, mentre il Signore vi si appoggiava”. A partire da qui i Padri poterono associare alla Madre di Dio l’immagine della scala. I monaci, che hanno rivestito l’abito angelico, salgono sulla scala verso Dio, mentre i dèmoni cercano di far perdere loro l’equilibrio per farli precipitare negli inferi. È quindi più che suggestivo, oltre che teologicamente ben fondato, trovare nella nuova chiesa del monastero femminile di Santo Stefano alle Meteore le icone di Gesù e di Maria a destra e a sinistra della porta che dal nartece introduce alla navata: sotto la Madre di Dio è dipinta la scala di Giacobbe, mentre sotto il Cristo è raffigura la scala del paradiso di Giovanni Climaco.

Così nelle strofe del Lucernario del Vespero Giovanni è cantato “poiché avevi levato in volo l’intelletto verso Dio, tramite la fede, hai detestato l’inquieta confusione mondana e, presa la tua croce, hai seguito colui che tutto vede, assoggettando alla ragione, per la forza del divino Spirito, il corpo riluttante alle regole dell’ascesi”. E più avanti: “Udita la voce del vangelo del Signore, hai abbandonato il mondo, la ricchezza e la gloria, senza far conto di nulla; perciò gridavi a tutti: Amate Dio, e troverete eterna grazia; non anteponete nulla al suo amore, affinché quando verrà nella sua gloria, possiate trovare riposo insieme a tutti i santi”.

Nel mattutino, oltre al canone risurrezionale proprio del tono, sono presenti due canoni: il primo è incentrato sulla parabola del buon samaritano, il secondo è in onore di Giovanni Climaco, definito il somigliante in quanto, come tutti gli asceti, hanno portato a termine con successo la riacquisizione della somiglianza divina persa con il peccato.

Affrontiamo dapprima il canone in onore del santo, composto secondo il Triodion greco da un non meglio identificato Ignazio, associabile forse al Patriarca di Costantinopoli morto attorno all’870. Possiamo assaporarne alcuni frammenti ricollegandoli ai temi già emersi qui e in tutto il percorso di preparazione alla Pasqua che ci ha preceduto. “Avendo succhiato il dolce latte della continenza, respingesti l’amarezza della voluttà”. “Hai bruciato col carbone ardente dell’ascesi le spine delle passioni”. “Esercitandoti nelle norme dell’ascesi hai sommerso le passioni come altrettanti faraoni nei flutti delle tue lacrime”. “Tutto risplendente delle virtù che portano al cielo, fermamente consolidato sei piamente asceso all’immenso abisso della contemplazione, e poiché hai esposto al ludibrio tutte le insidie dei demoni, proteggi gli uomini dalle loro vessazioni, o Giovanni, scala di virtù”. “Piantato presso le acque della continenza, sei apparso o padre somigliantissimo come rigoglioso tralcio che produce grappoli di pietà”. “Spente tutte le passioni con la rugiada delle tue lotte, o padre somigliantissimo, ti sei magnificamente acceso col fuoco dell’amore e della fede: sei divenuto lampada di continenza, luce di impassibilità e figlio del giorno”. “Sei entrato nel celeste banchetto nuziale del Cristo Re indossando una veste degna di chi ti invitava, e lì ti sei posto a mensa”. E quest’ultimo tropario della nona ode ci riconduce al tema del brano di Marco: “Da Dio sei stato fatto medico di quanti soffrono per le colpe, capace di scacciare e perseguitare gli spiriti maligni, o somigliantissimo”.

Forse può essere casuale, ma è sicuramente interessante rapportare il tema dell’altro canone, quello del buon samaritano, al tema della scala. Gesù inizia il suo racconto dicendo “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”. Il fatto che questa strada, scendendo per diversi chilometri nel deserto di Giudea verso la depressione del Mar Morto, non molto lontano da Gerico, allora fosse infestata da briganti così come oggi è abitata da rarissimi beduini, ci interessa molto meno dell’interpretazione che ne da la liturgia, in piena fedeltà ai Padri della Chiesa. Gesù era partito da Gerico per la salita a Gerusalemme, l’ultima tappa, così come il nostro cammino di preparazione alla Pasqua era partito dall’episodio di Zaccheo, ambientato appunto a Gerico. Si può dire che questa città rappresenti ad un tempo perdizione e salvezza: la prima per chi vi discende, la seconda mediante la salita, da Gesù a Zaccheo, dai monaci del Sinai a ciascuno di noi che ripercorre quotidianamente la strada nella sua sequela personale al Cristo verso la Gerusalemme celeste.

