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domenica 2 aprile 2017

Quinta domenica di Quaresima - di santa Maria Egiziaca

di Roberto Pagani

L’ultima domenica del percorso quaresimale si riflette in una grande meditazione che ricapitola la condizione dell’uomo peccatore dando significato al cammino di conversione. La principale intenzione educativa è quindi quella di concludere la Quaresima e di guidare verso i due eventi che inaugurano il transito pasquale, introducendo nella Settimana Santa attraverso il sabato e la domenica seguenti: la risurrezione di Lazzaro e l’ingresso di Gesù in Gerusalemme. Ai consueti esempi tratti sia dall’Antico che dal Nuovo Testamento, si aggiunge, come già nella quarta domenica Giovanni Climaco, una figura singolare che, molto probabilmente, a un cristiano di tradizione occidentale dice poco o nulla: santa Maria Egiziaca.

Non è possibile stabilire con certezza cosa sia storicamente fondato e cosa sia evoluzione nella tradizione. Possiamo dire che nel VI secolo i pellegrini veneravano, nei pressi di un monastero egiziano, la tomba di una santa donna chiamata Maria, che aveva vissuto nel deserto in solitudine e penitenza. Nel VII secolo il patriarca Sofronio di Gerusalemme scrisse una vita di santa Maria Egiziaca che, pur non risalendo ad alcuna fonte storica verificabile, servì da base a tutta la successiva letteratura. Come esempio di questa tradizione, riportiamo la vita della santa tratta dal Sinassario del calendario liturgico di Grottaferrata, monastero alle porte di Roma che ha celebrato nel 2004 il millennio della propria fondazione, avvenuta per opera di san Nilo, un monaco calabro di tradizione greca. L’origine di tale sinassario, pubblicato proprio in occasione del millenario, sono tre manoscritti XII secolo, risalenti ad una fonte databile tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo. “La nostra santa madre Maria prima era peccatrice ed aveva sedotto molte anime di giovani in Egitto, con la brama del piacere, rimanendo nel peccato per 18 anni. In seguito si diede a Dio, attraverso le seguenti circostanze. Essendo molti andati a Gerusalemme per venerare la preziosa Croce, vi andò anche lei e da un angelo veniva impedita di entrare nel tempio per venerare il prezioso legno e se ne addolorò. Dopo che si sottomise a servire Dio, le fu permesso l’ingresso. Allora, postasi sotto la protezione della Madre di Dio, attraversò il Giordano e nel deserto si diede all’esercizio ascetico per 47 anni, non vedendo più nessun uomo. Ma Dio, volendola manifestare, dispose che san Zosima andasse nel deserto, ed egli, incontratala, ricevette la sua confessione. Ritornato poi indietro, prese la Santa Comunione e la comunicò. Ritornato da lei successivamente, la trovò morta; scrisse su un coccio il suo nome e la seppellì, con l’aiuto del leone che lo accompagnava”. L’icona che rappresenta la santa ora appare sicuramente più intelligibile: la Chiesa ha voluto fare di lei un esempio di pentimento, di conversione, di contrizione e di austerità; ponendo la sua memoria proprio nell’ultima domenica di Quaresima, la Chiesa rivolge un chiaro invito a ciascuno di lasciar perdere ogni altra cosa per rivolgere la nostra vita verso l’unica cosa necessaria, per la quale si può vivere e con la quale si può anche morire.

La pericope evangelica domenicale è Mc 10, 32 – 45:

Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti ai discepoli ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore. Prendendo di nuovo in disparte i Dodici, cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà”. E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: “Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”. Egli disse loro: “Cosa volete che io faccia per voi?”. Gli risposero: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Gesù disse loro: “Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gli risposero: “Lo possiamo”. E Gesù disse: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”. All’udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.