Si sa che per tutti i padri che hanno commentato la parabola (Ireneo, Clemente, Origene, Severo di Antiochia e molti altri), il buon Samaritano rappresenta il Salvatore, l’uomo aggredito è il genere umano, i briganti rappresentano i demoni, il furto e le ferite sono i nostri peccati, l’albergatore è una allegoria della Chiesa. Troviamo questi temi percorrendo le odi del canone. “O Cristo, sono simile al viandante caduto nelle mani dei briganti e quasi morto sotto i loro colpi, perché sono vittima dei miei peccati”. “Non disprezzare la mia debolezza, o Dio Salvatore, ascoltando il mio grido e i miei gemiti: ho consegnato la tua ricchezza ai briganti”. “Tu, o Cristo Salvatore, hai curato la mia anima ferita dal peccato e dai pensieri malvagi”. “Cristo Salvatore, mi sono lasciato spogliare dalle mie passioni, e la voluttà mi ha inferto i suoi colpi: effondi su di me il balsamo del tuo amore”. “Spogliandomi, i briganti mi hanno tolto l’impronta dell’opera divina, e mi hanno abbandonato mezzo morto sotto i loro colpi”. “Il levita, vedendomi tutto piagato, senza far caso alle mie ferite, ha proseguito il suo cammino, ma tu, o Salvatore, fermati per salvarmi”. “Poni il tuo sguardo sulle ferite della mia anima, come facesti per il viandante caduto nelle mani dei briganti, e guarisci il mio dolore, te ne prego”. “La mia anima soffre, tutta indolenzita dai colpi con cui i miei peccati l’hanno flagellata; eccomi giacente e privo di virtù”. “Il sacerdote e il levita proseguono il loro cammino, non avendo avuto il coraggio di soccorrermi”. “Vedendo la mia pena, il levita se ne è andato per evitare di macchiarsi con le mie piaghe, ma tu, o Signore amico degli uomini, mi hai versato l’olio della tua ricca misericordia”. “Sotto le rapine dei miei pensieri e i colpi dei miei peccati, la mia vita svanisce, ed eccomi privato della tua divina immagine, o Salvatore”. “Tu venisti dal cielo sulla terra, o mio Salvatore, e davanti alle ferite che mi ricoprivano, poiché avevo subito l’assalto dei miei peccati, hai versato il balsamo della tua compassione sulle mie piaghe, o Cristo salvatore”. “Tu, o Dio e Salvatore, hai dato il tuo corpo e la tua anima per riscattarmi, per salvarmi, ferito come ero dai miei peccati, senza altra speranza di guarigione che la tua bontà, o Signore”. “Signore, non ho osservato i tuoi precetti, ma ho seguito di mia volontà le inclinazioni delle passioni e della voluttà”. “Non sono stati il sacerdote o il levita a lavare le mie piaghe, ma tu, o Dio di bontà: nella tua compassione, sei venuto verso di me, su di me hai versato l’olio del tuo amore e come un saggio medico mi hai curato per guarirmi, o Salvatore”. “O Cristo, pieno di tenerezza, nella tua ardente compassione mi hai salvato quando soffrivo, lacerato dai colpi dei briganti, e come il buon Samaritano versò due denari, tu hai dato il tuo corpo e il tuo sangue per riscattarmi”.

Non resta che concludere facendo riferimento ad un altro affresco, sempre in un monastero femminile greco, quello di san Giovanni il Precursore a Mègara, non lontano da Atene. Due monache iconografe hanno dipinto nel loro refettorio la parabola del Samaritano: che commozione nel vedere non solo che il Samaritano ha il volto di Cristo, ma anche il viandante ferito ha il volto di Cristo, perché anche noi possiamo vedere il volto di Cristo nel nostro fratello sofferente che la divina economia fa trovare sulla nostra strada, in modo da essere noi stessi Cristo per il nostro prossimo, e gli albergatori che accolgono il samaritano e il viandante, entrambi sempre con il medesimo volto di Cristo, altri non sono che i santi Pietro e Paolo sulla soglia della Chiesa, luogo della nostra salvezza.

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