Ci si avvicina sempre di più a Gerusalemme, e Gesù continua ad istruire i suoi discepoli su ciò che li attenderà. Ci si avvicina sempre di più alla Pasqua, e noi siamo invitati ad immedesimarci in Giacomo e Giovanni per misurare la nostra disponibilità a seguire Gesù fino in fondo. San Giovanni Crisostomo commenta il brano approfonditamente: “Quelli credevano di entrare nel regno senza passare per la croce e la morte: infatti avevano ascoltato mille volte, ma certo non avevano potuto capire chiaramente. Poiché non erano giunti ad una conoscenza chiara ed esatta di ciò che veniva loro insegnato, ma credevano che Gesù si incamminasse per un regno visibile, e che avrebbe regnato su Gerusalemme, avvicinandosi a lui sul cammino e ritenendo che fosse il momento opportuno, gli rivolgono questa domanda; infatti, separandosi dal gruppo dei discepoli, colta l’occasione propizia, chiedono a Cristo il privilegio di sedere vicino a lui, e di essere i primi fra gli altri; loro credevano che le cose fossero ormai giunte al loro termine, che tutto era stabilito, e che era giunto il tempo delle corone e dei premi. Vedi come quelli non sapevano ciò che chiedevano, quando parlavano con lui di corone e di premi, non essendo ancora iniziate le lotte. Gesù chiama calice e battesimo la sua croce e la sua morte: calice, perché andò verso la croce volontariamente; battesimo, perché con la sua morte purificava la terra intera. E non esistono altri motivi, eccettuata la facilità con la quale risuscitò. Come colui che battezza con acqua, con tutta facilità si alza, non essendo impedito in nulla dalla natura dell’acqua; così anche lui, dopo essere disceso nella morte, con molta facilità risuscita: per questo chiama quella battesimo”.

Gesù ha voluto condividere con noi anche la tentazione del potere: durante l’esperienza del deserto, il diavolo gli mise davanti tutti i regni della terra. Così, di fronte alla richiesta dei due discepoli, Gesù non si scandalizza, ma prende spunto da un evidente limite di coloro che lo avevano seguito per ribadire il suo modo decisamente fuori dai luoghi comuni di intendere il potere. In primo luogo la risposta di Gesù alla domanda dei due fratelli, in cui si scorgono segnali di messianismo a buon mercato, si articola sui simboli del calice e del battesimo. Prendendo ad esempio il libro dei Salmi, il calice è ad un tempo elemento di giudizio (Sal 74, 9) e di salvezza (Sal 115, 13). La morte di Gesù sarà a sua volta giudizio e salvezza: l’amaro calice dell’obbedienza diventerà il vino del banchetto celeste. Il battesimo, nel suo significato etimologico di immersione, ha a sua volta una valenza veterotestamentaria, come ad esempio nel Sal 68, 2-3 dove il gorgo delle acque sommerge e travolge l’uomo sofferente. E se in questo senso è un richiamo esplicito alla morte di Gesù, dall’immersione si riemerge, come ricordava Crisostomo, in virtù della risurrezione. C’è una seconda dimensione della risposta di Gesù che è indirizzata a tutti i discepoli, e quindi a ciascuno di noi: la grandezza del servizio, la fecondità del dono di sé come esercizio del potere.

Tenendo presente da un lato la figura di Maria Egiziaca, dall’altro quanto emerso dal brano evangelico, possiamo affrontare l’ufficiatura liturgica della domenica, nella quale sono intrecciati due temi che riflettono due diversi strati evolutivi, legati uno alla conversione attraverso l’esempio della santa, il secondo alla parabola del ricco epulone e di Lazzaro. Per facilitare la lettura e la riflessione, isoliamo dapprima il contenuto relativo al primo dei due temi.

Le strofe cantate al Lucernario del Vespero ci presentano la figura di Maria Egiziaca in relazione alla Croce: “L’abominio delle depravazioni passate che ancora ti trascinavi, ti impediva la contemplazione delle cose sacre, ma la tua intelligenza spirituale e la consapevolezza di quanto avevi fatto, o sapiente in Dio, hanno operato la tua conversione al bene. Volto infatti lo sguardo ad una icona della benedetta Madre di Dio, riconosciute tutte le tue colpe precedenti, o degna di ogni lode, con fiducia ti sei prostrata al legno prezioso”. La prima parte di questa strofa richiama alla memoria una bellissima scena del film Mission di Roland Joffè, Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1986, che racconta le missioni dei gesuiti in Sud America. In seguito all’uccisione di un suo confratello, padre Gabriel (Jeremy Irons) parte per una regione ancora inesplorata, non raggiunta dalla spinta colonizzatrice né dall’opera missionaria dei gesuiti, una terra abitata solo dai Guaranì che la difendono da qualunque intrusione. Lì avverrà il primo incontro con il capitano Rodrigo Mendoza (Robert De Niro), feroce mercenario al servizio del governo spagnolo, il cui cammino si incrocia misteriosamente con quello del gesuita. Dilaniato dal rimorso per aver ucciso il fratello infatti deciderà di seguirlo alla ricerca di riscatto, legando il suo destino a quello della missione. Commovente la sequenza in cui Mendoza-De Niro trascina il pesante fardello di un passato violento (fatto di spade, corazze, pistole e fucili) da cui non vuole e non può liberarsi e il cui nodo sarà sciolto dalle vittime della sua brutalità. Quale rappresentazione più semplice e nello stesso tempo più efficace della colpa? Ma ritorniamo alle strofe del Lucernario: “Venerando piena di gioia i luoghi santi, nei ha ricevuto un viatico di virtù sommamente salutare; hai percorso con slancio il bel cammino e, attraversato il corso del Giordano, hai scelto coraggiosamente la dimora del Battista; hai dominato l’esuberanza della carne ammansendo con la tua vita la selvaggia ferocia delle passioni”. La strofa che si canta al Gloria, per certi versi è sorprendente: “La potenza della tua croce ha operato prodigi, o Cristo, perché anche colei che era una meretrice ha combattuto la lotta dell’ascesi: bandita la debolezza della natura, ha nobilmente resistito al diavolo. Avendo ricevuto il trofeo della vittoria, ora intercede per le nostre anime”.

Invece che limitarsi a considerazioni moraleggianti, il canone della santa che si canta al Mattutino riesce a dare una profonda lettura teologica ed antropologica. Nella prima ode infatti cantiamo: “Ignorando, o somigliantissima, i divini decreti, hai deturpato l’immagine divina di Dio; ma per divina provvidenza l’hai di nuovo purificata, o degna di ogni lode, poiché sei stata deificata, o santa, per le tue divine azioni”. Nella terza ode l’accento si sposta sulla dinamica passione-morte-risurrezione: “a te, che con le tue malvagie azioni ti eri avvicinata alle porte della perdizione, colui che ha infranto le porte dell'Ade con la forza della divinità apre ora le porte del pentimento, o generabilissima, egli che è la porta della vita”. “Colui che aveva già sparso il suo sangue in riscatto per tutti e che a tutti dona l’essere, ti rende pura col lavacro delle lacrime, affetta come eri dalla tremenda lebbra di un pessimo agire”. Prosegue la quarta ode: “Cercando di vedere la croce, dalla luce della croce sei stata rischiarata, o Maria, al divino cenno di colui che vi fu confitto, e sei stata crocifissa al mondo, o degna di ammirazione”. Nella quinta ode c’è una sottolineatura del tema del corpo come tempio: “Colei che ha contaminato il tuo tempio desidera contemplare, come dice il salmo, il decoro del tuo tempio e la spirituale dimora della tua gloria, per l’intercessione spirituale, o Cristo, di colei che, ignara d’uomo, è divenuta tuo tempio, rendimi tempio dello Spirito che tutto crea”. Nella sesta ode: “Le schiere degli angeli si rallegrano vedendo in te una vita divina simile alla loro”, mentre “le folle dei demoni tenebrosi tremano davanti alla costanza della tua forza, perché tu, una donna sola e nuda, li ha prodigiosamente svergognati”. Il kontàkion che si canta dopo la sesta ode sintetizza mirabilmente i vari elementi: “Colei che un tempo era dedita al vizio ed alle passioni, oggi diviene una Sposa di Cristo grazie al pentimento, desidera la vita degli angeli e sconfigge i demoni con l’arma della croce, divenendo così la sposa del Re”. Nella settima ode viene presentato un dialogo tra Zosima e Maria: “perché, o padre, sei venuto a vedere una povera donna, estranea ad ogni virtù?” “hai mortificato, o beata, i moti delle tue passioni, e sei approdata al porto dell’impassibilità”.

Nell’esapostilario che si canta tra la fine del canone e le lodi, è spiegato il senso della memoria di Maria: “poiché tu sei per noi modello di pentimento, supplica il Cristo che ce lo doni”.

Il canone dedicato a Lazzaro e al ricco epulone tende ad assimilare ciascuno di noi, come soggetto liturgico, a quest’ultimo: “sono simile al ricco che ogni giorno si dilettava nell’abbondanza dei suoi piaceri”. Non dobbiamo intendere la parabola solo in senso pauperistico, come subito saremmo tentati di fare, perché “sono ricco di passioni e di piaceri, ma povero per la mancanza di virtù”. Infatti “la porpora e la seta rivestite dal ricco rappresentano i piaceri e il peccato”, fino a constatare che “i cani ebbero verso il povero più cuore del ricco, dato che ebbero compassione di Lazzaro leccandone le piaghe”. Si ritorna alla spiegazione esortativa della parabola, perché “il ricco sperperò tutta la sua vita nel lusso e la menzogna dei piaceri, e in questo senso sono ricco come lui, ma ti prego di risparmiarmi dal fuoco, nella tua immensa bontà”. Se fossimo onesti con noi stessi, non potremmo che pronunciare una sentenza di auto-condanna: “Ho prosperato nei piaceri come il ricco, rivestito ogni giorno di porpora; Dio misericordioso, anch’io mi condanno per la mollezza della mia vita”. Per fortuna possiamo contare sulla misericordia divina: “ho disprezzato i tuoi precetti come il ricco senza pietà, o Signore, e sono disteso miseramente davanti alla tua porta; ma nel tuo amore e nella tua compassione rialzami dalla fossa, come il tuo amico Lazzaro”. Così uno degli ultimi tropari del canone riecheggia un tema emerso all’inizio del percorso, nella domenica del fariseo e del pubblicano: “noi conosciamo la parabola del Signore: detestiamo la mancanza di cuore del ricco, per evitarne lo stesso castigo; allora noi godremo di una gioia senza fine nel seno di Abramo”.

I temi del canone sono ripresi nel Vespero della domenica, dove al Lucernario cantiamo: “da ricco che eri, o Cristo, sei divenuto povero per arricchire i mortali con il tesoro della tua luce immortale; concedi l’abbondanza delle virtù a me, impoverito dai piaceri di questa vita, ponimi con il povero Lazzaro, risparmiami il castigo del ricco che le mie azioni meriterebbero”. “Il Signore, dimostrando la sua benevolente disposizione nei nostri confronti, ci espone la vita di Lazzaro e del ricco malvagio; considerando la fine di ciascuno, eviteremo l’egoismo e la durezza di cuore del secondo, per imitare la forza e la sopportazione del primo”.

Possiamo ora incamminarci verso l’altro Lazzaro, quello storico, che verrà celebrato al termine della settimana: “cominciando con ardore la sesta settimana della santa Quaresima, cantiamo al Signore, o fedeli, un cantico di lode per la vigilia delle Palme, poiché egli viene nella gloria e la potenza della sua divinità; avanza verso Gerusalemme per sconfiggere la morte: prepariamo dunque i simboli della vittoria, i rami delle nostre virtù, per gridare Osanna al Creatore dell’universo”.

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